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“Allah Salah” è il riuscitissimo titolo di un quotidiano inglese sulle ultime imprese dell’attaccante del Liverpool, che nel 2015 è transitato alla Fiorentina (6 gol in 16 partite) e poi nel 2015-2017 alla Roma (29 gol in 65 partite), emigrando alla Premier League per 42 milioni di euro. “Allah Salah”, in questo pazzo pazzo mondo sarebbe stato troppo squillante, smodato, persino pericoloso se fosse stato abbinato ad altre icone del mondo musulmano. Ma non è questo il caso di Mohamed Salah Hamed Mahrous Ghaly, detto Momo, freccia egiziana dei Reds.

Finalista l’anno scorso e neo semifinalista di Champions, il fuoriclasse-uomo, il primo che dice cose controcorrente rispetto al politically correct, e lo fa ad alta voce, a testa alta: “Essere il primo egiziano in questa situazione, fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima… È qualcosa di differente. Anche se, lo ammetto, sento un po’ di pressione”.

La sua vita da star? “È una vita normale, la maggior parte della giornata la passo a casa, non mi piace nemmeno uscire”. La sua famiglia? La moglie, Magi, e la figlioletta, Makka (in onore alla Mecca, la città sacra). Il suo commento alla copertina di Time, la rivista che l’ha appena inserito fra le 100 persone più influenti? “È necessario un grande cambiamento nel modo in cui le donne vengono trattate nella nostra cultura. Non ci sono alternative. Io per primo, nella mia posizione, sento che devo sostenerle più di quanto abbia mai fatto prima, sento che meritano molto più di quanto non diamo loro oggi”.

Momo non ha paura. Nemmeno del pesante appellativo: Messi d’Egitto. “Avevo il diritto di scegliere il mio futuro”, disse già al padre, ex calciatore, che l’avrebbe voluto laureato. Ha rivendicato il diritto di crescita/maturazione/esplosione, dall’esordio nella prima serie egiziana nel maggio 2010, a 17 anni, nelle giovanili dell’Al-Mokawloon, al primo gol, solo la stagione successiva, da titolare in squadra. Quando non era ancora la luce del gioco: fantasia, imprevedibilità, velocità di testa e di piede, dribbling in accelerazione che si moltiplica trasformandosi in esaltazione, danza, gioia, estasi.

E anche al Mondiale Under 20 s’era fatto notare solo per un gol su rigore. Figlio di una cultura diversa, che nasce dalla parola umiltà e si evolve nel miglioramento continuo, fino a trasformare pian pianino in gigante il piccoletto di 1.70 che deve districarsi contro quegli armadi di difensori di 1.90. Grande dentro, con quella tecnica sopraffina anche quando le operazioni sono velocissime, e sempre feddissimo,  Mo annuncia al suo Egitto che si sente piccolo in quei confini, e vuole misurarsi con quelli dell’Europa.

Ci arriva subito, a 20 anni, per vincere il campionato svizzero. Ma l’Egitto non è ancora pronto. Non può vederlo baciare sulla guancia dalla miss del premio di miglior giocatore dell’anno col Basilea, griffati da 10 gol e 11 assist che cancellano il ricordo della star Shaqiri. E lui si ribella a quella chiusura mentale, ai dogmi musulmani contro il contatto fisico in pubblico tra persone di sesso diverso: “Mi hanno rovinato la gioia di quel momento, invece di pensare al premio hanno guardato solo al bacio di quella donna. In Svizzera mi applaudono, ovunque, invece dai miei connazionali ricevo critiche”.

Ma non è oltranzista e conservatore, anzi, è moderno e spiega volentieri: “Si vede bene, dal video, quanto fossi imbarazzato, Dio sa che io proprio non volevo farlo, non ho partecipato”. Sempre molto vicino alla sua gente, sempre uno di loro, anche se non era fisicamente in patria quando il paese soffriva i giorni peggiori: “Non c’è nulla di più importante del sangue dei connazionali. Non esulterò finché questo dramma non finirà”. Orgoglioso ambasciatore egiziano all’estero. Sempre, comunque.

Anche nel luglio 2014, quando il nuovo ministro dell’educazione ha anullato la deroga-Salah, minacciando un istantaneo e drammatico rientro in patria per assolvere agli obblighi di leva. Mo si è salvato per un soffio e solo per l’intervento del ct della nazionale, Shawky Gharib. Ma, anche da calciatore della Fiorentina, ha scelto la maglia numero 74 per ricordare le vittime della tragedia di Port Said. E, quando una ventina di circa dello Zamalek sono rimasti uccisi negli scontri con la polizia, ha twittato, impavido: “Sono d’accordo, biosogna riprendere in fretta il campionato, ma le vittime avranno giustizia in tempi rapidi?”.

Salah corre troppo veloce, soprattutto per i difensori più strenui, del suo Egitto. Così, nei preliminari di Champions 2013, Basilea-Maccabi Tel Aviv, è diventato un caso internazionale: nella prima partita, Mo ha dribblato davvero le tradizionali strette di mano tra le due squadre per allacciarsi le scarpe ed è stato davvero in forse giocherà nel ritorno in Israele. Aldilà delle parole, più o meno incontrollate, Mo invece di salutare gli avversari con la classica stretta di mano, gli ha offerto un pugno chiuso collettivo. Caricandosi coi fischi del pubblico segnando il 2-0 e contribuendo al decisivo 3-3, e pregando il giorno dopo nella moschea di Al-agsa, nella città vecchia di Gerusalemme.

Quand’è arrivato al Chelsea, dopo un anno a Basilea, Mo non era ancora pronto a Mou, inteso come Mourinho. Ha avuto bisogno del dopo-scuola nella serie italiana, come calcio e come di gestione dei media. Per diventare protagonista assoluto al Liverpool, dall’estate 2017, dov’è diventato subito capocannoniere della Premier con 32 reti, più di Shearer, Cristiano Ronaldo e Suarez (peraltro segnando contro 17 squadre diverse), miglior giocatore della stagione. Anche se poi ha lasciato la finale di Champions League col Real Madrid dopo mezz’ora è uscito dal campo, infortunato a una spalla dopo uno scontro con Sergio Ramos, abbandonando i Reds alla sconfitta.

E rimandando i sogni di gloria alla competizione di quest’anno. Intanto, ha donato 560 mila euro all’ospedale pediatrico de il Cairo per i bambini malati di cancro al midollo osseo, e altri 450 mila al villaggio di Nagrig, per un impianto di acqua potabile e un sistema di irrigazione dei campi. Perché Salah è un profeta, non solo per gli egiziani, ma per i musulmani tutti. E, quando i tifosi del Chelsea (la sua ex squadra) l’hanno beccato coi loro canti razzisti, lui ha reagito segnando il 2-0 con un tiro imparabile dettato dal magico piede sinistro. Poi s’è messo in una posa yoga, il “Tree pose”, che rappresenta il raggiungimento della pace interiore.