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L’Autore lo sa, il tema è delicato. Perciò nell’affrontarlo si fa prudente, scrivendo in punta di penna e mettendo quasi le mani avanti, a scanso di equivoci e di contestazioni: “Lungo i marciapiedi cadono i vecchietti. Sulle strade si sfrangono i motociclisti. Leggero devo andare”. Il riferimento è alle buche delle strade di Roma Capitale. Per le quali, se va bene, ci si può ferire gravemente, ma per le quali anche si muore. I dati sono agghiaccianti. E secondo quelli emersi dallo studio della fondazione Filippo Caracciolo di Aci, che ha intervistato oltre 800 conducenti e resi noti a inizio d’anno 2019, la causa primaria degli scontri è la presenza delle buche (è di questa opinione iI 98% degli intervistati), seguita dai tombini in cattivo stato (81% delle risposte).

Ma nel suo saggio, l’autore vede le buche da un punto di vista inedito. Come espressioni d’arte, non come buche vere e proprie o “terra smossa”, ma semmai come “lacune”, “spessori mancanti” che lastricano il mando stradale. “Con una vasta letteratura che le riguarda”. Cioè, “strati”. “Di morbido asfalto”. “Di pavimentazioni” come “successione modulare di mattonelle, lastre, basole”, nella versione più nobiliare. Quasi dei quadri.

L’architetto Massimo Martini ne scrive così sulla rivista online Aboutart. Lui, non è persona qualsiasi, è semmai un autorevole esponente del GRAU, il Gruppo Romano Architetti Urbanisti, formatosi nella prima metà degli anni Sessanta “attorno ai temi della polemica antiaccademica nella facoltà di Architettura dell’Università di Roma” così come lo descrive la voce dell’Enciclopedia Treccani. Insomma, un movimento d’avanguardia, che tra il 1964 e il 1975 partecipa a importanti concorsi nazionali e internazionali “che precisano i contorni della sperimentazione linguistica” in architettura.

Dalle buche, l’architetto Martini viene colpito “non tanto per l’esito del restauro in fieri della lacuna”, bensì dalla “varietà di forme”, tra le quali fa spicco la lacuna “spigolosa, zigzagante”, che ha origini quasi nobiliari – se così si può dire – anche se “nata nel cotto povero e dissestato di un passo carraio anonimo”.

E qui la prosa si fa persino più poetica, aulica: nata “lungo un viale alberato intitolato al mare breve (…), dove il moto ondoso diventa segno, pensiero” fino al punto in cui “nelle acque delle idee galleggia la lacuna” come “una barchetta fragile, indomita però”. “Uno strappo antico da ricucire”, senza il quale “non c’è antico”, di cui lo strappo è – appunto – la garanzia. Insomma, la buca o, in modo più appropriato, la lacuna, come moderno tatuaggio, potremmo aggiungere, segno indelebile sulla pelle così come sul manto stradale. 

Ma la lista delle varianti di buca, così come una variante di valico sull’Appennino, si allunga nel momento in cui “nell’inventario che certifica il campionario delle differenze” si scopre che “mancava giusto la lacuna incerta” oppure la “lacuna in via di formazione” che però poi andrà a braccetto con la “lacuna infinita”, destinata a replicarsi e riperpetuarsi nel tempo come nello spazio: “Il limite c’è ma è inconoscibile”, sottolinea ancora l’Autore, ma è “una mancanza che non riesce a trovare la misura di se stessa”, quindi c’è “interruzione, discontinuità”.

E qui, già usciamo dal Gran Raccordo Anulare, dalle buche di strada, di città, di selciato, per ritrovarci in quel di Prima Porta, a Roma, lungo la via Flaminia, nei pressi del nuovo cimitero, a un passoa da Saxa Rubra, cittadella dell’informazione radiotelevisiva targata Rai, nella Villa di Livia, laddove se la buca normale – come rileva l’architetto Martini – è di per sé Arte nel Tempio della storicità dell’antico popolo romano, qui in questo luogo che rimanda a duemila anni fa, si trasforma in Arte nell’Arte. Una buca non-qualsiasi se rapportata, appunto, alla “pavimentazione storica” della Villa di Livia.

Ovvero, all’Autore, l’architetto Martini, in quel luogo sacro alla storia e all’Arte sembra quasi di riconoscere “l’archetipo della lacuna. Un impensabile archetipo”. Meglio ancora: “La lacuna stessa fatta idea”. Un qualcosa che va persino oltre la discrepanza, non catalogabile in quanto tale. “Affogata com’è nell’impasto di un massetto informe e senza destino. Più simile a terra solida e compatta, che a uno strato d’asfalto, men che mai sequenza di tessere di mosaico”.

L’elenco della categoria-buca tuttavia s’allunga, contemplando anche la “lacuna riempita” ma “non spianata”, oppure quella “restaurata” ma con quel che capita alla quale fa seguito quella restaurata protempore e in attesa della “soluzione a regola d’arte”. Segue poi la “lacuna come pozzanghera”, mobile, effimera, evaporabile, fatta di acqua stagnante e fango, oppure anche “come pozzanghera ghiacciata” con coté di cristalli. In un effluvio di grigi “che trascolorano in altri grigi” mentre l’asfalto, “il nero assoluto per eccellenza” va ingrigendo pure lui.

È la “chimica della città”, conclude Martini. È la chimica di Roma, purtroppo, se poi la vogliamo dire tutta e dare un nome ai luoghi. Però, come in un quadro. O  come in una stampa, bellezza! Così, tanto per parafrasare il detto…