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AGI – Tornano le avventure a di Corto Maltese.  La prima settimana di settembre – in contemporanea in Italia e in Francia – uscirà Oceano Nero, nuova, sorprendente storia del marinaio creato da Hugo Pratt, questa volta raccontata e disegnata da Martin Quenehen e Bastien Vivès.     

Trama e ambientazione della nuova vicenda sono ancora in parte segrete, ma da oggi il ritorno in libreria del personaggio uscito 54 anni fa dalla matita geniale del maestro veneziano è ufficiale.

Per la prima volta gli autori delle tavole sono due ragazzi francesi, molto amati e stimati nel mondo della letteratura disegnata, che hanno già avuto importanti riconoscimenti in tutto il mondo.

Dopo le tre storie (“Sotto il sole di mezzanotte” del 2015, “Equatoria” del 2017 e “Il giorno di Tarowean” 2019) realizzate dalla coppia spagnola Juan Díaz Canales e Rubén Pellejero, ora tocca allo sceneggiatore Martin Quenehen e al disegnatore Bastien Vivès reinterpretare un personaggio con cui hanno sognato e viaggiato almeno tre generazioni di lettori.

Sarà un’avventura ricca di colpi di scena, assicurano le edizioni Cong in una nota: ci sarà un arrembaggio in mezzo al mare, Corto avrà un fascino particolarmente sexy in una storia che sarà popolata da donne con ruoli importanti. “Sembrerà di guardare un film d’azione, pieno di scene spettacolari, ma in cui la sensibilità e l’empatia di Corto saranno sempre protagoniste”.

In Italia il libro sarà pubblicato da Cong, la società che detiene i diritti di tutta l’opera artistica di Hugo Pratt. Dice Patrizia Zanotti, managing director della società: “Con questa nuova interpretazione di Corto Maltese, Cong diventerà anche editore per l’Italia con titoli saltuari e a complemento dei libri che continueranno ad essere editati da Rizzoli Lizard che gestisce il catalogo completo di Hugo Pratt”.     

Oceano Nero si distacca completamente dalla serie di Canales e Pellejero che integra e continua le avventure di Corto Maltese e il cui quarto titolo è previsto per la primavera prossima. In Oceano Nero Corto esce dalla biografia tracciata da Pratt. Un secondo titolo è già in lavorazione ci sarà quindi un’altra sorpresa in uscita prima di Natale”. 

Corto è un mito – afferma Bastien Vivès – che racchiude in sé un insieme di codici e apre la possibilità di mettere in scena tutti gli archetipi. Giustifica l’utilizzo di inquadrature a volte molto espressioniste, come all’inizio della storia, in particolare nella sequenza dell’arrembaggio”.

“Naturalmente dovevamo costruire un intrigo coinvolgente – sottolinea Martin Quenehen – ma non serviva per forza una soluzione come spesso accade nelle avventure di Corto Maltese in cui l’eroe cerca un tesoro ma finisce per non trovarlo mai…volevamo mettere in risalto in particolare le emozioni che si alternano fra i vari protagonisti. E poi volevamo rivisitare i miti. La cosa che mi affascina maggiormente in Pratt e che volevamo a nostra volta cercare in Oceano Nero è la profondità narrativa, i differenti livelli di lettura, il modo di indagare le zone d’ombra della Storia dell’Umanità”.

AGI. – Oltre a oggetti legati al mondo infantile, come vasi di piccole dimensioni, poppatoi, statuette in terracotta, i corredi funerari delle tombe di due bambini risalenti al IV secolo avanti Cristo trovate nel Salernitano sembrano proiettare quei due bimbi, un maschio e una femmina, verso una vita che non hanno avuto il tempo di avere.

Ciò che sarebbe stato il loro futuro è, oggi, possibile immaginarlo grazie al ritrovamento dei due importanti contesti funerari, portati alla luce di recente a Pontecagnano, nella necropoli occidentale dell’antica città nell’area di via Raffaello Sanzio. I due ricchi corredi sono la novità in esposizione nel Museo archeologico di Pontecagnano (Map) Etruschi di Frontiera, in un edificio moderno che accoglie dal 2007, quando è stato inaugurato, le testimonianze archeologiche dell’insediamento che si è sviluppato a partire dal IX secolo avanti Cristo proprio dove sorge la cittadina alle porte di Salerno. Uno scavo che ha restituito quasi diecimila sepolture.  

“Da qualche anno per le giornate europee dell’Archeologia mettiamo in mostra quello che di recente scopriamo o reperti mai esposti”, spiega all’AGI il direttore del sito museale Luigina Tomay. E questo allestimento, ricorda “è stato possibile grazie alla collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Salerno che coordina le indagini archeologiche nella città di Pontecagnano Faiano”.

I corredi infantili che ora è possibile ammirare al Map appartenevano a un bambino di circa tre anni d’età e a una bambina di qualche anno più grande. E hanno sì piccoli giocattoli, ma soprattutto oggetti tipici delle tombe degli adulti. Nella tomba di bambino 9815, oltre ad alcune statuette e il gioco degli astragali, ossicini di ovini utilizzati come dadi, c’è “un ricco servizio di vasellame in bronzo funzionale al simposio, al consumo del vino. Un piccolo cinturone di bronzo indossato, quindi riferibile alla sfera guerriera. E uno strigile di bronzo, uno strumento usato per detergere il sudore dopo la palestra, dunque un oggetto che allude alla pratica atletica”, racconta Tomay. “Tutto questo insieme di materiali è tipico del costume funerario maschile degli adulti, quindi la sfera della guerra, del simposio, l’ideale atletico – ribadisce – questo ci fa capire che, proprio con la deposizione di questo corredo, i parenti del bimbo morto prematuramente hanno voluto sottolineare quella identità che avrebbe assunto una volta arrivato al momento di passaggio dall’età infantile a quella adulta”.

La tomba di bambina 9674, poi, oltre alle statuette femminili di terracotta, presentava per lo più vasi solitamente presenti nelle sepolture di donne adulte. “Ci sono un lebete nuziale, destinato ai lavacri che la sposa aveva nel giorno delle nozze oppure, per esempio, i vasi che contenevano i gioielli o ancora tutto il set per il trucco“, elenca il direttore del museo. “Una serie di oggetti che alludono al destino che avrebbe avuto, quello di matrona, padrona della casa e soprattutto madre”. 

AGI – Uno sguardo nuovo per scrutare l’antico. La mostra-evento ‘Gladiatori‘ del Museo archeologico nazionale di Napoli coniuga archeologia e tecnologia per raccontare un mito di tutti i tempi, con progetto scientifico che, senza sacrificare il rigore metodologico, unisce istituzioni italiane e straniere sotto l’egida di un condiviso percorso di conoscenza che include anche la realtà aumentata, il gioco e la fantasia.

L’esposizione, presentata in anteprima digitale il 31 marzo scorso e in programma sino al 6 gennaio 2022, ha anche come opzione per il visitatore un tour con Smart glasses. “Il nostro museo tende a coniugare tecnologie e cultura – dice all’AGI il direttore del polo autonomo, Paolo Giulierini, riferendosi a una operazione analoga per la mostra ‘Assiri’ – il mondo antico era anche mondo di tecnologia e quindi è giusto che anche oggi ci si riapprocci a quel mondo attingendo a contenuti aggiuntivi che permettano una visita empatica, emozionale. E che soprattutto possano aggiungere dei dati che l’archeologia di per sé non può fornire. Da qui la scelta di questi occhiali, che permettono di entrare nella realtà dei gladiatori in una forma innovativa e soprattutto cogliendo questo spirito emozionale”.

Cosa fanno vedere gli Smart glasses

Gli occhiali speciali messi a punto grazie al software innovativo, con contenuti forniti dal museo, utilizzato da Ar Tour, e di cui AGI mostra in anteprima immagini di realtà aumentata che permettono di vedere al visitatore, animano ad esempio i personaggi che decorano il vaso di Patroclo che apre la mostra, che in forma di ologramma raccontano l’origine dei combattimenti di gladiatori, cioè i duelli in onore dei defunti. Le lastre tombali della necropoli del Gaudo a Paestum sono ricostruite in 3D, spiegandone l’iconografia. Le ricche decorazioni delle armi dei gladiatori si ‘liberano’ da elmi e schinieri che fluttuano nell’aria e narrano le diverse classi dei combattenti. E, ancora, rendono possibile scoprire come morirono gli uomini i cui scheletri provengono dalla necropoli di York, leggere e tradurre le iscrizioni delle epigrafi, comprendere la storia delle figure che si stagliano dai rilievi, guardare da vicino segni e suggestioni dei graffiti parietali, percepire i singoli dettagli di un mosaico che viene da Augusta Raurica, mai esposto prima in Italia, e che illustra in un pavimento i diversi tipi di gladiatori e i loro modi di combattere.

I reperti esposti, così, in tempo reale, diventano essi stessi racconto anche attraverso la loro forma e i loro colori originari, il luogo del loro ritrovamento contestaulizzato nella storia. In mostra ci sono centosessanta reperti divisi in sei sezioni: 1) Dal funerale degli eroi al duello per i defunti; 2) Le armi dei Gladiatori; 3) Dalla caccia mitica alle venationes; 4) Vita da Gladiatori; 5) Gli Anfiteatri della Campania; 6) I Gladiatori “da per tutto”.

Le curiosità in mostra

Tra quelli più curiosi, da Pompei, un lungo ceppo per incatenare persone. Viene da una stanzetta in locali del Quadriportico annesso al Teatro grande che dopo il 59 d.c. ospitarono la caserma dei gladiatori, che prima vivevano e si allenavano in un edificio della regio V. La rissa fu così violenta che in città  vennero sospesi gli spettacoli. Nella nuova sede della caserma quel locale fu trasformato in cella e il lungo ceppo fissato al pavimento imprigionava i gladiatori in punizione.

Proprio in un altro degli ambienti del Quadriportico, a dicembre 1767, venne trovato uno scheletro femminile, una catena d’oro con smeraldi, due anelli con gemme incise, un paio di orecchini e due braccialetti d’oro che furono correttamente riferiti a una donna di condizione libera. Essendo nota l’attrazione che i gladiatori esercitavano sul pubblico femminile, alcuni studiosi ne trassero la conclusione che  una pompeiana benestante era stata sopresa dall’eruzione mentre si intratteneva con uno di loro; in realtà, come emerse più tardi, gli scheletri in quella stanza erano 18 in totale, forse un gruppo di pompeiani che aveva cercato rifugio dai lapilli finendo per morire in quella stanza. I gioielli, comunque, fanno parte della mostra ospitata nel Salone della Meridiana.

Gli Smart glasses  prevedeno un costo di noleggio di 5 euro (3 euro per titolari di abbonamento Openmann e Artecard).
 

AGI – L‘Italia riparte nel segno del Sommo Poeta. “Le celebrazioni dei settecento anni dalla morte di Dante sono diventate un momento di orgoglio nazionale e si incrociano con la voglia che ha il Paese di ripartire, di uscire dalla pandemia, di riavvicinarsi alla cultura, di avere l’Italia come l’abbiamo conosciuta nel tempo”, ha osservato il ministro della cultura, Dario Franceschini, all’inaugurazione della mostra dal titolo “Il Trittico del Centenario” dedicata a Leonardo, Raffaello e Dante che si è aperta all’Accademia dei Lincei, a Roma.

La mostra

La mostra propone una rassegna sul gusto e l’estetica che hanno presieduto nel primo dopoguerra alle celebrazioni dei centenari di Leonardo (1919), Raffaello (1920) e Dante (1921). Erano anni quelli in cui il Paese, uscito dalla Grande Guerra, aveva necessità di ricostruire una propria identità nazionale appellandosi anche a un glorioso passato non solo di bellezza, ma di ingegno ed etica e che fosse in grado però di guardare al futuro con spirito di innovazione e cambiamento.

Le celebrazioni erano non solo l’occasione, come ai giorni nostri, per approfondire studi e ricerche ma fonti di ispirazione per gli artisti delle avanguardie e non, e coinvolsero ogni ambito del fare umano arrivando a tutta la popolazione attraverso cartoline, oggetti, mobili, architettura, copertine di riviste e giornali e aprendo la strada a nuovi stili e tendenze che inglobavano e riutilizzavano la lezione dei grandi del passato che si stavano celebrando. 

Un secolo dopo

“Il programma di iniziative realizzato dall’Accademia dei Lincei, che si affianca a quelle organizzate dal Comitato di Dante, è straordinario. La mostra”, ha proseguito il ministro, “è affascinante perché ci permette di andare a riscoprire e a rivedere cosa è avvenuto un secolo fa nel corso delle celebrazioni di Leonardo, Raffaello e Dante nel 1919, nel 1920 e nel 1921”.
 “La pandemia – ha sottolineato Franceschini – è stata un momento di rottura: siamo all’inizio di un periodo nuovo e nessuno di noi sa se quello che abbiamo alle spalle si chiuderà con una parentesi e tutto tornerà come prima o viceversa, come è avvenuto per le guerre, lascerà cambiamenti profondi. Sicuramente lascia – ha concluso – una grande voglia di ripartire e questa mostra entra appieno in questo clima di ripartenza”.

AGI – La Giunta comunale di Milano ha approvato la delibera di intitolazione del Teatro Lirico a Giorgio Gaber, che visse qui il culmine del percorso artistico e le fasi più mature e creative del proprio impegno civico. L’idea dell’intitolazione è nata dagli stessi cittadini milanesi che l’hanno sostenuta grazie a una petizione popolare.

La proposta era stata subito sposata pubblicamente nel gennaio del 2013, nel decennale della scomparsa dell’artista, dall’allora sindaco Giuliano Pisapia, e ribadita nel febbraio del 2014, in occasione di un incontro pubblico di presentazione del progetto di restauro del Teatro Lirico. Oggi la Giunta ha formalmente deciso l’intitolazione al grande artista. 

AGI – Sarà molto speciale il prossimo compleanno di Lia Levi, il 9 novembre. Non solo per il traguardo dei novant’anni ma anche perché la scrittrice che nel 2018 ha vinto il premio Strega Giovani con ‘Questa sera è già domani’ lo festeggerà con l’uscita di un suo nuovo libro, un inedito che ha però quasi 80 anni e una storia magica. Si chiama “Dal pianto al sorriso. Breve storia di nove mesi di dominazione tedesca”, Levi, preziosa testimone letteraria della persecuzione nazifascista, lo ha scritto quando aveva 12 anni, ed è il racconto di una famiglia ebrea a Roma prima della Liberazione, vergato a mano subito dopo l’arrivo degli alleati per regalarlo ai genitori.

Le emozioni di quel manoscritto capitatole per caso tra le mani un mese e mezzo fa, mentre, per l’anniversario della Liberazione cercava un diario di sua madre da mostrare in un webinar, la scrittrice le aveva riversate su Repubblica. Pochi giorni dopo, colpita da tutta la storia Edizioni Piemme – Il battello a vapore (che tra i vari libri per ragazzi di Levi ha da poco pubblicato ‘Il giorno della memoria raccontato ai miei nipoti’) ha deciso di mandarlo in libreria, anticipa all’AGI la casa editrice, “proprio per i novant’anni di quella bambina diventata scrittrice accompagnandolo con una serie di festeggiamenti e presentazioni”.

“Sono nel mezzo di una corrente di emozioni, a quella della sorpresa del ritrovamento si è aggiunta adesso quella della pubblicazione. Di solito aspetti la chiamata dell’editore quando hai appena ultimato un libro, non se l’hai scritto ottanta anni fa”, chiarisce all’AGI Levi, riassumendo le fasi romanzesche della scrittura, del ritrovamento e del futuro in libreria del manoscritto che, osserva, sembra quasi un sequel di ‘Una bambina e basta’, il suo romanzo d’esordio dove raccontava le leggi razziali vissute sulla sua pelle, dai sei ai dodici anni.

“E’ come se appena liberata, la “bambina e basta” avesse dato vita a un libro. Quel libro scritto e ricopiato in bela calligrafia  (“finito di scrivere il 26/12/’44 e di copiare il 16/2/’45”, annotava la dodicenne Levi) e che a differenza della prima autobiografia infantile racconta la storia di una famiglia inventata (con un cognome diverso e un figlio maschio e una femmina, personaggi fantasiosi rispetto alle tre sorelle Levi) dopo 78 anni grazie a Piemme sarà pubblicato con il manoscritto in copia anastatica, originale e integrale a colori, una lunga introduzione dell’autrice novantenne in dialogo con la se stessa dodicenne e, a seguire, il testo ribattuto. “Sarà diretto al pubblico dei ragazzi e degli studenti e agli studiosi appassionati di ritrovamenti letterari” spiega Levi, che ancora non ha deciso, confida, la chiave con cui accompagnerà quei fogli scritti a mano Levi.

“Devo prima metabolizzare le emozioni – chiarisce – ho trovato qualcosa che non cercavo. Di quel manoscritto mi ricordavo soprattutto che quando lo avevo donato ai miei, penso per il loro anniversario di matrimonio perché a quei tempi non c’erano soldi per i regali, ero rimasta un po’ male per la loro reazione misurata”. L’avevano ringraziata, certo, ma senza spendersi troppo sulla qualità della scrittura o sulla creatività di quella ragazzina che aveva inventato una nuova famiglia ebraica, immaginandosela nascosta dai vicini durante l’occupazione nazista, poi in fuga verso una pensione per una spiata, quindi in pena per l’arresto del padre e con il lieto fine in Sinagoga.

“Io già sapevo di voler diventare una scrittrice ma i miei erano piemontesi, molto strutturati, e per me sognavano un lavoro più solido, mi volevano professoressa”. Il fatto che sua madre l’abbia conservato e custodito nel risvolto della copertina del suo diario, oggi, 78 anni dopo, vale più di qualsiasi complimento a quella bambina scrittrice.

 Sarà in libreria da martedì 8 giugno, edito da Mondadori, il nuovo libro di Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, e Antonio Nicaso, esperto di ‘ndrangheta e docente di Storia sociale della criminalità organizzata alla Queen’s University in Canada. Il titolo è emblematico: “Non chiamateli eroi” e ripercorre le storie di alcune vittime di mafia partendo dalle figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Il volume, che è stato arricchito con le illustrazioni di Giulia Tomai, unisce le storie di Giuseppe Letizia uccisa a Corleone a soli 13 anni; Peppino Impastato; Giorgio Ambrosoli; Carlo Alberto dalla Chiesa; Rosario Livatino; Libero Grassi; don Pino Puglisi; Lea Garofalo; Rocco Gatto; Giuseppe Di Matteo; Gelsomina Verde; Annalisa Durante; Cocò Campilongo. A queste si intrecciano altre storie, fino all’analisi finali degli autori, a un glossario dedicato alle parole più importanti e una buona descrizione delle fonti. “Non chiamateli eroi” è destinato principalmente ad un pubblico giovane, ma la scrittura, semplice e concreta,e le testimonianze che contiene, consentono a chiunque di approfondire, scoprire o rileggere storie che hanno segnato direttamente la lotta alle mafie.

Nel volume c’è l’idea progettuale dei due autori: “A trent’anni dalla morte dei due magistrati che non volevano essere chiamati eroi, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso ricordano le vite di chi, guardando la mafia negli occhi, ha deciso di difendere le proprie idee, la propria dignità. I loro sogni, la loro speranza, il loro coraggio sono un modo per non dimenticare e per ricordare che “Si può fare qualcosa, e se ognuno lo fa, allora si può fare molto”.

Nella nota finale del libro, che l’AGI ha letto prima dell’uscita ufficiale, Gratteri e Nicaso hanno spiegato: “Raccontare la storia di chi è morto per mano delle mafie, i loro sogni, le loro speranze, la loro normalità, ma anche il loro coraggio, è un modo per non dimenticare, per farli rivivere. La memoria del loro sacrificio – insistono gli autori – deve spingere a impegnarsi per costruire un Paese che sia veramente libero dalla paura, dal bisogno, ma soprattutto dal condizionamento mafioso e dai maneggi elettorali. È opportuno passare dalla eroicizzazione all’umanizzazione delle vittime. Per tutti, dovrebbero valere le parole profetiche di Rocco Gatto, un mugnaio calabrese ucciso dalla ‘ndrangheta nel 1977: ‘La loro forza sta nella nostra debolezza, nella nostra paura’ ripeteva spesso, riferendosi agli uomini che da lì a poco lo avrebbero ammazzato. ‘Ma se tutti ci muoviamo, se li smascheriamo, li possiamo vincere. Loro sono pochi, noi siamo molti’”.  

Per questo, l’idea di Gratteri e Nicaso è che “la lotta alle mafie deve passare da una corresponsabilità dell’intero sistema istituzionale, culturale, sociale ed economico. Oggi più che mai c’è bisogno di conoscenza, ma soprattutto di scelte, coraggiose e inequivocabili. Quelle che spesso portano a schierarsi dalla parte della consapevolezza, piuttosto che da quella dell’indifferenza. L’alba di un nuovo giorno è possibile. Le parole sono pietre. Usiamole – affermano gli autori – per costruire ponti, per unire le coscienze di chi non sopporta più la tirannide delle mafie, l’ipocrisia di chi dovrebbe combatterle e le menzogne di chi continua a girarsi dall’altra parte”. 

AGI – Palermo ritrova la sua ‘Vucciria’, e Renato Guttuso riprende a ‘dialogare’ a palazzo Steri, l’edificio che fu sede dell’Inquisizione, con Leonardo Sciascia, che nel pittore di Bagheria aveva colto “il conterraneo, l’amico – la sua irresistibile vitalita’ e simpatia, la sua parola, il suo gesto – il suo gesto che dalla vita sconfina nell’arte senza soluzione di continuita’…”.

Lo scrittore di Racalmuto, che anche dopo la rottura maturata tra i due sul caso Moro non ha mai smentito queste parole, trasse proprio dai graffiti dei detenuti allo Steri materia per il suo “Morte dell’inquisitore”, in cui racconta l’omicidio di Juan Lopez de Cisneros ad opera di Diego La Matina, eretico in cui Sciascia trovo’ il proprio antenato spirituale. Fu l’amico Guttuso a disegnare, con il tratto nero della morte, il momento in cui quella ribellione era sfociata nel sangue in un attimo liberatorio e feroce; fu lui che nella tela indovinò, in modo stupefacente, ciò che sarebbe stato scoperto dai ricercatori anni dopo: il luogo dello Steri in cui Diego La Matina uccise il suo persecutore (un vano sul cui sfondo c’è una scala).

Il rimando fra i due intellettuali

Il rimando fra i due grandi intellettuali siciliani è stato continuo negli anni, fecondo, e sembra destinato a proseguire. La ‘Vucciria’, il dipinto più famoso di Renato Guttuso, è, infatti, tornata allo Steri, a pochi metri dai graffiti che inquietarono Sciascia. Percorrendo pochi passi è possibile stabilire un asse – quasi impossibile, quasi incredibile – tra i due versanti dell’anima: la passione, che emerge prepotente dalle pennellate del bagherese, e la ragione, incarnata dalla scrittura dell’autore di Racalmuto.

Prima di rientrare a Palermo, la Vucciria, che racconta il mercato ormai leggendario della città, era stata in trasferta nella Sala della Lupa a Montecitorio. Oggi, sottolinea l’Università di Palermo, è visibile in “un involucro nuovo di zecca, immersivo, struggente, cuore del nuovo percorso di visita che restituisce lo Steri alla citta’”.

Un’opera dipinta in due mesi nel 1974

Guttuso dipinse la tela nell’arco di alcuni mesi, nel 1974, facendo arrivare nel suo studio di Velate frutta e verdura di giornata per ricreare e poter così riprodurre, i colori del mercato palermitano. Oggi il quadro ha ripreso posto nell’antica sala delle Armi del palazzo medievale, a piano terra, dove era stato sistemato nel 2004 su iniziativa dell’allora rettore Giuseppe Silvestri. Qui la ‘Vucciria’ – 3metri x 3metri, Guttuso per dipingerla si servì di un elevatore per lavorare in quota – è stata collocata in una nicchia che “la accoglie come un abbraccio”. “Le figure sbozzate – spiegano i curatori della collocazione – si muovono tra pesci, frutta, verdura, quarti di carne”. “Una grande natura morta – scrisse Guttuso – con in mezzo un cunicolo entro cui la gente scorre e si incontra”.

La vista è immersa nei colori e nei movimenti delle figure (“Di tutti i personaggi del quadro possiamo infatti chiederci: stanno comparendo o scomparendo?”, si interrogò Andrea Camilleri); l’orecchio e’ teso ad agguantare le voci del mercato – le tipiche “banniate” – registrate e conservate negli archivi del Cricd, il Centro regionale del Catalogo. L’allestimento, curato da Marco Carapezza, Paolo Inglese e Maria Concetta Di Natale e realizzato dall’architetto Maria Carla Lenzo, e’ completato da alcuni pannelli con biografia, note critiche, scritti di colleghi e intellettuali, uno schizzo pubblicato dal Villabianca dell’antica Bocceria; sui monitor scorrono contributi video dalle Teche Rai, dal “Diario di Guttuso” realizzato da Giuseppe Tornatore nel 1982 e dal documentario del 1975 “Come nasce un’opera d’arte”.

“Un’icona della città”

“Quello di oggi è un momento molto atteso – ha sottolineato il Rettore dell’Università degli Studi di Palermo, Fabrizio Micari – Lo Steri, che in ogni sua pietra custodisce un pezzo della storia di Palermo, e la Vucciria di Guttuso, un’icona rappresentativa della nostra città con i suoi colori e le sue luci ma anche con le sue ombre, tornano visitabili (dal 5 giugno) in una veste che ancora maggiormente esalta la realtà di un contesto storico e di un’opera semplicemente straordinari”. “La Vucciria di Guttuso diventa protagonista a tutto tondo della Storia plurisecolare del Palazzo Chiaromonte, con un allestimento molto curato, ricco di suoni, luci, immagini e descrizioni critiche che rendono straordinaria l’esperienza della visita in un contesto, quello della Sala delle Armi dello Steri, assolutamente unico”, sottolinea Inglese, direttore del Sistema museale di Ateneo Simua.

La ‘Vucciria’ è sicuramente il quadro più famoso di Renato Guttuso. “Lo è – spiega all’AGI Marco Carapezza, vice presidente degli Archivi Guttuso – per due ragioni: forse la Crocefissione è la sua tela più bella, ma questo è un quadro unico perchè coglie l’anima di Palermo, che l’ha adottato come cifra identitaria. Palermo considera questa tela la sua rappresentazione più forte: ce ne accorgiamo vedendo in giro la quantità di riproduzioni di questo quadro nelle botteghe, nelle case private; è stato adottato, insomma, dalla gente comune. Qui risiede, oltre che nella fama internazionale che lo circonda, la sua unicità. La città vi si riconosce: esso mostra le passioni forti, come il cibo, la sensualità, la socialità del mercato. E la morte. E’ quel senso di morte che permea Palermo: guardi il coltello che infilza la carne del bue, quel pesce spada mozzato. Brandi parlava di un ‘quadro nero’, in cui il nero profila tutte le cose e accompagna questo senso di morte. Palermo, che soggioga per la sua bellezza, per il suo fascino e la sua ricchezza, è una città di morte”.

Proprio qualche giorno fa la Vucciria, quella ‘fuori’ dalla tela, è stata scenario di un omicidio: “Esattamente. Palermo – sottolinea Carapezza – vede la morte continuamente presente. Questa tela è una natura viva, ma al tempo stesso è un quadro nero. La capacità di rendere il corto circuito tra queste due cose è la ragione del suo successo popolare”.

La Vucciria non esiste più

La Vucciria che Guttuso dipinse, in realtà, non esiste più, inghiottita in una movida che ha reso quei luoghi uguali a quelli di decine di città nel resto del pianeta. “In un certo senso, dicono alcuni – aggiunge Carapezza – il quadro ha ‘ucciso’ la Vucciria. Dopo la sua composizione, la Vucciria entra nel mirino di una particolare attenzione. Il cinema, ad esempio: fino agli anni Settanta i film girati a Palermo non hanno al centro quel mercato. Dopo il quadro nasce un’attenzione particolare: nessun film ambientato a Palermo può fare a meno del mercato della Vucciria. Il tipo di attenzione, però, ha trasformato quel mercato, facendolo diventare il luogo in cui sono andati ad abitare artisti, anche di linee completamente diverse tra loro”.

Se sono le “passioni forti” a muovere il pennello di Guttuso, la ragione torna, con l’amico Sciascia, a riprendere il proprio filo. “A Palermo un mercato è qualcosa in più di un mercato, cioè di un luogo dove si vendono vivande e dove si va per comprarne. E’ una visione, un sogno un miraggio. Un mangiar visuale“, scrisse quest’ultimo, prima che si spezzasse l’amicizia tra i due. “Il dialogo tra i due si interruppe, ma al tempo stesso non si interruppe mai. Sciascia – sottolinea Caraprezza – ripubblica il suo testo su Guttuso, e a quest’ultimo resta profondamente legato. Uomo meraviglioso, ma non passionale, Sciascia pianse quando gli raccontammo che Guttuso stava male. Siamo alla fine del 1986-inizio del 1987. Questo dialogo si era interrotto bruscamente perchè l’amicizia era stata forte e Guttuso era stato ‘il pittore di Sciascia. Erano stati l’uno la rappresentazione della Sicilia che l’altro voleva“.

Nel palazzo che fu sede di un potere brutale e arbitrario, oggi i due grandi siciliani raccontano le loro verità, le due diverse ribellioni: “La Vucciria e’ un mercato – conclude Carapezza indicando le foto alle pareti – e non a caso qui accanto c’è piazza Caracciolo, sullo sfondo, dedicata al vicerè che abolisce per sempre l’Inquisizione. Nel mercato tutto è a vista, nell’Inquisizione tutto e’ coperto”. L’Inquisitore, da una stanza all’altra di palazzo Steri, e’ stato sconfitto.

AGI –  C’è tanta Italia nell’edizione 2021 del World Press Photo, il concorso internazionale di fotogiornalismo giunto quest’anno alla 64ª edizione e ospitato in anteprima nazionale nelle sale di Palazzo Madama, a Torino.  Antonio Faccilongo (Getty), con il reportage Habibi (“Amore mio”) ha trionfato nella sezione “World Press Photo Story of the Year 2021”, il primo italiano a riuscirvi, racconta all’AGI, una storia d’amore e di speranza, sullo sfondo del conflitto tra israeliani e palestinesi.

Migliaia di palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliane e le visite coniugali, così come qualsiasi altro contatto fisico, sono negati. A partire dai primi anni Duemila, ai detenuti che desiderano avere dei figli non resta quindi che contrabbandare il loro sperma fuori dalla prigione, nascondendolo nei regali destinati agli altri figli. Una fotografia, in particolare, mostra una provetta di fortuna ricavata da una penna e nascosta in uno snack.

“Molti uomini hanno partecipato ad azioni militari durante la seconda Intifada – spiega Faccilongo  – sono considerati dei martiri viventi e i bambini nati con l’inseminazione in vitro sono il frutto dell’amore tra questi prigionieri e le loro mogli. Sono figli di combattenti, ma i genitori non li stanno crescendo insegnandogli a fare la guerra. Vanno a scuola, imparano a conoscere la storia del loro paese, potrebbero semmai diventare futuri leader culturali”.

Il reportage di Faccilongo va avanti da anni ed è destinato a proseguire nel tempo. Il fotografo ha conquistato a piccoli passi la fiducia degli interlocutori, rispettando le usanze del luogo. “Sono quasi diventato un membro della famiglia, l’ho capito quando una delle donne che ho fotografato mi ha abbracciato e dentro casa si è tolta il velo. Con le donne è vietato qualsiasi contatto, non si può stringere loro la mano. Il fatto che si fidassero di me mi ha reso orgoglioso”.

Nel corso degli anni Faccilongo ha instaurato un legame molto intenso con alcuni protagonisti del suo lavoro, come nel caso della famiglia Rimawi. “Il figlio di Abdul Karim e Lydia, Madj, oggi ha sette anni ed è uno dei primi bambini nati in Cisgiordania con l’inseminazione in vitro. Tra le immagini ne ho scelto una che ritrae la mia mano che tiene uno smartphone. Sul display c’è la fotografia di Madj, che mostra il numero sette. Me l’ha inviata il giorno del suo compleanno, purtroppo con il Covid è stato impossibile raggiungerlo, ma ho voluto comunque inserire il selfie tra i contenuti del reportage. Per questi bambini compiere sette anni è importante, perché i prigionieri possono incontrare i loro figli solo fino ai sei anni, dopo non ci sarà più alcun contatto come avviene con le mogli”.

Le fotografie di Faccilongo sono tecnicamente valide, ma ciò che colpisce lo spettatore è la forza narrativa. “Credo che la storia sia fondamentale, ma bisogna anche saperla interpretare, evitando gli stereotipi. In Habibi l’amore ha un ruolo centrale, ci sono una serie di immagini apparentemente vuote che però raccontano momenti e stati d’animo”. Il lungo reportage di Faccilongo è destinato a diventare anche un documentario video, ma i tempi sono ancora acerbi. “L’idea è seguire uno di questi bambini fino a quando diventerà padre. È un lavoro pensato per il cinema, che mi auguro di portare a termine”. 

AGI – È scomparso all’età di 91 anni Eric Carle, lo scrittore e illustratore americano di libri per ragazzi famoso in tutto il mondo per ‘Il piccolo Bruco Maisazio’ (titolo originale ‘The Very Hungry Caterpillar’), che tradotto in 62 lingue ha venduto 46 milioni di copie. Ad annunciarne la morte sono stati i familiari, che lo hanno accompagnato nell’ultimo saluto nella sua casa di Northampton in Massachusetts.

Eric Carle ha scritto oltre 70 libri, tra cui il classico della letteratura per ragazzi “The Very Hungry Caterpillar”, pubblicato nel 1969 e che racconta la storia della metamorfosi di un bruco verde e rosso in una bellissima farfalla, con la quale hanno imparato a leggere molte generazioni di americani.

Il libro si trovava al decimo posto tra i più prestati nella storia della New York Public Library in un elenco pubblicato nel 2020 in occasione del suo 125esimo anniversario.

Penso che sia un libro di speranza“, ha detto Carle in un video diffuso in occasione delle iniziative che hanno accompagnato il 50esimo anniversario dell’opera, ripetendo più volte che voleva che il libro servisse ai bambini nel passaggio ai primi anni di scuola, così che potessero identificarsi come enormi farfalle che lasciano la sicurezza e il calore delle loro case volando verso il futuro. “I bambini hanno bisogno di speranza. Tu, piccolo insignificante bruco, puoi diventare una bellissima farfalla e volare per il mondo con il tuo talento”, ha sottolineato l’autore.

Nato a Syracuse (New York) nel 1929 ma cresciuto in Germania, Carle tornò presto negli Usa dove sviluppò la sua importante carriera di disegnatore, scrittore e illustratore di libri. Nonostante la sua lunga lista di opere, ha iniziato a scrivere libri per bambini a 40 anni d’età.