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In occasione del 50° anniversario del 1968, Agi Agenzia Italia ha ricostruito l’archivio storico di quell’anno, recuperando il patrimonio di tutte le storiche agenzie italiane e internazionali, organizzando una  mostra fotografica e multimediale che sarà allestita al Museo di Roma in Trastevere dal 5 maggio al 2 settembre 2018. Si chiama "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo”. Nel catalogo della mostra, i contributi di alcuni dei protagonisti e degli studiosi di quell'anno così fondamentale nella storia del Ventesimo secolo. Quello che segue è l'intervento di Vincenzo Martucci, giornalista, storico inviato della Gazzetta dello Sport.

 

Zoff, Burgnich, Facchetti, Rosato, Guarneri, Salvadore, Domenghini, Mazzola A., Anastasi, De Sisti, Riva. Nel ‘68, le formazioni di calcio si mandavano a memoria e si ripetevano tutte d’un fiato, con gli eroi dell’album Panini che scandivano le nostre emozioni in un bolero sconvolgente, dall’1 del portiere all’11 dell’ala sinistra.

“Coloriamo la vita”, gridavamo davanti alla tv ancora in bianco e nero. Quella formazione in particolare, che il 10 giugno 1968 conquistò gli Europei allo stadio Olimpico di Roma, resta indimenticabile: nessun’altra Italia ha più vinto il campionato continentale, nessun’altra è stata così rivoluzionaria. Perché, anche se il cittì, Ferruccio Valcareggi, teneva i ragazzi alla larga dagli incendi della società, il caos di quegli anni cominciò già dai numeri delle maglie: il mitico portiere del Napoli (e poi della Juve) diventò 22, Rombo di Tuono si trasformò nel 17, il gigante Giacinto figurò come 10, Pietruzzu con le sopracciglia unite, sprintò in attacco col 2.

Nelle gare internazionali le maglie seguivano l’ordine alfabetico e, proprio fino alle semifinali degli Europei del ’68, a Napoli contro l’Unione Sovietica, gli 0-0 si dirimevano lanciando una monetina: testa o croce, segnando un goal al caso. Anche due. Perché l’oggetto dei desideri si infilò in una fessura del pavimento e, solo nel replay, sorrise al gigante buono, capitan Facchetti. Dopo una partita che era sembrata già persa: Rivera si era fatto male, non esistevano ancora le sostituzioni, ed avevamo giocato in dieci anche ai supplementari. Sì, avevamo vinto. Viva l’Italia!


 Capitan Facchetti

Anche la finale fu epica, e plurima. Un tiraccio su punizione di Domenghini riacciuffò solo all’80° l’allora Jugoslavia: 1-1. Il dramma diventò liberazione, il silenzio irreale si tramutò in bolgia, la replica decisiva era fissata due giorni dopo, sempre all’Olimpico di Roma. Lazzaro-GiggiRiva si alzò dal letto di dolore  della pubalgia e segnò al 12′, sul filo del fuorigioco, in una squadra rivoluzionata per cinque undicesimi, cambiando tutto il centrocampo. Nuova, fresca, anche un po’ folle, come l’aria di quell’epoca. Bella come i vent’anni dello scugnizzo Anastasi che inventò il 2-0 al minuto 31. Bella come la gente che sventolava felice il tricolore, mentre lo stadio s’incendiava di migliaia di accendini scintillanti come a un concerto rock. L’Italia aveva riscattato la Caporetto ai Mondiali inglesi del ’66 contro la Corea, l’Italia – una e indivisibile – metteva in vetrina i suoi tanti talenti, figli di tutto il paese, dal Nord dei taciturni friulani Burgnich e Zoff al Sud del radioso siciliano Anastasi, transitando per Roma, di “Picchio” De Sisti.

Che svolta, dopo lo scudetto del Milan del paròn Nereo Rocco, bonario ma non qualunquista: “Vinca il migliore? “Speremo de no”. L’aria era cambiata: subito dopo, vinse Firenze e poi Cagliari, col primo grande no al potere di Riva alla Juventus. Il ’68 aveva segnato anche il calcio.

 

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