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Trump contro Huawei, Huawei contro Trump. In realtà, il confronto nasce molto prima. Già l’amministrazione Bush aveva mostrato qualche dubbio. E, nonostante le rassicurazioni del gruppo cinese, è durante la presidenza Obama (nel 2014) che Huawei viene tagliata fuori dagli appalti pubblici. Già in quei mesi, la compagnia di Shenzhen dichiarava di non essere più interessata al mercato statunitense. È un po’ lo stesso schema che si è ripetuto qualche mese fa: gli Stati Uniti chiudono, Huawei ostenta sicurezza dicendo di non aver bisogno di Washington per crescere. Con l’arrivo di Trump, però, lo scontro ha assunto toni ben più aspri, fino ad arrivare a misure sempre più restrittive.

La campagna di Trump

La campagna elettorale di Trump si è giocata anche sul “make America great again” tecnologico. Ci saranno dazi che potrebbero pesare anche sulle imprese statunitensi, come Apple. Per evitarle, dice Trump, tornate a produrre negli Stati Uniti. All’inizio del 2018, mentre si inizia a parlare concretamente di tariffe alle importazioni, la Commissione federale per le comunicazioni vota per proibire i fondi federali alle società che possano essere una minaccia per la sicurezza nazionale. E cita proprio Huawei e Zte.

Il problema non è negli smartphone (che sul mercato americano non sono mai arrivati) ma nella miscela tra le tecnologie di rete (Huawei è tra i leader mondiali del 5G) e il passato di Ren Zhengfei. Il fondatore della compagnia è stato un ingegnere dell’Esercito Popolare di Liberazione e nel 1982 ha partecipato al 12esimo Congresso del Nazionale del Partito Comunista Cinese.  

La mossa della Entry List

Mentre le trattative sui dazi procedono con alterne fortune, i Paesi europei non sembrano voler seguire Trump sul bando a Huawei. La Casa Bianca allora rilancia: piazza il gruppo cinese nella Entry List, una sorta di “lista nera” che obbliga le imprese americane a ricevere il via libera del governo prima di trattare con chi vie è incluso. L’effetto cascata ha portato diverse società ad “adeguarsi” (così ha scritto Google).

In pochi giorni, quindi, Big G è costretta a rompere con Huawei. E così anche i produttori di chip Intel e Qualcomm. Il bando statunitense, che non è riuscito ad arrivare oltreconfine su impulso politico, lo ha fatto imponendo restrizioni commerciali. Il passo indietro delle imprese americane, infatti, ha ricadute su Huawei ovunque, non solo negli States.

La battaglia del 5G

Dopo l’estate 2018 si intensificano le pressioni sugli alleati. Agli Stati Uniti non basta chiudere le porta a Huawei. Vuole che lo facciano anche gli Stati più vicini, dall’Australia al Canada fino a quelli dell’Unione europea. Dai Paesi di oltre-Atlantico, però, non arriva una risposta compatta. Vengono avviate indagini, ma non si arriva al bando dalle reti 5G, anche perché estirpare Huawei in Europa sarebbe molto più complesso. A dicembre la questione esplode: su richiesta degli Stati Uniti, viene arrestata in Canada Meng Wanzhou, responsabile finanziario di Huawei e figlia del fondatore. Le accuse restano nella nebbia a lungo.

Poi vengono rese pubbliche: Meng Wanzhou avrebbe violato le sanzioni contro l’Iran. La Cina chiede il rilascio immediato, mentre Washington preme per l’estradizione. Il piano legale e quello commerciale si intrecciano. Il giorno dopo l’arresto, Eric Xu, presidente di turno di Huawei, sottolinea che senza la tecnologia cinese gli Stati Uniti non saranno leader del 5G e parla di “bando per motivi politici”. La cfo viene rilasciata su cauzione l’11 dicembre, ma non può abbandonare il Paese. Dopo anni di silenzio, Ren Zhengfei torna a parlare alla stampa estera. Difende Huawei, dice di apprezzare Trump ma non indietreggia. Il gruppo – afferma – può reggere, nonostante le difficoltà, anche senza il mercato americano.

Il 21 febbraio, Trump scrive su Twitter che gli Stati Uniti devono sviluppare “il prima possibile il 5G, e anche il 6G”: “Le aziende americane devono intensificare i loro sforzi. Non c’è motivo per cui dovremmo essere in ritardo”. Trump non lo dice, ma “il ritardo” è nei confronti della Cina. Quattro giorni dopo, Huawei lancia il Mate X, primo pieghevole compatibile con le nuove reti.   

Dietro Huawei (e i dazi)

Huawei subisce un colpo notevole, ma a rimetterci sono anche le imprese americane, che perdono le commesse di uno dei maggiori produttori di smartphone al mondo. Un cliente che non si trova certo dall’oggi al domani. La sicurezza avrebbe la priorità sulle questione economiche, ma in assenza di prove il quadro si amplia. Huawei (il cui bando potrebbe non essere permanente) è una leva da utilizzare sul tavolo dei dazi. Con la Cina che potrebbe rilanciare.

Anche i dazi, però, sono solo una parte del mosaico: Cina e Stati Uniti stanno combattendo sulla leadership globale. Una battaglia che passa anche dalla tecnologia (il piano cinese 2025 punta proprio a convertire il tessuto produttivo cinese per raggiungere il primato su intelligenza artificiale, robotica e hi-tech). Secondo Henry Farrell, professore della George Washington University, “la mossa degli Stati Uniti è sia una risposta ai timori sulle proprie vulnerabilità, sia uno sforzo per sfruttare le vulnerabilità della Cina”.

“Il risultato sarà probabilmente un’escalation, ma non abbiamo certezze”, perché armi e campo di battaglia sono “nuovi”, senza “analogie recenti”. Farell ipotizza però uno scenario. Le filiere, tecnologiche in particolare ma non solo, nei decenni scorsi si sono intrecciate: Huawei ha bisogno di componenti americane e Apple di semiconduttori cinesi. Sia Washington che Pechino si prendono a cornate mentre, alle loro spalle, cercano di costruire un sistema più chiuso e indipendente. Uno scontro che potrebbe portare al “collasso dei principi della globalizzazione” e a una nuova frammentazione dell’odine mondiale.