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È uno dei più grandi crucci dei ricercatori e dei neurologi e nessuno lo nega: non siamo ancora in grado di rispondere all’incedere dell’Alzheimer. La malattia, che colpisce 44 milioni di persone nel mondo è al momento priva di una risposta terapeutica adeguata. Ogni anno il 21 settembre si celebra la Giornata mondiale della Malattia di Alzheimer che in Italia fa registrare circa un milione di casi.

Per l'Italia, Paese più vecchio al mondo con il Giappone, le demenze rappresentano un problema medico-sociale ogni giorno più grande. "Ciò vale in particolar modo per l'Alzheimer, senza dubbio la forma di demenza più prepotente e violenta, sia sotto il profilo epidemiologico, sia per l'impatto sulla qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari. Questa patologia – spiega Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva – oggi interessa quasi il 5 per cento degli over-65, ma secondo le proiezioni elaborate dall'ISTAT per Italia Longeva, nel 2030 la percentuale si triplicherà e saranno colpiti dalla malattia ben oltre 2 milioni di pazienti, in prevalenza donne".

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Ma anche se attualmente non esistono trattamenti per fermarne la progressione, sono disponibili farmaci che possono curare i sintomi della demenza. Oggi ci si concentra, infatti, soprattutto sulla prevenzione del morbo di Alzheimer e sulla ricerca di trattamenti più efficaci.
 

Malattia dalle cause ignote  

La malattia fu descritta per la prima volta nel 1906 dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer. Attualmente la maggior parte degli scienziati ritiene che a determinarla non sia un'unica causa, ma di una serie di fattori. Anche se il principale fattore di rischio è l’età, l’Alzheimer non è l’inevitabile conseguenza dell’invecchiamento, ma una condizione vera e propria con caratteristiche cliniche specifiche che richiedono specifici interventi diagnostici, terapeutici e riabilitativi.  

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I sintomi e l'evoluzione della malattia

Nei pazienti affetti da Alzheimer, le cellule cerebrali nell'ippocampo – una parte del cervello associata a memoria e apprendimento – sono spesso le prime a essere danneggiate. Questo spiega perché la perdita di memoria e in particolare la difficoltà nel ricordare informazioni recentemente apprese, rappresenta spesso il primo sintomo della malattia. In generale, le cellule cerebrali subiscono un processo degenerativo che le colpisce in maniera progressiva e che porta successivamente a disturbi del linguaggio, perdita di orientamento spaziale e temporale e progressiva perdita di autonomia definita appunto “demenza”.

A tali deficit si associano spesso problemi psicologici e comportamentali come depressione, incontinenza emotiva, agitazione, vagabondaggio, che rendono necessario un costante accudimento del paziente.È un universo parallelo all’insegna della sofferenza quotidiana: per i malati e per le famiglie, costrette a farsene carico.

Le prospettive terapeutiche   

La Società Italiana di Neurologia e la SINdem (Associazione aderente alla SIN per le demenze), sono in prima linea per la ricerca dei meccanismi che attivano la malattia e delle nuove terapie. Durante lo scorso anno sono stati interrotti alcuni studi promettenti su nuove terapie, perché non rilevavano una sufficiente efficacia. 

“Dopo il fallimento delle terapie somministrate nella fase di demenza conclamata – dichiara Carlo Ferrarese, Presidente SINDEM, Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano dell’Università di Milano-Bicocca e Direttore della Clinica Neurologica presso l’Ospedale San Gerardo di Monza – le sperimentazioni cliniche attuali sono rivolte alla prevenzione della malattia”.

“Dati più recenti – prosegue Ferrarese – indicano che agendo nelle fasi iniziali di declino di memoria, quelle chiamate declino cognitivo lieve o Mild Cognitive Imparment (MCI), gli stessi farmaci potrebbero rallentare la progressione verso la demenza conclamata, perché si sono dimostrati efficaci nel bloccare i meccanismi biologici della malattia. Alla base del morbo di Alzheimer vi è l’accumulo progressivo nel cervello della proteina chiamata beta-amiloide, che distrugge le cellule nervose ed i loro collegamenti”.

Cercare di prevenire 

Nell’attesa dei risultati di queste terapie sperimentali, previsti per i prossimi anni, altri studi recenti indicano che vi sono efficaci strategie per ridurre la probabilità di ammalarsi in soggetti anziani normali o che presentano iniziali sintomi di decadimento cognitivo.

Studi recenti hanno dimostrato, infatti, che la prevenzione dei noti fattori di rischio vascolare, come ipertensione, diabete, obesità, fumo, vita sedentaria, è in grado di ridurre l’incidenza di demenza: adottare adeguati stili di vita (attività fisica regolare, alimentazione ricca di sostanze antiossidanti come la dieta mediterranea) e tenere sotto controllo le patologie vascolari può già oggi essere consigliato come la migliore strategia per ridurre il rischio di demenza. Recenti studi sperimentali su modelli animali, inoltre, hanno avvalorato l’ipotesi che l’attività fisica in particolare, sia in grado di favorire la produzione di nuove cellule cerebrali, sostituendo quelle degenerate attraverso la produzione di fattori neurotrofici.

"Chat Yourself", la memoria di riserva

In attesa di cure efficaci contro l’Alzheimer, una strada percorribile nelle prime fasi dopo la diagnosi è quella di sfruttare le risorse della tecnologia. Una proposta concreta di utilizzo sociale dell’innovazione tecnologica arriva da Chat Yourself, la ‘memoria di riserva’ a portata di smartphone in qualunque momento della giornata. Sviluppato su Messenger, Chat Yourself è in grado di memorizzare tutte le informazioni relative alla vita di una persona, restituendole su richiesta all’utente, che ha anche la possibilità di impostare notifiche personalizzate (ad esempio per ricordare di prendere i medicinali).