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Lo 'Stato islamico' ha sempre dato vitale importanza ai simboli. E martedì 17 ottobre, perdendo Raqqa, ne ha perso uno dei più preziosi. Forse il più prezioso. Perché, nonostante fossero passati solo tre anni, un nulla rispetto alla storia, è riuscito a inserirsi nell'immaginario comune non solo come la capitale dello 'Stato islamico' ma anche, e soprattutto, come la città del terrore. Dove chi non rispettava la Sharia, la legge islamica, secondo l'interpretazione deviata dei giudici del califfato, finiva in piazza per essere giustiziato. Davanti ai cittadini e davanti al mondo, perché c'era sempre qualcuno pronto con la telecamera a filmare o, addirittura, a trasmettere in diretta ai followers incagliati nella rete.

Passare dal terrorismo alla pubblica amministrazione

Raqqa è stata la prima città siriana a essere conquistata dall'Isis e ha rappresentato il passaggio definitivo da organizzazione terroristica a un'amministrazione pubblica.

Anche in questo caso non sono mancati i video di promozione dove veniva mostrata al mondo l'efficienza della macchina gestionale del califfato. Per dimostrare come fossero capaci non solo di conquistare, ma anche di amministrare.

Il 17 ottobre è crollato tutto. Decretando il tramonto dell'ultimo califfato, mai riconosciuto, che si è voluto presentare al mondo. Dal 2014, da quando Al Baghdadi annunciò il suo regno dal pulpito della moschea di Mosul, a oggi l'Isis ha perso l'87 per cento del territorio conquistato. Oltre 6,5 milioni di persone non sono più costrette a vivere sotto il terrore del vessillo nero.

Geograficamente, la sua presenza attuale si limita in Siria ad alcune zone che comprendono Homs e Hama (nel centro) e nel sud vicino alla capitale Damasco. E' impegnato in una sanguinosa battaglia per non cedere Deir Ezzor, a 150 chilometri da Raqqa, all'esercito siriano del presidente Basshar Al Assad, appoggiato da rinforzi russi e iraniani. Anche su questo fronte continua a perdere terreno e la ritirata finale è questione di settimane, al massimo.

In Siria va male, in Iraq va peggio

In Iraq non va meglio: i jihadisti che hanno giurato fedeltà ad Al Baghdadi sono circondati in alcune zone nel confine con la Siria. Nel luglio scorso hanno perso il controllo di Mosul, la prima capitale dell'Isis, dopo una battaglia durata quasi un anno. Lo stesso Al Baghdadi, nel suo ultimo messaggio audio pubblicato online il 28 settembre scorso, ha elogiato la loro resistenza “perché hanno ceduto solo dove aver sacrificato il proprio sangue”.

Pochi giorno dopo la diffusione dell’audio, lo 'Stato islamico' ha perso anche Hawija, 200 chilometri a sud di Mosul, senza però affaticare molto l’esercito iracheno. “In tanti si sono arresi, presentandosi con le mani in alto” ha raccontato chi ha partecipato in prima linea. Non era mai successo prima. C’è stato persino chi si è lamentato del fatto che nessuno lo pagava più e che ormai i combattenti del tanto temuto esercito nero non trovavano più nemmeno da mangiare. Mosul è stata espugnata, Hawija si è arresa. Questa è la differenza dell’Isis forte, del passato, e quello attuale, in fuga per la salvezza.

La forza dell'ideologia. Da non sottovalutare

Sarebbe però incosciente cantare vittoria. Perché la forza dello Stato islamico e, in generale, dell’estremismo jihadista sta nell’ideologia. Avere un territorio da comandare è stato un successo quasi insolito. Perderlo vorrà dire tornare semplicemente a essere un’organizzazione terroristica. Com’era stato prima e com’è sempre stata, ad esempio, Al Qaeda. Meno evidente ma non meno pericolosa.

Anzi, ora che l’utopia del califfato sta svanendo a colpi di missili, c’è il concreto rischio che le migliaia di foreign fighters tornino a casa loro, quindi in Occidente. E non possiamo sapere con quali intenzioni. E’ indubbio che il califfato più è debole sul terreno più si impegna a esportare il terrore fuori, per rivendicare la propria esistenza e mostrare la propria forza. Porterà dunque avanti la propria campagna mediatica, su cui in passato ha investito tanto, e allo stesso tempo cercherà di individuare nuovi territori da poter sfruttare per insediarsi e tornare a sognare di nuovo la creazione di un califfato.

L’attenzione resta puntata sicuramente sulle zone dove regna l’instabilità. A partire dall’Africa, centrale e del Nord. Dalla Somalia, dove solo sabato un attentato ha fatto oltre trecento morti, alla Nigeria dove i Boko Haram continuano a colpire con forza. Ci sono inoltre la Libia, ancora terreno fertile, il Sinai egiziano e lo Yemen.