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Sempre lì – facendo lo slalom fra i tribunali – la stessa domanda: ma gli autisti di Uber e i fattorini che consegnano cibo a domicilio sono lavoratori dipendi? Una nuova legge, in California, risponde: sì, devono avere contratto, stipendio, ferie e malattie pagate. La proposta è già stata approvata e, dopo il passaggio dal Gavin Newsom (che ha già fatto sapere che firmerà), dovrebbe entrare in vigore dal prossimo primo gennaio. Tutto chiuso? Neanche per sogno. 

La linea dura di Uber

Tony West, capo degli affari legali di Uber, ha già fatto sapere la compagnia non applicherà il provvedimento: “Non siamo estranei alle battaglie legali”. Come a dire: non abbiamo problemi a tirarla per le lunghe in tribunale. Meglio qualche milione di parcelle che ricevere un duro colpo alle casse della compagnia. Lyft, tramite un portavoce, aveva già dichiarato al New York Times di essere delusa dalle legge californiana, perché rappresenta “un’occasione persa per supportare la stragrande maggioranza dei conducenti, che desiderano una soluzione bilanciata tra flessibilità, benefit e standard di guadagno”. Non un rifiuto secco, quindi, ma la richiesta di un inquadramento preciso: né dipendenti, né autonomi. L’impressione è quindi che si vada verso nuovi scontri, che dovrebbero poi evolversi in negoziazioni.

Cosa prevede la legge

Uber e la sua principale concorrente statunitense, Lyft, sono i primi nomi a cui si pensa. Ma la legge coinvolgerebbe tutte le attività che rientrano nel perimetro (sfumato) della cosiddetta gig-economy: impieghi gestiti da app e siti, che vanno dal food delivery alle corse in auto, dalle piccole commissioni ai lavori domestici.Il disegno di legge, noto come Assembly Bill 5, è stato approvato perché, di fatto, le piattaforme eserciterebbero un controllo diretto sugli autisti. Secondo le compagnie, invece, sarebbero collaboratori che possono organizzarsi in modo autonomo e flessibile.

Se alcune sentenze (contraddette da altre) hanno già indicato autisti e fattorini come “dipendenti”, adesso c’è di mezzo una legge, in uno stato importante come la California (dove Uber e Lyft hanno sede) che potrebbe ridare slancio a norme statali ma anche federali. Lo scorso anno New York ha approvato un salario minimo per i driver, ma senza classificarli come dipendenti. Il loro status è sempre stato discusso, ma fino a una manciata di anni fa le compagnie potevano permettersi un “no” secco, senza condizioni. Oggi l’aria è cambiata, anche dal punto di vista politico: tre candidati alla presidenza democratica (Kamala Harris, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren) si sono già detti favorevoli a un regolamentazione dei gig-lavoratori a livello nazionale.  

Le possibili conseguenze

L’impatto della legge californiana potrebbe essere massiccio: i lavoratori interessati sarebbero circa un milione. Presto per definire il peso sulle casse delle piattaforme, ma secondo alcuni esperti interpellati dal New York Times, inquadrare tutti come dipendenti potrebbe gonfiare i costi del 20-30%. Uber e Lyft hanno sottolineato che sarebbero costrette a programmare i turni e limitare la flessibilità degli autisti (anche se questo punto è ancora discusso a livello giuridico). Le società potrebbero, per ragioni economiche, dosare il numero dei driver attivi: se le piattaforme dovessero pagare uno stipendio, tenderebbero a operare solo nelle zone in cui gli incassi giustifichino i costi del personale. È già così, ma i margini sarebbero molto più ristretti. Risultato: in alcune aree, potrebbero essere coinvolti meno autisti e il servizio potrebbe peggiorare.

Negoziazione e lobbying

L’avvicendamento tra il fondatore Travis Kalanick e Dara Khosrowshahi, ceo di Uber dal settembre 2017, è servita anche a dare un volto nuovo e a inaugurare una strategia meno frontale. Non solo a parole: Uber ha offerto tutele assicurative e ascoltato le richieste degli autisti su alcune funzioni che tutelassero la loro sicurezza. Ma il nuovo corso, come quello vecchio, non si è mosso di un millimetro sullo status di dipendenti. Nella gig economy, i modelli di remunerazione, negli Stati Uniti come in Italia, non sono tutti uguali.

Ma tutte le società sono d’accordo su questo punto. Con una flotta di assunti, sarebbe difficile gestire le piattaforme e i costi lieviterebbero fino – in alcuni casi – a farle collassare. Uber lo ha scritto chiaramente alla Sec al momento della quotazione: “La nostra attività sarebbe compromessa se i conducenti fossero classificati come dipendenti anziché come lavoratori autonomi”. Ecco perché, l’atteggiamento accomodante di Khosrowshahi è stato supportato da una massiccia attività di lobbying. Secondo la Ong Opensecrets, la spesa di Uber negli Stati Uniti è passata da 1,36 milioni di dollari del 2016 a 1,83 milioni del 2017. Fino ad arrivare, lo scorso anno a 2,31 milioni. Nessuna impresa nel settore trasporti ha speso di più. Anche l’esborso di Lyft è cresciuto, passando in due anni da 250.000 a 870.000 dollari. Soldi che, lecitamente, vengono utilizzati per discutere con politici e regolatori. C’è stato il tentativo di farlo anche in California, senza trovare un accordo. Per ora.

Nè dipendenti, né autonomi

Uber e Lyft, che in California hanno centinaia di migliaia di autisti, hanno affermato che il lavoro a contratto offre più flessibilità. Sarebbero quindi autonomi non solo nella forma ma anche nella sostanza. Le società hanno sottolineato che non tutti i driver sarebbero d’accordo a essere inquadrati come dipendenti e hanno invitato gli autisti a far sentire la loro voce. C’è quindi chi preferirebbe l’attuale status.

Ma c’è anche una parte della flotta che protesta da tempo. A maggio, nel giorno della quotazione, sono stati organizzati scioperi in diverse città. Motivo: l’incasso miliardario degli azionisti al suono della campanella di Wall Street non è stato in alcun modo distribuito agli autisti, che hanno definito “briciole” i bonus concessi dalla compagnia.