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Un gaudente lo fu per poco tempo, un gourmet fino a un certo punto. In compenso fu, a suo modo, un padre dell’Europa come l’abbiamo immaginata noi molto tempo dopo: oltre gli stati nazionali. E pensare che quando morì, esattamente 150 anni fa, Gioacchino Rossini aveva fatto in tempo ad assistere, sì e no, alla riunificazione italiana.

Ma così sono i grandi intellettuali: vedono oltre le generazioni, quelle del futuro e quelle del passato. E Rossini, spirato alle porte di Parigi il 13 novembre 1868, bucò letteralmente il suo secolo ed i confini del suo Paese per rincorrere un ideale fatto di armonia raffaellesca e musica geometrica che lo legava ad Haydn e lo rese gradito ai surrealisti. La necessità di una armonia europea – non solo musicale – che sa mettere insieme Mozart ed i cartoni animati degli anni ruggenti dell’animazione. Lone Ranger alla corte di Carlo X.

Verrebbe da dire: una figura nazional-popolare o magari postmoderna, da vero neoclassico. Fra le sue prime composizioni c’è anche il primo Inno all’Unità d’Italia. Risale al 1815: Mameli sarebbe arrivato solo 32 anni dopo. Nel frattempo Rossini aveva già chiuso la carriera.

Vittorio Emiliani è uno dei principali biografi del Maestro. È anche un esperto di beni culturali: ha dedicato alle sofferenze della città dove vive un accorato, esortativo “Roma capitale malamata” appena uscito presso Il Mulino. Quanto a Rossini, Emiliani sta per andare in onda una rievocazione radiofonica su Radio3 martedì 13 alle 21, con Lorenzo Lavia e un complesso d’archi, “Pensa alla Patria”. Una citazione dall’Italiana in Algeri. Ne parla con l’Agi.

“Pensa alla Patria”: un’espressione che difficilmente si accosterebbe a Rossini, che di solito viene identificato con un altro motto: “La vita è mangiare, amare, cantare e digerire”.

“Sono luoghi comuni, questi che lo vogliono eternamente felice, gaudente e mangiatore”.

Ma piangeva se un tacchino farcito gli finiva nel fiume…

“La verità è che ebbe molte vite. Una prima vita di divertimento, creatività e salute intense. Poi però iniziarono i dolori. Nel suo periodo napoletano prende una malattia venerea. Non subì le conseguenze che ebbero nella stessa situazione Donizetti e Paganini, che ne morirono, ma ugualmente da quel momento la sua vita cambia, nonostante ci sarebbero stati ancora anni di successi e trionfi”.

Però le sue cene, anche nell’ultimo periodo a Parigi, erano famose.

“Certo, i menù erano ricchissimi, ma lui ormai era un depresso e mangiava molto poco. Oppure, da ciclotimico qual era, ne approfittava per esaltarsi nei momenti di euforia. Come quando organizzò un paio di cene ‘alla Wagner’. Nella prima i piatti di pesce erano pieni solo di maionese, a sottolineare la scarsa sostanza del Tannhaeuser; nella seconda tutto quello che fece preparare fu una baraonda per pentole e coperchi che dalla cucina salì fino in sala da pranzo, con lo stesso scopo dimostrativo. Non proprio un Lucullo”.

Da qualcuno l’avrà ripreso, questo spirito goliardico.

“Il padre, un suonatore di tromba squillante originario di Lugo di Romagna, era detto Il Vivazza. Un tipo esuberante anche in politica, giacobino e repubblicano. Passò i suoi guai per aver aperto le porte del ghetto di Pesaro. La pagò con un anno di fortezza. La madre invece era un soprano che aveva fatto, anche lei, la sua rivoluzione: fu tra le primissime donne a cantare in un teatro, in un ambiente ancora dominato dai castrati”.

Poco conformisti entrambi.

“Come anche il figlio, che grazie anche a un paio di eccellenti maestri, i canonici Malerbi di Lugo, non si accontenta, come tutti all’epoca, di nutrirsi di melodramma italiano, ma studia la musica del mondo austriaco e tedesco. Studia, ascolta ed esegue, copiandone la notte gli spartiti, Bach, Gluck, Haendel, Mozart e Haydn. Sviluppa una mentalità europea, è innamorato di Raffaello e della sua armonia ma formato anche sulle note del Nordeuropa. I frutti si vedranno molto presto. È un compositore precoce, come Mozart. Per i suoi gusti musicali c’è chi a Bologna gli dà il soprannome di Tedeschino, e non è sempre una cosa benevola”.

 

 

Comunque lascia presto Bologna e le sue malignità.

“Bologna sarà sempre, di fatto, la sua città, anche se si sentirà tradito da essa – in modo gravissimo – per ben due volte nel 1849 e nel 1851. Sarà accusato di essere un ‘ricco retrogrado’ se non un vero e proprio austriacante. È il motivo per cui alla fine va a vivere a Parigi. Ma questo accade solo più tardi. All’inizio lascia Bologna perché già conosce il successo: a Venezia e poi, soprattutto, a Napoli”.

Napoli, dove viene consacrato compositore di livello internazionale.

“Lui ha poco più di vent’anni e qui lo sorprende la Storia sotto forma di Giacchino Murat. Si noti: compone con l’Italiana in Algeri un’opera buffa dal finale tutto politico. È il Rondò di Isabella, in cui la donna italiana rinchiusa nell’harem si rivolge ai suoi connazionali schiavi e canta: Pensa alla patria, e intrepido / Il tuo dover adempi / Vedi per tutta Italia / Rinascere gli esempi. Siamo molti anni prima di Verdi. Non a caso poco dopo Murat fa scrivere a Pellegrino Rossi il Proclama di Rimini, in cui chiama gli italiani alla lotta per l’indipendenza”.

E Rossini?

“Rossini su richiesta di Murat compone un Inno per l’Italia. Non ne è rimasta nemmeno una nota. Solo qualche parola: Sorgi Italia che l’ora è venuta …. Non è molto. Lui comunque fece in tempo non solo a comporlo, ma anche a dirigerne la prima esecuzione. E qui entriamo in un’altra dimensione del personaggio: la sua modernità. Il direttore d’orchestra è una figura che si afferma in Francia in quegli anni, ma in Italia è ancora sconosciuta. Rossini anticipa i tempi, e non è l’unica volta”.

Le altre volte?

“Sempre a Napoli, sempre grazie a Murat, che ha istallato nel foyer del San Carlo i tavoli del gioco d’azzardo. Un profluvio di soldi per le casse dello Stato, che Rossini usa per creare – attenzione – la prima orchestra e il primo coro stabile d’Europa e una compagnia di canto fissa. Un modello che ripeterà anche a Parigi. I francesi a loro modo lo ripagheranno perchéhanno già creato con Beaumarchais creeranno la prima Società Autori Editori, che permetterà a lui di incassare le royalties dei suoi successi”.

Più che europeo verrebbe da dire creatore dello show-business all’americana.

“In realtà aveva un rapporto con la sua arte che oggi potremmo definire di grande professionalità, insieme a fiuto commerciale. Per lui le prove erano veramente le prove, una cosa serissima. Lui era preciso al limite della pignoleria, e oltre. A 19 anni, poco soddisfatto della performance di un coro in una sua rappresentazione, prese letteralmente il bastone in mano. Dovette intervenire la forza pubblica”.

Poco affine con l’idea che si ha di lui, di un bonaccione.

“Era molto passionale. Anche se la sua musica è estremamente equilibrata, con estri incredibili: Stendhal definisce “L’Italiana in Algeri” una folie organisee. In realtà lui è un compositore neoclassico, che definisce Raffaello il suo vero maestro e che con le sue opere va oltre il Romanticismo, fin dentro il pieno Novecento. Non a caso è molto usato anche nelle pubblicità”.

Quasi un rifiuto di quanto ha caratterizzato l’Ottocento e il Romanticismo

“Dopo Napoli va a Roma, dove la Restaurazione non era così pesante grazie al Cardinal Consalvi e a Pio VII. Poi si sposta per l’Europa: Vienna, Londra, Parigi. Acquisisce una visuale ben più ampia delle semplici cause nazionali. A voler essere precisi: mentre nasce la moda ‘alla Rossini’, che alla Corte di San Giacomo chiamavano ‘Rossini Fever’, lui non è coinvolto nel Risorgimento. Non ha mai il coraggio, forse, di essere un eroe risorgimentale, Ma nonostante questo l’idea di libertà è un leit-motiv della sua opera. I suoi viaggi europei ne plasmano la sensibilità. Alla fine non è altro se non un cittadino europeo, che guarda oltre gli stati nazionali. Punta alla pace in Europa, e gli importa relativamente di come questa armonia potrà essere raggiunta”.

È per questo che compone la cantata alla Santa Alleanza, eseguita all’Arena di Verona nel 1822 in piena Restaurazione?

“Pensiamo soprattutto a cosa canta il Barone di Trombonok nel Viaggio a Reims: “dell’Europa sempre sia / il destin felice appien / Viva viva l’armonia / che è soprgente di ogni ben”. L’opera venne composta per l’incoronazione di Carlo X di Francia. Ma il respiro è ben più ampio”.

Si preferisce ricordare il messaggio di indipendenza del Guglielmo Tell"

“A quel punto viene consacrato, quasi suo malgrado, un eroe del Risorgimento, soprattutto il musicista della Libertà. Ma vale quello che sospirava ogni tanto, negli ultimi anni di vita”.

Vale a dire?

“Cose del tipo ‘Bisogna essere volgari, per avere successo oggi’. Oppure: ‘Che tempi merdosi che viviamo’”.

Proprio con queste parole?

“Parole molto attuali, mi pare. Lui che era noto per l’eloquio gentile. Il fatto è che il suo mondo ormai era finito, e lui non dormiva e non mangiava più. Altro che gourmet”.