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Del rapporto dei Millennials, la generazione dei ragazzi nati tra 1980 e 2000, con il lavoro, in Italia, si è scritto e detto di tutto. A cominciare da quel loro essere schizzinosi, choosy secondo l’ex ministro Elsa Fornero, nello scegliere la propria prima occupazione.

Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, c’è invece chi ha provato a capire la Generazione X – un altro termine usato per indicare i nati in quegli anni – in maniera scientifica, adottando un metodo di analisi sia quantitativa che qualitativa. Si chiama Millennial Impact Report e i risultati dello studio rivelano che la maggior parte di loro, il 55% del campione intervistato, sceglie di accettare un’offerta di lavoro anche in base alle cause sociali che l’impresa sposa.

Tradotto: un’azienda che si dimostra attenta a dinamiche come la lotta alla discriminazione razziale o sessuale, o al rispetto dell’ambiente, è in grado di attrarre forza lavoro e di esercitare su di essa sufficiente interesse da far desistere dal cambiare impiego, come riportato da Quartz.

Il problema della fuga dei cervelli

No, la fuga dei cervelli statunitense non assomiglia a quella dei talenti italiani verso l’estero. In Usa, preoccupa soprattutto il problema del turnover dell’impiego. In un Paese dove il tasso di disoccupazione generale è al 4,1%, capita molto spesso che i giovani cambino datore di lavoro repentinamente, anche al ritmo di un nuovo impiego ogni due anni.

Per l’azienda si tratta di un gravoso investimento di tempo nel formare nuovo personale, un brutto colpo per il morale di gruppo di chi rimane a lavorare in quella società, e anche un danno economico non indifferente. Una cifra che può variare da una decina di migliaia di dollari al doppio dello stipendio annuale, secondo Josh Bersin, fondatore della Bersin by Deoitte, società di gestione e valorizzazione delle risorse umane.

La soluzione?

Per fermare questa emorragia la soluzione può essere, almeno oltreoceano, l’offrire la possibilità di investire del tempo in attività sociali. Le ragioni sono diverse. Da un lato, l’idea che in un posto di lavoro attraversato da queste dinamiche si viva meglio. “Se un’azienda dimostra di avere a cuore temi esterni al proprio business, allora so che mi tratteranno bene”, come emerso da alcuni intervistati nello studio del Millennial Impact Report del 2014.

Ma la speranza che questo si traduca in un ambiente di lavoro più confortevole è solo una delle ragioni: il dipendente può sviluppare un senso di gratitudine per aver avuto l’opportunità di svolgere una simile attività e maturare quindi un sentimento di fedeltà nei confronti dell’azienda.

Non tutti sono uguali

Ci sono però evidenze che rivelano come, anche all’interno della categoria dei Millennials, vi sia un differente approccio a seconda della nazione. Negli Stati Uniti molti giovani reputano il lavoro di gruppo un valore importante. E a mettere quasi tutti d’accordo è la possibilità di impiegare le proprie competenze specifiche in progetti di volontariato: alcuni dipendenti di LinkedIn, la piattaforma sociale dedicata al mondo del lavoro, hanno ad esempio preso parte a un progetto di consulenza per ex soldati, in modo da aiutarli a trovare un nuovo impiego dopo la fine del servizio.

In Italia, una ricerca di Uniplaces ha invece messo in luce i principali fattori di attrazione di un’offerta di lavoro nello Stivale: a consigliare i giovani connazionali nella scelta dell’impiego sono soprattutto lo stipendio e la possibilità di crescere all’interno: quasi la metà degli intervistati, in quel caso studenti, aveva dichiarato di valutare una proposta anche sulla base delle opportunità di carriera che offre, mentre solo un quarto del campione aveva ammesso di prendere seriamente in considerazione un eventuale cambio di datore.