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Prima annuncia l’arrivo di “armi nuove, simpatiche e intelligenti”, poi sembra ripensarci, e twitta: “Potrebbe avvenire presto, ma anche non avvenire presto per niente”: Donald Trump, di fronte agli sviluppi della crisi siriana, sembra essere per lo meno ondivago. Ma le ragioni di un eventuale ripensamento ci sono, e sono ben radicate sul territorio siriano, dove si trovano da anni centinaia di soldati americani destinasti in qualche modo a fare da scudi umani e dove Bashar Assad, con Putin dietro di lui, ha a disposizione missili e, come dimostrato in questi giorni, armi chimiche.

Il primo punto su cui fare chiarezza, in vista di un eventuale raid prolungato, è lo scopo che ci si prefigge di raggiungere. Washington ha preso in considerazione l’azione militare dopo l’ennesimo attacco chimico che Damasco ha sferrato contro gli insorti e la popolazione civile. Impedire che ve ne siano di nuovi (nel corso degli ultimi 12 mesi ne sono stati registrati più di una ventina), è la prima delle necessità.  Ma il dilemma a questo punto è duplice: o si va fino in fondo con Assad (ma gli Usa hanno rinunciato da tempo a volerne la defenestrazione: questa semmai era l’opzione di Obama) o si manda un più che chiaro altolà a Iran e Russia, che di Assad sono i principali sostenitori. Quest’ultima opzione aprirebbe però scenari difficilmente controllabili, tanto più che Trump con la Russia ha un rapporto per lo meno complesso. Resta, di fatto, una sola possibilità, quella dell’azione militare ben mirata. Ma non sarebbe, con ogni probabilità, un’azione risolutiva.

L’unica opzione possibile (oltre a restare a guardare)

Se si vuole colpire, è bene colpire dove l’altro sente di più il colpo. Nel caso della Siria, si dovrebbe iniziare con una serie di incursioni mirate delle forze aeree, per indebolire le istallazioni missilistiche del regime siriano. È probabile che possano essere utilizzati, allo scopo, non solo gli Stealth, ma anche gli F-22 e i B2: caccia i primi, bombardieri i secondi. Ma sarebbe un errore pensare che ciò possa bastare a far deflettere Assad, che ha dimostrato qualcosa in più di una semplice resilienza alle pressioni della comunità internazionale.

La verità è che un’azione che voglia rappresentare una svolta nella crisi siriana non può limitarsi a poche azioni sporadiche, anche se chirurgiche. Si renderebbero, in realtà, necessari attacchi mirati sulle istallazioni militari centrali per indebolire le strutture di comando, sui depositi principali di materiale bellico, sulla flotta di elicotteri (i mezzi più usati nella sporca guerra agli insorti). Inoltre il Pentagono potrebbe ritenere necessario estendere gli attacchi anche alle infrastrutture civili, agli aeroporti, alla rete stradale, alle raffinerie e alle fabbriche di prodotti chimici, se non altro per indebolire la tenuta dell’economia siriana. Ma a questo punto sarebbe quasi inevitabile una risposta di Putin e forse dello stesso Iran. Senza considerare che prima arriverebbe quella di Assad.

I missili di Assad

Il dittatore siriano ha aumentato la sua capacità bellica dal 2015 in avanti, anno in cui hanno preso ad affluire verso Damasco i nuovi sistemi d’arma spediti da Putin. Il Cremlino, da allora, non ha nascosto di aver usato il teatro di guerra in Siria come un campo particolarmente adatto per sperimentare i nuovi armamenti messi a punto dalla propria industria bellica, precisando che si è trattato di decine e decine di sistemi. Che i tratti di armi non prive di efficacia lo può testimoniare sia il numero delle perdite umane e materiali del fronte degli insorti (ultimamente soprattutto le forze filocurde nel nord), sia il fatto che a febbraio anche gli israeliani hanno sperimentato l’efficacia della contraerea siriana. Perdendo un caccia F-16, fatto del tutto inusitato.

​In particolare Damasco può contare su un sistema missilistico terra-aria il cui nerbo sono gli S-400 di fabbricazione russa, cui si accompagnano i meno evoluti S-300 e le testate a breve gittata degli SA-21 e degli SA-22. Inoltre si tratta di armi disperse su tutto il territorio siriano lungo almeno 15 basi militari. Ottenere il loro annientamento sarebbe particolarmente impegnativo, e richiederebbe più che l’uso di mezzi aerei tradizionali, con a bordo i top gun americani, missili di crociera sparati da più lontano, magari dalle acque del Mediterraneo. Qualcosa di simile a ciò che avvenne, all’inizio degli anni ’80, quando francesi e americani bombardarono lo Chouf, in Libano, in risposta ai micidiali attentati alle ambasciate di Parigi e Washington nel centro di Beirut.

Duemila soldati di troppo

Paradossalmente, sono i militari americani che rendono complicato il ricorso all’opzione militare. Sul territorio siriano infatti ve ne sono molte centinaia: i primi sono arrivati verso la fine del 2015 con un piccolo contingente delle Special Operations Forces. La loro missione era quella di organizzare le forze pronte a combattere contro l’Isis. In seguito il numero è andato aumentando con l’aumentare dell’impegno sul campo delle milizie curde e arabe elle Forze Democratiche Siriane, quelle che alla fine sono arrivate alla liberazione di Raqqa, capitale del sedicente Califfato.

Oggi si calcola che il numero complessivo delle forze statunitensi nel paese mediorientale sia grossomodo di duemila, ed è cambiata anche la natura del loro impiego: da forze assimilabili a commando, dotate di grande mobilità sul terreno, a presenza più stabile e riconoscibile, quindi più individuabile. Alle forze speciali si sono infatti uniti elementi usati nella difesa di alcune strutture, nel pattugliamento del territorio, nelle basi logistiche. Finora sono riuscite a evitare il doppio pericolo di pestare i piedi direttamente ai russi e ai siriani. Ma basterebbe un missile per far saltare il delicato equilibrio.