Ultime News
Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterEmail this to someone

AGI –  Il castello di Weimar, un sontuoso edificio seicentesco classificato come “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco, non fu progettato dal capomastro Giovanni Bonalino, come gli storici avevano finora creduto, bensì dall’architetto e diplomatico fiorentino Costantino de’ Servi, che dalla Germania forniva ai Medici informazioni sulle corti che lo ospitavano.  La scoperta, un raro “scoop” storico,  è stata fatta da un ricercatore italiano dell’Università di Cambridge, Davide Martino, e diffusa in questi giorni attraverso la pubblicazione di un articolo accademico in Germania.

Il Residenzschloss di Weimar fu originariamente costruito alla fine del Decimo secolo e fino al 18/mo secolo è stato la residenza ufficiale dei Duchi che governavano la Sassonia-Weimar, un ampio territorio nella storica regione della Sassonia, l’attuale Turingia. Quando una parte del castello fu distrutta da un incendio nel 1618, fu ricostruito nello stile italiano, ma non sulla base di un progetto del capomastro Bonalino, come finora dato per assodato, bensì sui disegni di De’ Servi, come ha scoperto lo studioso italiano nel corso di una ricerca all’archivio di Firenze.

Spulciando fra le lettere che l’architetto-diplomatico inviava ai suoi committenti, i Medici, Martino ha trovato la descrizione del nuovo progetto per il palazzo sul quale stava lavorando. L’idea, poi realizzata, era quella di trasformare in una fortezza rettangolare quello che restava delle precedenti costruzioni medievali e rinascimentali, con tanto di sala da ballo, un arsenale, una zecca, le stalle, una chiesa e alcuni laboratori.  Lo storico ha quindi cercato il disegno originariamente attribuito a Bonalino, non firmato, e lo ha trovato identico alla descrizione contenuta nelle lettere di De’ Servi. La scoperta viene pubblicata oggi nella rivista storica tedesca Zeitschrift für Kunstgeschichte.

Costantino de’Servi – spiega lo studioso secondo quanto riporta una nota dell’Università di Cambridge – ha passato molto tempo a Praga, Londra, l’Aia e altre importanti corti straniere, scrivendo lettere per aggiornare Firenze sugli ultimi avvenimenti: in quei tempi molto precedenti alla veloce diffusione delle notizie, era importante per i governanti inviare persone di fiducia in luoghi strategici per sapere che cosa stava succedendo negli altri paesi”.

Quando il palazzo fu semidistrutto dalle fiamme nel 1618, era un momento di gravi tensioni politiche e religiose nel Sacro romano impero e la regione era sull’orlo di una guerra. Secondo la ricostruzione dello storico, in piena rivolta protestante in Boemia per estromettere la famiglia cattolica che governava, il duca di Weimar Johann Ernst volle che il castello e la corte fossero ricostruiti nello stile fiorentino che era di moda in quel momento.

Per questo scrisse a Cosimo II, il Granduca cattolico di Toscana, per chiedere che un architetto fosse inviato per ridisegnare il palazzo. Cosimo II era preoccupato che il Duca si schierasse con la causa protestante e colse l’occasione per inviare de ‘Servi anche come suo informatore. “De ‘Servi aveva precedentemente dimostrato di essere in grado di raccogliere informazioni preziose e di agire come agente diplomatico informale – spiega ancora il giovane storico italiano, ora impegnato in un dottorato sempre a Cambridge –  Nel 1603 la sua abilità artistica e il talento di ritrattista gli avevano permesso di avvicinarsi al riservatissimo imperatore Rodolfo II a Praga e in seguito era anche riuscito ad avere un accesso altrettanto raro alla corte di  Enrico Stuart. Ora, la richiesta da parte del duca di Weimar di un architetto diede a Cosimo II l’opportunità di inviare un cortigiano e un informatore fiorentino vicino all’epicentro della rivolta boema.”     

Costantino ebbe quindi la duplice funzione di architetto e “spia”, ma cercò invano di convincere il Duca a non farsi coinvolgere nel conflitto: questi si unì alla causa protestante e sostenne militarmente l’elettore palatino Federico V, che poi sarebbe stato incoronato Re di Boemia dai ribelli. Nel 1620 la ribellione fu soffocata dagli Asburgo e il duca privato del titolo. Il ducato di Sassonia-Weimar fu rilevato dal fratello che curò il completamento del progetto fiorentino per il castello.

Nel 1774  anche il “nuovo” castello subì un incendio, in seguito al quale fu ricostruito in gran parte sulla base del progetto De’ Servi. La facciata ricostruita e tutto il palazzo sono ancora visibili oggi, e dal 1998 l‘Unesco gli ha attribuito il titolo patrimonio mondiale. 

AGI – La scuola di pittura dell’accademia di Brera racconta il lockdown con una mostra ‘Riflesso Riflessioni autoritratto allo specchio al tempo del coronavirus’.

Una esposizione on-line di una settantina di artisti che si rivela come un primo esito visivo del tema di ricerca dell’anno accademico: “Si può fare altrimenti…” che ha indagato sul significato e la funzione della pittura contemporanea – spiegano dall’Accademia – partendo dai presupposti di necessità, passione ed impegno mettendo in discussione il sistema dell’arte, la formazione e il ruolo delle istituzioni in un Paese che detiene i due terzi del patrimonio artistico mondiale. 

Il completamento di questa indagine si espleterà nel primo semestre del prossimo ciclo di studi e vedrà il suo compimento nel corso di una performance in cui le tesi elaborate da questa Scuola verranno affisse sul portale della Chiesa di Santa Maria di Brera. 

“L’attuale periodo di isolamento provocato dal Covid 19 – viene spiegato – ha forzatamente contribuito a sviluppare in tutti noi particolari momenti di riflessione sul nostro ruolo di intellettuali, nonché sulle plurime componenti di diversità che ci connotano sia nella sovrastruttura sociale che nel contesto delle Accademie di Belle Arti. 

Tali differenze, la storia ci è testimone, hanno contribuito allo sviluppo di una particolare dialettica tra le arti, le scienze e le lettere all’interno di un palazzo, il primo politecnico europeo, che dal secolo dei lumi è animato da personaggi che hanno segnato le epoche italiane ed internazionali. 

Consci di tali pregressi ci adoperiamo per  seguirne adeguatamente le orme perpetuando quotidianamente, con il pensiero e con la mano, la pratica della pittura”.

Sugli scaffali ci sono più libri sugli scrittori di quanto senno del poi ci sia nelle fosse, ma quanti autori si sono davvero presi la briga di raccontare non il mondo intorno al proprio ombelico quanto piuttosto quell’incantevole universo in cui si muovono loro, i loro eroi e i loro lettori? Ecco: Carlos Ruiz Zafon era uno dei pochi. Anzi, è l’unico ad aver scritto sui libri un romanzo tecnicamente perfetto, perché perfetto è l’inganno in cui guida il lettore. La convinzione di muoversi in un thriller gotico e la scoperta di essere stati ammaliati da una delle passioni più travolgenti: quella per la lettura.

Sul suo romanzo più celebre – ‘L’ombra del vento’ – sono stati scritti fiumi di parole: dalle recensioni, alle tesi di laurea. E tutti a indagare su quale fosse la vera stregoneria che ha incantato milioni – letteralmente milioni – di persone intorno a una storia che, a raccontarla per sommi capi, risulta meno verosimile di un Harry Potter.

La stregoneria di Ruiz Zafon

Per quanto Zafon possa essere lo spagnolo più letto al mondo dopo Cervantes, di sicuro sono più quelli che sanno citare a memoria tutti i personaggi della Casa di Carta che quelli che conoscono i titoli di tutti i suoi romanzi, ma con lui tutti gli scrittori, gli editori e i librai del mondo avranno per sempre un debito: aver tirato fuori i libri dal polveroso mondo in cui una certa visione elitaria, gelosa e miope li aveva confinati e averli resi protagonisti di una serie di romanzi popolari. Oggetti non di un culto sterile, ma quasi personaggi in carne e ossa capaci di essere insieme Indiana Jones e il Santo Graal.

Come fosse possibile tutto ciò, lo raccontava lui stesso nelle interviste: stregoneria. Non quella che lui era capace di fare attraverso parole incantatrici, ma quelle che si portava dentro e alle quali aveva cercato invano di fuggire. Nei suoi romanzi raccontava sempre Barcellona: una città misteriosa e inquietante che milioni di fan hanno cercato di ritrovare in pellegrinaggi nei luoghi delle sue storie, ma dalla quale mancava da quasi trent’anni. Una Barcellona che viveva più nella sua anima di scrittore che nelle vie affollate di turisti e che neppure decine e decine di anni trascorsi nel suo esatto opposto – la vacua, volubile e sbrilluccicante Los Angeles – erano riusciti a cancellare.

Come le favole della buonanotte

Nelle sue opere sono stati cercati e trovati similitudini e paralleli con scrittori come Poe e Dumas, ma chi lo conosceva lo racconta come lontanissimo dalla figura del bibliofilo austero che le sue storie – insieme con l’aspetto e una certa riservatezza – lasciavano supporre. “Il cimitero dei libri dimenticati” diceva parlando del luogo che è al centro dei suoi romanzi di maggior successo “è una metafora, non solo per i libri ma per le idee, per il linguaggio, per la conoscenza, per la bellezza, per tutte le cose che ci rendono umani, per la raccolta della memoria”. E per questo l’eredità che ci lascia non è quella di un incantatore, né quella di un imbonitore. Ma è una sensazione straordinariamente simile a quella che davano le favole raccontate dalla mamma prima della buonanotte: un po’ di inquietudine, ma tanta voglia di sentirle ancora.

AGI – Sono i dettagli che schiudono il Giappone. Con la padronanza di uno sguardo che non a caso, ma per lunga frequentazione e molto amore, buchi lo strato sgargiante decifrando ombra e penombra, come spiegò preziosamente Jun’ichiro Tanizaki. Si può così Svelare il Giappone: questo è lo scopo e questo il titolo del libro che Mario Vattani ha appena pubblicato per Giunti Editore. Quasi 400 pagine in cui sfoglia anima, gente, luoghi, vizi, splendori, estetica e storia di un Paese assai raccontato eppure elusivo per la mentalità occidentale. Non è necessario cominciare dal principio con ortodossa lettura seriale: si può o è addirittura preferibile affrontare il volume con una disposizione zen, facendo di volta in volta affidamento sul capitolo che asseconda, per titolo, l’attrazione subitanea del lettore. Svelare il Giappone non consegna il racconto a un percorso diacronico, ma si fa guida del Paese oltre le contingenze, accostando situazioni e personaggi lontani tra loro nel tempo ma simultanei per la spiegazione di una “parola chiave” (Giardino, Sapore, Nascita, Bellezza, Amore, Nebbia…).

È così che il monaco Tetsumonkai, nella scelta volontaria di una tipologia di morte crudele e straordinaria che sarà vita per sempre, si ritrova in pieno diciannovesimo secolo assieme ai samurai che scelsero il seppuku, ed è questo il capitolo dove s’affronta anche il tema del rapporto con i morti, peculiare e remoto per la cultura cristiana ma anche laica europea, ed è il capitolo che scivola naturalmente, tramite queste storie, alla storia di adesso con l’allarmante incremento del kodokushi, parola entrata solo nel 2008 nel dizionario Kojen per indicare la “morte senza nessuno accanto”. Le sue radici sociali, l’impatto sul costume, le molte implicazioni.

È la stessa accattivante sincronia con cui Vattani racconta il buio e il cibo e l’Impero; con cui spiega la spada da Musashi a Kill Bill; il senso dell’eros e del gioco; il fascino dei manga e degli anime a partire dal gakuran, la classica uniforme studentesca di stile prussiano che da fine ‘800 soppiantò l’hakama, la gonna pantalone blu, e che prima dei fumetti fu celebrata nei romanzi di Mishima.

Tutt’altro look, altra filosofia postmoderna ispira gli yanki, i bad boys che sciamano su moto riconvertite al kitsch orientale nelle periferie e nella provincia, benché siano ragazzi rispettosi di certe regole tradizionali confuciane anche se rischiano di diventare dei chinpira, cioè “pesci piccoli” della malavita organizzata.

C’è nel volume uno sciame vorticante di racconti, in più occasioni asseverati dall’autore per esperienza diretta. E ci si trova un mucchio di indicazioni pratiche per affrontare il Giappone con le sue particolari regole di comportamento, quelle che una volta avremmo detto “buone maniere”, con i riti minori ma necessari al gaijin, allo straniero, affinché non venga percepito come jama, “una seccatura”, né s’illuda di avere conquistato i cuori nipponici mentre lo stanno, semplicemente, assecondando come un povero “fagiolo”.

Svelare il Giappone diverte, con la cifra tipica della scrittura di Vattani, che anche nel capoverso precedente o successivo alla crudezza di una scena lascia traccia di ironia sulla pagina, più vicina al sorriso filosofico che al semplice umorismo. È forse lo smagato approccio di chi non solo ha vissuto un tempo prolungato in Giappone e ancora lo vive nella quotidianità italiana, ma anche il tratto del diplomatico di carriera, che non si fa sorprendere ma ha conservato la capacità di abbandonarsi allo stupore. È questa la cifra con cui ha già scritto di Giappone da narratore con il romanzo Doromizu, ma anche di Egitto nel più recente Al Tayar (altro luogo conosciuto nel corso del suo lavoro).

Erede di un’antica tradizione fiorita anche in Italia, quella dei diplomatici scrittori, Vattani per agilità di spostamento tra saggistica e narrativa sarebbe piaciuto al suo illustre collega olandese Robert van Gulik. Autore di un volume diventato un classico sulla vita sessuale nell’antica Cina, van Gulik affascinò il più vasto pubblico grazie ai gialli di cui rese protagonista il giudice Dee, tuttora ristampati, e si produsse pure in un curioso libro con disco sulla “voce” del gibbone, che gli teneva compagnia mentre era ambasciatore a Tokyo.

L’affabulazione, ferro del mestiere per il diplomatico, per lo scrittore e per i maestri di arti marziali (Vattani è praticante di kendo), attinge persuasività dai dettagli richiamati all’inizio, oltre la luce e dentro la penombra. Non a caso l’ora che l’autore considera topica per guardare nuda Tokyo è quella tra la notte e il giorno, “il primo chiarore dell’alba”: “Come un volto di Medusa quella luce grigiastra può pietrificare nella memoria, per sempre, l’ultima azione della notte, che è anche la prima del nuovo giorno”. È allora che negli occhi della gente c’è qualcosa “che si desidera ricordare, altre cose che forse è meglio dimenticare”.

È dallo sguardo che nasce l’incantesimo: “Quello per cui, grazie alla magia della curiosità, si riesce a ignorare tutto il grigio che circonda, e a riconoscere solo ciò che è più bello”. Perché “in Giappone si impara a guardare. Guardare è un esercizio attivo. Non si contempla passivamente. Si impara guardando”.

Penetrare la corazza delle apparenze per riconoscere, in ombra e penombra, i silenziosi panorami dell’essenza.

L’universo delle serie tv non conosce pause e anche questa settimana le uscite sono numerose e interessanti.

Si parte subito di lunedì su Amazon Prime Video con ‘Dispatches From Elsewhere’, un dramma antologico incentrato su un gruppo di persone comuni sconvolte da un improvviso mistero che circonda la loro vita; protagonista con un ruolo non comico, per lui (e per noi spettatori) non usuale, Jason Segel, passato alla storia della tv come il Marshall Eriksen di ‘How I Met Your Mother’.

Cambiando piattaforma, su Sky Atlantic, sempre lunedì, verrà messa in onda la sesta stagione di ‘Girls’, che racconta la vita di quattro amiche che tentano di imporsi nella caotica New York.

Cambiando ancora canale e passando su Netflix al via mercoledì la seconda stagione di ‘Mr. Iglesias’, interpretata dallo stand-up comedian Gabriel Iglesias nel ruolo del protagonista, un professore di storia in un liceo pieno di ragazzi un po’ disadattati.

Sempre mercoledì per gli appassionati di storia fuori anche ‘The Great’, produzione che ambisce a raccontare la vita e le gesta di Caterina La Grande, ma la serie verrà trasmessa su Starzplay, canale di Apple Tv, quindi per poter visionare il contenuto sarà necessario un apparecchio della Apple.

Arriva giovedì e con lui anche la seconda stagione di ‘The Order’ su Netflix, serie che racconta la storia di Mark, una matricola universitaria che si unisce alla confraternita segreta The Order finendo invischiato in una storia di magie, mostri e rituali.

Anche su Timvision qualche novità particolarmente succulenta come l’uscita della prima stagione di ‘On Becoming a God’, serie comica con protagonista una Kirsten Dunst da Golden Globe che interpreta una donna all’incessante ricerca della sua scalata professionale ed economica.

Tornando su Netflix particolare attenzione va concessa all’uscita di ‘The King: Eternal Monarch’, drama coreano in cui il protagonista, Lee Gon, imperatore di un moderno regno di Corea, attraversa la barriera che lo separa da una realtà alternativa in cui la Corea è una repubblica anzichè una monarchia.

Con l’avvicinarsi del weekend su Netflix, da venerdì, disponibile anche la seconda stagione di ‘The Politician’, serie comica che racconta ambizioni, sogni, ricatti e vendette che hanno per protagonista Payton Hobart (Ben Platt), giovane ambizioso con gli occhi puntati sulla Casa Bianca.

Se avete un abbonamento a Netflix ma preferite un genere più rosa, sempre da venerdì sarà fuori la seconda stagione del drama brasiliano ‘La cosa più bella’.

Proporre una riflessione costruttiva sui processi della comunicazione emersi in Italia durante l’emergenza sanitaria provocata dal Covid-19, ricostruendo ed esplorando le scelte e le strategie messe in campo per rispondere a un’infodemia che si è diffusa con la stessa rapidità della pandemia. Sono questi gli obiettivi di #Zonarossa. Il Covid-19 tra infodemia e comunicazione, il libro di Lelio Alfonso e Gianluca Comin con la prefazione di Walter Ricciardi, edito da Guerini e Associati, disponibile dal 15 giugno in edizione digitale e da luglio in libreria.

#Zonarossa è il primo libro dedicato alla comunicazione dell’emergenza Covid-19. Non un j’accuse, ma un’analisi puntuale e documentata di quanto accaduto sin dai primi sintomi dell’emergenza, con un focus sulle strategie per la gestione dell’emergenza in Italia a partire dallo scorso 11 marzo, quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiara il Paese “Zona Rossa” e il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Ghebreyesus ammette davanti al mondo la portata globale del Covid-19.

“Il nostro Paese, diversamente e forse più di altri, è stato colpito da questa infodemia che ha confuso l’opinione pubblica, travolto i media e messo in crisi le istituzioni” – spiega Lelio Alfonso – “Di “malattia dell’informazione”, proprio come di una qualsiasi patologia, in questo libro si effettua una diagnosi, si valuta una prognosi e si propone una terapia. La nostra tesi è che la comunicazione ha avuto e avrà un ruolo sempre più centrale in questa vicenda e in tutte quelle che richiameranno situazioni di emergenza collettiva. Lo sarà nel favorire i messaggi, agevolare la comprensione, limitare le incomprensioni”.

“Abbiamo assistito – sottolinea Gianluca Comin – al più massiccio e coordinato piano di comunicazione sociale mai sperimentato dal dopoguerra, non solo in Italia. Piano che ha utilizzato le piattaforme broadcasting tradizionali, i media di tutti i tipi, ma anche i social network, e che ha coinvolto le istituzioni, ma anche testimonial riconosciuti dalle persone come opinion leader e influencer. La comunicazione in situazione di crisi è capacità di previsione, è reazione tempestiva, è coerenza nei messaggi e trasparenza nelle azioni. Richiede competenze professionali e abilità nel comprendere il contesto sociopolitico in cui si opera”.

Attraverso un’analisi costruttiva delle scelte di comunicazione delle istituzioni e del mondo politico, il libro riflette sulle conseguenze che queste hanno avuto. Gli errori e le omissioni, ma anche le scelte, le intuizioni e gli insegnamenti che una situazione mai vista ha portato con sé diventano così l’occasione ripensare le strategie di governance e di gestione del bene comune, per evitare il ripetersi di cortocircuiti istituzionali e mediatici dannosi tanto al cittadino quanto per la reputazione stessa dei media e delle Istituzioni del nostro Paese.

E’ un omaggio agli eroi della pandemia, medici e operatori sanitari, ma è anche un innovativo strumento formativo e un’accurata rielaborazione di quanto accaduto rivolta al grande pubblico. Il docufilm “Covid-19 – il Virus della Paura”, girato poco prima del lockdown su iniziativa di Consulcesi, è un’avvincente ricostruzione e un’interessante riflessione sulla più grande emergenza del secolo. Per non dimenticare e per imparare dagli errori. Il trailer docufilm (firmato dal regista Christian Marazziti e dall’autrice e produttore esecutivo Manuela Jael Procaccia) è stato presentato stamattina in una conferenza virtuale e sarà disponibile dal 22 giugno sul sito www.covid-19virusdellapaura.com per tutti i professionisti sanitari. Una versione leggermente adattata al grande pubblico sarà inoltre destinata ai principali festival cinematografici e alle maggiori piattaforme di distribuzione on demand. 

La pellicola ripercorre in 80 minuti i momenti principali della pandemia con le sue peculiarità e i risvolti psicosociali: il discorso del Presidente Conte del 4 marzo, la chiusura delle frontiere, il blocco delle attività produttive, scolastiche e ricreative. Il film racconta i sentimenti degli italiani: la paura dell’ignoto che sfocia in comportamenti di discriminazione verso un nemico immaginario. La stessa paura che alimenta ipocondria e psicosi, responsabile del proliferare di bufale e fake news. A questa, si contrappone il polo positivo della conoscenza e del metodo scientifico.

Il docufilm ed il relativo corso Fad, così come il libro da cui trae ispirazione, sono firmati da Massimo Andreoni, direttore Rep. Malattie Infettive Tor Vergata e dallo psicoterapeuta Giorgio Nardone del Centro Terapia Strategica, che analizzano la pandemia cogliendo i due principali aspetti: come affrontare il virus e come gestire le conseguenze sulla psiche umana. Ad arricchire i contenuti numerose prestigiose collaborazioni come quelle di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma e Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli esperti provano a rispondere alla stessa domanda con cui si chiude il trailer del docufilm: “Chissà se riusciremo ad imparare qualcosa da tutto questo?”.

“Dalla pandemia abbiamo imparato che il metodo scientifico e la diffusione della conoscenza sono le più importanti armi di difesa che abbiamo contro un’emergenza sanitaria”, spiega Massimo Tortorella, presidente Consulcesi. “Da qui è nata l’idea di creare un percorso formativo ad hoc per professionisti sanitari sul Covid-19: una collana di corsi Ecm, un libro-ebook e un docufilm in grado di offrire un’esperienza appassionante e coinvolgente. Il nostro obiettivo – continua – è quello di esportare il modello italiano che abbiamo creato a livello internazionale con cinema, scienza e tecnologia per formare e aggiornare gli operatori sanitari”.

Il ministro della Salute Roberto Speranza plaude all’iniziativa di Consulcesi: “La pandemia ha cambiato tutti i paradigmi, ma con un obiettivo: ridare centralità alla sanità. In tal senso, la formazione e l’aggiornamento continuo sono le solide basi da cui partire per costruire un nuovo Ssn”. La pandemia, secondo gli esperti ci ha insegnato tante cose. “Ci ha ricordato che le infezioni non hanno frontiere”, dice Ippolito. “Ci ha insegnato che il mondo è interconnesso e che abbiamo bisogno di tutti – governi, individui e comunità – per vincere quella che è la sfida del secolo”, conferma Guerra.

Secondo il virologo Andreoni: “Dalla pandemia abbiamo imparato che i nostri ospedali non sono pronti e che abbiamo una scarsa educazione alla sanità pubblica”. Per il professor Nardone l’emergenza Covid-19 è stata anche un’opportunità per esplorare nuove forme di comunicazione medico-paziente. “La necessità di dover rispondere ai bisogni dei pazienti, unita all’impossibilità di incontrarli fisicamente, ci ha ‘costretto’ a imparare a usare nuovi strumenti e nuove forme comunicative che si sono rivelate efficaci quanto le tradizionali”, conclude. Il docufilm e l’ebook saranno presto disponibili anche in lingua inglese. La collana di corsi Ecm è fruibile sulla piattaforma www.covid-19virusdellapaura.com/ Il progetto ha il sostegno di Intesa Sanpaolo. Il Ministero della Salute e SIMIT (Società italiana di Malattie Infettive e Tropicali) patrocinano l’evento di lancio.

AGI – L’America sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia con l’esplosione del conflitto razziale (e sociale) più violento e imprevedibile di sempre. L’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto bianco ha scatenato l’ira di chi per generazioni ha subito (o comunque ha ritenuto di subire) le angherie dei bianchi. 

Il tema del razzismo è oggi in primo piano e così accade che il film da record ‘Via col vento’ venga ritirato dal catalogo della piattaforma di pellicole in streaming Hbo Max. “‘Via col vento’ è un prodotto del suo tempo e raffigura alcuni pregiudizi etnici e razziali purtroppo diffusi nella società americana. Queste rappresentazioni erano sbagliate allora e lo sono oggi”, ha dichiarato un portavoce di Hbo Max al sito Variety. ‘Via col vento’ sarà rimesso in linea nella sua versione integrale, accompagnato da una nota sul contesto per restituire l’opera alla sua epoca, in quanto “procedere diversamente significherebbe fare finta che questi pregiudizi non siamo mai esistiti” ha precisato il portavoce di Hbo Max. 

Quando Trump disse: “Ridateci Via col vento”

Una decisione dettata dall’emergenza e dalla convenienza, certo, ma che ha anche un fortissimo significato politico. Lo scorso 20 febbraio, infatti, il film di Victor Fleming fu citato da Donald Trump che, contestando l’assegnazione dell’Oscar per il miglior film al sudcoreano ‘Parasite’, aveva dichiarato: “È tempo di tornare ai classici dell’epoca d’oro di Hollywood. Possiamo tornare per favore a ‘Via col vento’? Ci ridate ‘Via col vento’ per favore?“. La battuta, fatta durante un comizio elettorale a Colorado Spring, aveva un significato particolare perché veniva dal presidente degli Stati Uniti, massimo paladino del sovranismo Usa e modello dei suprematisti bianchi.

La sua elezione nel 2016 è stata definita come la prima di un ‘presidente bianco’ dato che ha ricevuto i due terzi dei voti dai bianchi di entrambi i sessi, le età e le classi sociali di appartenenza e pochissimi suffragi dai latinos, dai neri e dagli altri americani ‘di colore’. 

Ma cosa ha spinto Hbo Max a ritirare dal catalogo ‘Via col vento’? Di cosa ha paura? Di essere spazzata via – il gioco di parole è inevitabile – dal vento della protesta antirazzista. Per capirlo basta tornare indietro nel tempo, al 1939 quando il film di Victor Fleming usciva in America facendo incetta di Oscar e conquistando platee di tutto il mondo.

La premiere del 1939 per soli bianchi

Il tema del razzismo, così evidente nel film ambientato durante la guerra di secessione, fu protagonista anche della fortunata e celebre première del 15 dicembre 1939 al Loew’s Grand Theatre di Atlanta. Quell’evento, infatti, viene ricordato anche per il divieto di partecipazione agli attori di colore del cast del film, che rappresentavano tra l’altro una parte integrante della storia.

La prima proiezione ufficiale ebbe una risonanza mediatica immensa e il sindaco di Atlanta, William B. Hartsfield, organizzò giorni e giorni di festeggiamenti. Migliaia di persone sfilavano in strada vestite come i due protagonisti Rossella O’Hara (interpretata da Vivien Leigh) e Rhett Butler (Clark Gable). Per la Georgia fu una sorta di festa di Stato. Le cronache dell’epoca parlano di centinaia di migliaia di persone accalcate di fronte al teatro.

Hattie McDaniel (Mami) non potè partecipare

C’erano anche le star, ma mancava Hattie McDaniel, che per il ruolo di Mami nel film avrebbe poi vinto un Oscar, prima attrice di colore della storia. Non poté partecipare, come gli altri dalla pelle nera, per via delle leggi razziali che negli States sarebbero state abolite solo 25 anni dopo. 

Si racconta che Clark Gable avesse perfino minacciato di boicottare la première in segno di protesta verso la collega e che fu proprio l’attrice a convincerlo a presenziare. Gable, infatti, era molto amico della McDaniel con cui aveva già lavorato in precedenza in ‘Sui mari della Cina’ e ‘Saratoga’.      

‘Via col vento’ si basa su stereotipi razzisti

‘Via col vento’ è un film che adotta pienamente il punto di vista degli schiavisti degli stati del Sud ai tempi della guerra di secessione ed è pura espressione della cultura segregazionista americana della prima metà del Novecento. La pellicola, dunque, è interamente basata su stereotipi razzisti, particolarmente evidenti nella rappresentazione degli afroamericani (nei loro modi, nei loro atteggiamenti, nel loro linguaggio). Non a caso la schiava Mami parla anche (doppiata in italiano da Anita Laurenzi) con un’inflessione ridicola alle orecchie di uno spettatore di oggi.     

Un film dirimente, dunque, realizzato 80 anni fa quando i bianchi erano i soli cittadini di serie A mentre i neri erano ancora poco più che ex schiavi. Una situazione destinata a cambiare negli anni a seguire, fino all’elezione di un presidente nero. Un cambiamento costituzionale più che sociale, però, visto che il razzismo, il mito del suprematismo bianco e le discriminazioni razziali (e sociali) sono sempre presenti e negli ultimi hanno ripreso vigore.

Nessun rimborso per i concerti annullati, ma in cambio solo dei voucher: “Un insulto per i fan”. A tuonare contro il decreto del governo italiano e Assomusica è sir Paul McCartney, che dalla sua pagina ufficiale di Facebook, in italiano e in inglese, usa parole di fuoco: “è veramente scandaloso che coloro che hanno pagato un biglietto per uno show non possano riavere i loro soldi. Senza i fan non ci sarebbe musica dal vivo. Siamo fortemente in disaccordo con cio’ che il governo italiano e Assomusica hanno fatto. A tutti i fan degli altri Paesi che avremmo visitato quest’estate è stato offerto il rimborso completo. L’organizzatore italiano dei nostri spettacoli ed i legislatori italiani devono fare la cosa giusta in questo caso. Siamo tutti estremamente dispiaciuti del fatto che gli spettacoli non possano avvenire ma questo è un vero insulto per i fan”.

Il baronetto avrebbe dovuto fare tappa oggi a Napoli e il 13 giugno al Lucca Summer Festival.  Sempre sulla pagina Facebook dell’ex Beatles si ripercorre la vicenda e spiega: “Il 7 maggio 2020 è stato annunciato che, a causa della pandemia globale del Covid-19, il tour estivo di Paul McCartney sarebbe stato cancellato. La cancellazione è stata fatta sul presupposto che a tutti coloro che avevano acquistato un biglietto per gli spettacoli sarebbe stato offerto un rimborso totale del prezzo del biglietto pagato”. “Mentre ciò è avvenuto in tutti gli altri paesi che Paul e la sua band dovevano visitare tra Maggio e Giugno, il governo italiano, su indicazione di Assomusica (l’Associazione italiana di promotori di musica dal vivo) ha approvato un decreto che autorizza tutti i possessori dei biglietti precedentemente acquistati per gli spettacoli dal vivo di avere la facoltà di richiedere un ‘voucher’ di pari valore a quello indicato sul biglietto. I soldi provenienti dalla vendita dei biglietti in Italia sono esclusivamente trattenuti dai promoter locali. Abbastanza comprensibilmente, i fan di Paul McCartney sono fortemente amareggiati da questa tipologia di rimborso poichè hanno pagato per vedere un preciso spettacolo, non altri dello stesso promoter”.

Numerosi i commenti dei fan Italiani e le lamentele indirizzate agli organizzatori del Lucca Summer Festival ai quali viene chiesto di intervenire.

Non si è fatta attendere la risposta di Assomusica: “Paul McCartney ha deciso di annullare i concerti in Italia – spiega Vincenzo Spera, presidente di Assomusica -questa formula di rimborso è una misura straordinaria di cui lo staff di Paul McCartney era perfettamente a conoscenza da prima della cancellazione. L’artista pertanto avrebbe dovuto trovare soluzioni idonee ad affrontare le eventuali problematiche”.

“I sindaci di Lucca e Napoli hanno formalmente chiesto all’artista di indicare una data per i concerti dell’anno prossimo, richiesta rimasta ancora senza risposta – continua Spera – la norma italiana, che è stata ripresa e funziona anche in Germania (dove vengono dati 2 anni di tempo per utilizzare i voucher), riguarda l’intero settore del turismo, della cultura e dello spettacolo e certamente il Governo italiano delibera in piena autonomia e indipendentemente da qualsiasi richiesta di terzi. La norma pertanto è stata istituita senza nessun nostro intervento, per far fronte a una crisi senza precedenti.

A riprova di questo – aggiunge – bisogna considerare il fatto che, nelle riaperture previste dal 15 giugno, le altre categorie dello spettacolo possono svolgere la loro attivita’ senza limitazione numerica, mentre gli spettacoli di musica dal vivo devono rispettare il tetto dei 1.000 spettatori”.

Al baronetto ha risposto anche la ‘D’Alessandro e Galli’ che ha organizzato le tappe italiane del tour dell’ex Beatles (Napoli e Lucca Summer Festival). “Abbiamo preso visione delle dichiarazioni di Paul Mc Cartney da lui rilasciate questa mattina. Comprendiamo pienamente l’amarezza dell’artista che teneva a questi due concerti che avrebbero segnato il suo ritorno in Italia così come comprendiamo il suo dispiacere di fronte al disagio che i suoi fans dovranno sostenere non ricevendo un rimborso diretto bensì in voucher”.

“Questa formula di rimborso è una misura straordinaria di cui lo staff di Paul Mc Cartney era perfettamente a conoscenza da prima della cancellazione e che, come è noto, è stata istituita dal Governo Italiano per far fronte a una crisi senza precedenti che rischiava di dare un colpo fatale all’industria della musica dal vivo e ai circa 400.000 lavoratori che ne fanno parte e che rischiano di non poter lavorare per un anno. Crediamo che il Governo abbia identificato nel voucher lo strumento che garantisse il corretto bilanciamento tra la legittima delusione del fan che non potrà assistere ad un determinato concerto e l’esigenza vitale di sostenere l’intera filiera dello spettacolo. Da parte nostra, per ridurre al massimo il disagio degli spettatori, a cui non faremo mai mancare il nostro rispetto, ci siamo già impegnati per il 2021 a recuperare quasi tutti gli spettacoli programmati per il 2020 e stiamo lavorando per aggiungerne altri, per offrire la più ampia scelta a coloro che dovranno spendere il voucher a seguito di un concerto cancellato”.

AGI – Le terme, un mercato, un tempio, i canali di un acquedotto. Falerii Novi, a poca distanza da Civita Castellana, nel Lazio, era grande almeno la metà di Pompei. Se ne vedono le mura, ma la città è ancora sotterranea. A ‘vederla’ senza la necessità di scavare, è stato un gruppo di archeologi delle università di Cambridge e di Ghent, che hanno pubblicato i risultati della loro ricerca sul sito Antiquity.

Il loro lavoro, effettuato con la tecnologia Gpr, promette di rivoluzionare i metodi di indagine archeologica, e di esplorare aree ampie in alta risoluzione come mai avvenuto prima. Gpr, infatti, sta per Ground penetrating radar, ovvero un georadar, strumento (ha pressochè la forma di un grosso tagliaerba) utilizzato in geofisica  per lo studio del sottosuolo, che si basa sull’analisi degli impulsi prima trasmessi e poi riflessi dal terreno.

La scoperta

È servendosi di questo che il team guidato da Martin Millet ha proceduto a scoperte “stupefacenti” all’interno delle mura di Falerii Novi, sito che nasce dopo la distruzione di Falerii veteres, avvenuta nel 241 A.C. per opera dei Romani. Furono questi a deportarne gli abitanti a pochi km di distanza in un nuovo sito, del quale è rimasta intatta e visibile la cinta muraria, visibile dalla linea Roma – Civita Castellana-Viterbo, a circa 50 km dalla capitale.

All’interno delle mura il Gpr ha individuato a sud una grande costruzione rettangolare, probabilmente una piscina o una struttura termale,  connessa a una serie di condutture di un acquedotto. Essa, ed è un dettaglio che ha sorpreso gli archeologi, si allunga sotto gli edifici e non lungo le strade. All’ingresso nord della città, invece, è stato ‘visto’ un portico, che potrebbe indicare l’esistenza, a suo tempo, di un importante e grande monumento pubblico.

Com’è fatta la città

La città, hanno osservato gli archeologi, ha una struttura meno standardizzata di quella di altri siti urbani, come la stessa Pompei. Il tempio, il mercato e lo stesso complesso termale appaiono più elaborati dal punto di vista architettonico di quanto ci si potrebbe aspettare per una città piccola.

“È realistico immaginare oggi – ha aggiunto Millett – di poter utilizzare il georadar per indagare la struttura di altre città , come Mileto in Turchia o Cirene in Libia. Abbiamo molto ancora da imparare sulla vita dei Romani nelle città e questa tecnologia ci apre opportunità inedite”.