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AGI –  Corone di fiori e la maglia del Torino calcio, città natale di Gianni Minà. Si è aperta, in Campidoglio, la camera ardente per il giornalista scomparso a Roma lunedì. Ad accogliere il feretro, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, l’assessore alla Cultura Miguel Gotor, la moglie Loredana Macchietti e le due figlie Francesca e Paola, insieme a Marianna nata dal primo matrimonio di Minà. Tra i presenti al momento dell’arrivo anche don Luigi Ciotti, Sigfrido Ranucci, Andrea Purgatori, Franco Carraro, il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo. 

Nella camera ardente allestita in Campidoglio una foto proiettata che ritrae Minà sorridente con la mano poggiata su un quotidiano, da stamattina c’è stato un flusso costante di amici. Divenuto celebre per le sue interviste a Maradona, Fidel Castro, Mohamed Alì, ma anche per i suoi reportage, Mina’ ha saputo imprimere un suo stile nel giornalismo, diventando “un maestro” per tanti che oggi sono venuti a salutarlo.

Il ricordo del sindaco di Roma

“È stato un giornalista e un autore televisivo straordinario. Un autore di pagine memorabili di giornalismo, una personalità riconosciuta in tutto il mondo. Penso uno tra i più grandi giornalisti che l’Italia abbia avuto, che ha saputo interpretare la sua professione in un modo vigoroso e impegnato. È stato protagonista e testimone di pagine fondamentali della storia del ‘900 e della storia politica più recente. E’ andato in America Latina, è stato impegnato in tante battaglie per i diritti e per la libertà. Insomma, qualcosa di piu’ di un giornalista”, ha detto Roberto Gualtieri.

“Una personalità straordinaria e anche una persona dolcissima – ha ricordato -. Una persona con un grandissimo cuore che ha messo tutto il suo impegno, la sua passione e il suo rigore per rendere nobile il mestiere del giornalismo e per scrivere pagine importanti della cultura del nostro Paese. Un protagonista della vita culturale, civile e democratica dell’Italia e del mondo ci sono oggi paesi e continenti che lo ricordano e lo piangono”.

 Il ricordo dei Campioni del Mondo del 1982

“Il modo migliore per conservare gli amici è tenerli nel cuore”. Cosi lo ricordsano gli azzurri del mondiale di Spagna attraverso un post su Instagram. “Ciao Gianni – si legge sui profili di Bruno Conti, Beppe Bergomi, Antonio Cabrini, Franco Causio – grande giornalista, scrittore, conduttore ma soprattutto amico. Ci mancherai. I campioni del mondo del 1982”. Causio, oltre a pubblicare una foto del giornalista, ne aggiunge anche un’altra che lo ritrae con Minà al centro e fra gli altri, con Francesco Graziani, Antonio Cabrini e Bruno Conti.

 

 

 

AGI – Una inedita ed effervescente coppia per commentare l’edizione italiana di Eurovision Song Contest 2023. Saranno Mara Maionchi e Gabriele Corsi, come svelato ieri sera durante la trasmissione “Stasera c’è Cattelan”, il late show di Alessandro Cattelan in onda su Rai 2, ad accompagnare i telespettatori italiani nella “tre giorni di Liverpool” che vede come portabandiera per il nostro Paese Marco Mengoni con una versione unica e riarrangiata di “Due Vite”, il brano vincitore della passata edizione del Festival di Sanremo.

 

Sarà @maramaionchi ad affiancare @corsi_gabriele nel commento di #Eurovision2023#staseracecattelan pic.twitter.com/YyJmlcGfmr

— alessandro cattelan (@alecattelan)
March 28, 2023

 

Le due semifinali saranno trasmesse martedì 9 e giovedì 11 maggio alle 21 su Rai 2 (precedute da due anteprime alle 20.15) mentre La Grand final di sabato 13 maggio andrà in onda alle 20.40 su Rai 1. Rai Pubblica Utilità per favorire una maggiore inclusione, e come da tradizione del Servizio Pubblico, provvederà a sottotitolare e audiodescrivere le tre serate in diretta su Rai 2 e Rai 1 e a rendere interamente accessibile, anche attraverso la Lingua dei Segni. 

La Grand final del 13 maggio su un canale dedicato di RaiPlay. Il servizio di audiodescrizione sarà attivo in streaming per tutte e 3 le serate anche su RaiPlay. Su Rai Radio 2 e sul Canale 202 del Digitale terrestre il commento in simulcast delle tre serate sarà invece affidato a LaMario, Diletta Parlangeli e Saverio Raimondo. 

AGI – È il colombiano  Gabriel García Márquez, il celeberrimo autore di “Cent’anni di solitudine” e premio Nobel 1982, lo scrittore in lingua spagnola più tradotto nel XXI secolo. 

Seguono in lista la cilena Isabel Allende, l’argentino Jorge Luis Borges, il peruviano Mario Vargas Llosa premio Nobel 2010 e, in quinta posizione, il padre canonico della letteratura spagnola Miguel de Cervantes Saavedra. È quanto risulta dalla “Mappa della traduzione mondiale” che l’Istituto Cervantes presenterà mercoledì prossimo all’XI Congresso Internazionale della Lingua Spagnola, che si celebra nella città andalusa di Cadice.

Dietro ai cinque autori citati, completano la prima decina nell’ordine gli spagnoli Carlos Ruiz Zafon e Arturo Perez-Reverte, i cileni Luis Sepulveda e Roberto Bolano e lo spagnolo Javier Marias. La classifica è stata elaborata tenendo conto delle traduzioni in dieci lingue: inglese, francese, tedesco, arabo, portoghese, giapponese, italiano, russo, svedese e cinese. A seconda dell’idioma di destinazione si osservano considerevoli divergenze circa le preferenze per gli autori, alcuni dei quali molto amati in certi Paesi non si collocano tra i primi dieci. È  il caso del cileno Alejandro Jodorowsky, il più tradotto in francese dalla lingua spagnola, mentre la lista delle traslazioni in giapponese mette ai primi posti l’argentino-cubano Che Guevara (ottavo in classifica) e il teologo spagnolo del sedicesimo secolo Luis de Granada (sesto). 

AGI – Forse lo studio di Kant e del suo celebre aforisma che unisce la Natura e l’Anima, l’Esterno e l’Interno, il canto delle stelle e la musica del cuore, hanno dettato dalla giovane Camilla Ghiotto un romanzo dal titolo  “Tempesta” (edizioni Salani-Le Stanze), che non vuole essere solo un romanzo ma anche una sorta di diario che a tratti prende la piega dell’autobiografia, della confessione di un fallimento, per poi ripiegare nella ricerca di sé e diventare un gioiellino della narrativa giovanile.

Camilla Ghiotto ha 24 anni e ne aveva 17 quando ha perso suo padre di cui ha potuto “vivere” poco dal momento che fra i due la differenza di età è di 75 anni. Ma un padre che da subito è per te anziano, da quando cioè vieni al mondo, se a volte suscita sentimenti difficili perché non è giocherellone come quelli delle amiche, un giorno diventa un tesoro. Un tesoro postumo, perché se ne capisce il valore, quando il genitore non c’è più e perché si ha l’età giusta per comprendere.“Tempesta” è il nome “in codice” del padre. E già questo indizio vuol dire molto….

Camilla Ghiotto oggi è adulta, divenuta tale attraverso un rapporto molto speciale: quello tra una figlia diciassettenne e un padre di novantadue, alla ricerca di un senso della vita mediante l’aiuto, complesso e pieno di domande irrisolte nei libri e nei pensieri di un genitore anziano, ma nello stesso tempo portatore di una vita densa e affascinante. Ne è venuto fuori un libro che si fa leggere, che fa pensare, che disegna i dolori, le speranze le scelte di una stagione della nostra storia e di ciò che lascia dietro di sé a chi resta, una sorta testamento spirituale che si riassume nel kantiano messaggio “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.   

Il testamento di un uomo da lasciare ai giovani alla ricerca di un senso del Tutto, che dalla vicenda di un comandante di una brigata partigiana, ha conosciuto il travaglio delle scelte, anche difficili di una lunga stagione della vita. Kant gira sulle pagine del libro perché come ha spiegato all’AGI l’autrice, “studio filosofia e quell’autore veniva citato da mio padre molto spesso”.

Come mai?

“Mio padre – racconta l’autrice –  ha fatto studi tecnici, i quelli classici. I ragazzi che erano con lui, durante la sua vita da partigiana  lo hanno introdotto agli studi classici, alla letteratura e alla filosofia. Durante la notte parlavano di questo quando erano nascosti in gruppo, e tra l’altro avevano anche dei libri che se li erano portati dietro per un po’ come compagnia. Quindi, quando mio padre parlava della resistenza e mi raccontava episodi, citava ogni volta questa frase di Kant sul cielo stellato per spiegarmi come quella legge morale fosse unica. Una legge che  aveva seguito per diventare partigiano”.

Il romanzo, o forse una ricerca interiore, scritto bene in un ottimo italiano, è in realtà diviso nel racconto di momenti, di vicende, di dettagliate storie di vita partigiana nelle montagne e del travaglio della fame, del freddo e del coraggio di giovani vite sacrificate per una patria perduta, in un grido di libertà. La descrizione di quella vita partigiana si mescola con la ricerca di una figlia che dallo scrigno del tesoro di una vita del padre, tra studio, politica e ricerca morale cerca di trasmetterle la via per riappropriarsi di un modo nuovo di sfogliare l’eterno libro della vita. Camilla Ghiotto ha potuto scriverlo perché alla morte del padre, ha trovato un manoscritto, una sorta di diario delle vicende partigiane di suo padre.

Conosceva la storia del genitore ma non immaginava che ci fossero, nascoste, quelle carte. Il libro è in fondo, l’incontro – scontro di una diciassettenne con un uomo di oltre novanta anni che ha vissuto intensamente una vicenda che ci ha segnato tutti e che vuole nella drammaticità del travaglio personale di quegli uomini, costruire le basi solide di un futuro migliore. La ragazzina diciassettenne cerca nei ricordi della guerra partigiana le tracce di quel lascito e lo insegue anche nel nuovo mondo in Argentina per completare la sua ricerca dovunque la forte personalità del padre ha saputo mettere insieme per lei la cosa più bella che un padre può trasmettere a chi verrà dopo di lui: il suo cuore sotto il cielo stellato.

Da dove quindi nasce l’esigenza di scrivere questo libro?

“Dopo la sua morte ho trovato il manoscritto in cui raccontava dell’anno che aveva vissuto da partigiano. E a partire da quello, leggendolo mi sono fatto alcune domande riguardo al presente, alla mia condizione di giovane d’oggi: la mia generazione alla sua stessa età per ovvi motivi è completamente diversa dalla sua. Lui aveva 19 anni quando è diventato partigiano e quindi leggere di quel ragazzo che era, in una situazione di quel genere, mi ha portato a confrontarmi con il presente a farmi delle domande. Da qui è nata l’esigenza di scrivere anch’io un libro su di noi. Fra me e mio padre c’è una notevole differenza di età. Ed è stato proprio questo che ha reso difficile, per molto tempo, la possibilità di avere un rapporto con lui quando era in vita. Abbiamo ben 75 anni di differenza che non è poco”.

Un divario notevole…

“Un divario che ha fatto sì che quando ero piccola, da lui volevo altro. Non volevo un padre che era già nella stagione finale della sua vita per cui passava molto tempo a leggere seduto sul divano. Non faceva le cose che facevano gli altri padri più giovani. Per cui – ha spiegato Ghiotto – ci siamo incontrati e scontrati in momenti reciproci delle nostre vite che non potevano per forza combaciare e quindi questo ha reso abbastanza difficile il rapporto. Paradossalmente, io l’ho conosciuto di più ed ho compreso che non eravamo poi così tanto diversi, dopo la sua morte quando sono venuta  a conoscenza di questo manoscritto, quando messo la mano su alcune cose sue”.

Poi, da grandi tante cose si capiscono meglio

“Esatto a grande potevo anche comprendere meglio la sua storia e quindi fare anche un paragone con il mio tempo”.

Quanto è importante, indipendentemente dalle opinioni politiche del caso, che i ragazzi oggi  conoscano questo periodo storico, abbraccino soprattutto il concetto di “resistenza” per combattere chi vuole toglierti la libertà, più in generale per la libertà?  

“Molto importante a partire dalla scuola. Se non si studia questo, non si capisce come siamo arrivati qui. Anzi, i programmi di storia contemporanea andrebbero approfonditi meglio. E in generale, avere consapevolezza del passato nel vissuto di oggi è importante anche perché molte delle battaglie  che noi ragazzi perseguiamo come quelle della questione ambientale,  per i diritti civili o lo stesso  femminismo, non nascono oggi. Di queste lotte noi ora ne siamo portavoce ma prima, sono state condotte da altri per noi, Sono battaglie novecentesche. Quindi avere consapevolezza di quello che è stato, per noi giovani è molto importante. Non si può non avere una memoria storica.  E quindi, è bene farsi delle domande anche sulla resistenza. La memoria deve essere attiva, consapevole e fare da bussola per il futuro”.

Camilla Ghiotto avrebbe mai fatto il partigiano?

“Me lo sono chiesto tante volte. Penso di sì alla fine.Leggendo quel manoscritto mi sono resa conto che quello che avevo studiato a scuola era molto poco. Nei libri non ci sono tracce di testimonianze cosi. E soprattutto, non va trascurato il fatto che oltre all’idea del partigiano eroe coraggioso c’è anche la paura, il terrore vero e proprio che quei ragazzi avevano. Diventare partigiano doveva essere molto difficile. Per come sono oggi, mi viene quasi impossibile immaginarmi come mio padre. Ma se fossi vissuta in quell’epoca o ci fossero oggi quelle condizioni, mi auguro di avere il coraggio di farlo anch’io, anche con la paura”.

AGI – Stonehenge è un monumento sorprendentemente complesso, che attira l’attenzione soprattutto per il suo spettacolare cerchio megalitico e “a ferro di cavallo“, costruito intorno al 2600 a.C. Nel corso degli anni, sono state avanzate diverse teorie sul significato e la funzione di Stonehenge. Oggi, tuttavia, gli archeologi hanno un’immagine abbastanza chiara di questo monumento come “luogo per gli antenati“, situato all’interno di un complesso paesaggio antico che comprendeva diversi altri elementi.

L’archeoastronomia ha un ruolo chiave in questa interpretazione poichè Stonehenge presenta un allineamento astronomico con il sole che, a causa della piattezza dell’orizzonte, si riferisce sia al solstizio d’estate che al tramonto del solstizio d’inverno. Ciò rappresenta un interesse simbolico dei costruttori nel ciclo solare, molto probabilmente legato alle connessioni tra l’aldilà e il solstizio d’inverno nelle società neolitiche. 

Questo è, ovviamente, molto lontano dall’affermare che il monumento fosse utilizzato come un gigantesco dispositivo calendario, come invece è stato proposto in una nuova teoria pubblicata nella rinnovata rivista di archeologia Antiquity. Secondo questa teoria, il monumento rappresenta un calendario basato su 365 giorni all’anno divisi in 12 mesi da 30 giorni più cinque giorni epagomeni, con l’aggiunta di un anno bisestile ogni quattro. Questo calendario è identico a quello alessandrino, introdotto più di due millenni dopo, alla fine del primo secolo a.C. come combinazione del calendario giuliano e del calendario civile egiziano.

Per giustificare questo “calendario in pietra”, il numero dei giorni viene ottenuto moltiplicando i 30 architravi di sarsen probabilmente presenti nel progetto originale per 12 e aggiungendo a 360 il numero dei triliti in piedi del ferro di cavallo, che sono cinque. L’aggiunta di un anno bisestile ogni quattro è correlata al numero delle “pietre di stazione”, che è, infatti, quattro. Questo macchinario sarebbe stato mantenuto in funzione utilizzando l’allineamento al solstizio dell’asse e sarebbe stato presumibilmente preso dall’Egitto, raffinando molto, tuttavia, il calendario egiziano, che era di 365 giorni (la correzione bisestile non era presente fino ai tempi romani).

Questa è la teoria ammirevolmente affascinante che è stata sottoposta a un severo test di stress da due rinomati esperti di archeoastronomia, Juan Antonio Belmonte (Instituto de Astrofi’sica de Canarias e Universidad de La Laguna, Tenerife, Spagna) e Giulio Magli (Politecnico di Milano).

Nel loro articolo, che sarà pubblicato anche su Antiquity, gli autori mostrano che la teoria si basa su una serie di interpretazioni forzate delle connessioni. 

AGI – Ci vogliono cent’anni, dicono gli scienziati, per cambiare completamente l’acqua del Mediterraneo, perciò è vero che nel mare metropolitano “in cui si erano bagnati pure Totò e Eduardo” si conserva ancora la forma di quei corpi quando ci s’immergono i personaggi di Uvaspina. Romanzo d’esordio di Monica Acito, trentenne cilentana e forcellara d’adozione, pubblicato a febbraio scorso da Bompiani, è narrazione oscillante tra realtà e mitografia, tra i sapori di cozze crude e ragù di Domenico Rea e il gusto delle minestre maritate e dei migliacci di Giambattista Basile. È, se si predilige una comparazione musicale, partitura di 400 pagine su cui il costante vibrato dell’autrice – il medesimo che, ad ascoltarla, Acito porta nella voce – viene spezzato da sincopi e melismi e dissonanze in una prosa fiabesca, che abilita all’italiano la lingua napoletana in cui peraltro sembra pensato questo libro.

Concluso in un’estate da sonni sui balconi nel vicoletto di San Giorgio ai Mannesi, ambientato tra il decrescenziano vico Belledonne a Chiaia e il lacapriano Palazzo Donn’Anna, con incursioni a Procida e Posillipo, a Guardia Sanframondi e in una scarrupata casa cilentana, Uvaspina è la storia di una mamma – Graziella La Spaiata – di un padre – il notaio Pasquale Riccio – e di due fratelli, Minuccia e Carmine detto Uvaspina: lei comandata dall’arcana pazzia dello strummolo, la trottola di legno degli scugnizzi di un tempo che fu; lui destinato all’arcana categoria dei femminielli, la dolce e tragica terza declinazione napoletana senza la quale le altre due – l’uomo e la donna – sarebbero incomplete per consunta compiutezza dell’incastro. Non sono questi i soli personaggi: c’è un Antonio che frequenta sorella e fratello amando sole e luna (e ha gli occhi di colore diverso che ne tradiscono l’ambiguità), ci sono le parenti della mamma Spaiata e del padre notaio. Chi maga e chi perbenino. Chi di Chiaia e chi forcellaro, o forcellese, in quel secolare tozza tozza dove sbattono la sfida e il minuetto, la tarantella e le mazzate che il popolo e la borghesia napoletana s’infliggono da secoli calcando “le ossa di Partenope che stava al di là del mare, Partenope intera con le sue anime del Purgatorio, con i suoi palazzi barocchi e le case tinte di rosa pompeiano”.

Ambientato nell’oggi, Uvaspina è per la verità un romanzo acclimatato nel tempo senza tempo in cui vive – o sopravvive, se siamo vecchi quanto i nostri miti – chi si lascia carezzare dalla Sirena e dalla bella ‘mbriana, dalla magia dei lessici e dalla vetustà dei gesti trascurando la fiscalità dei calendari, il teatrino ambientale dei libri gialli in costume, l’artefatto palcoscenico dei polpettoni d’epoca, il coatto tremendismo rapper (che, poi vedrete, non sopravviverà a Sergio Bruni).

Non si sa dove e come abbia attinto – non bastano gli studi di filologia, tampoco gli attrezzi della Scuola Holden – questa sua prosa mentis, Monica Acito, per partorire una storia che è già libro benchmark per la letteratura napoletana degli anni a venire. Ha letto sì Rea e Basile, ma l’ha impregnata l’olio drammaturgico del Ferdinando di Annibale Ruccello, e pure un Enzo Moscato, il quale racconta nelle memorie biografiche di avere assistito al rito del “chiummo” praticato dalla sorella grande, alla vigilia di san Giovanni Battista, proprio come accade nel romanzo a Uvaspina con Minuccia.

E dunque è giunta voce all’autrice, e non solo letteraria, dei riti di magia domestica che aboliscono i secoli d’ingombro tra le vaiasse di Giulio Cesare Cortese e la fattucchiera del Paese di Cuccagna di Serao, tra i rituali secenteschi affinché “nullo malo augurio po’ nce resta” e le residuali pratiche delle janare anche novecentesche. C’è l’eco di certi cupi capoversi di Mastriani, c’è l’odore di stampa stantìa delle raccolte poetiche digiacomiane riemerse dai banchetti di Port’Alba, c’è insomma una lingua in cui si ritrova “la chiacchiera saporita delle donne che inciuciavano, ma pure la sapienza elegante di cento professori giovani”.

Insomma un nuovo Cunto napoletano, finalmente eccolo qua.

 

AGI – Immaginate di entrare in un film di Melies dei primi del ‘900. Una sorta di ‘Viaggio sulla Luna’ dove personaggi bizzarri sfilano accanto ai professori dall’aspetto stravagante. Mettete poi un po’ di cinema espressionista tedesco, da Fritz Lang di ‘Metropolis’ con robot umani a  Robert Wiene di ‘Il gabinetto del dottor Caligari’ con un tocco di Martin Scorsese di ‘Hugo Cabret’ con le fantastiche immagini meccaniche e gli oggetti di scena.

E’ quello che capita allo spettatore che entra sotto il tendone maestoso costruito a Tor di Quinto a Roma per assistere allo show ‘Kurios – Cabinet of Curiosities’ del Cirque du Soleil. Sotto il Grand Chapiteau, costituito per la prima volta in Italia con una tela gialla e blu che, in corrispondenza dei quattro alberi principali, arriva a misurare un’altezza superiore ai 25 metri, circa 2.500 persone vivono un’esperienza unica, condotte in un affascinante e misterioso regno, che disorienta i sensi e le percezioni, a tal punto da chiedersi: “È tutto vero o è solo frutto della mia immaginazione?”.

Sono accessibili le porte dell’armadietto di curiosità di un ambizioso inventore, che sfida le leggi del tempo e dello spazio per reinventare il mondo intorno a lui: personaggi unici e stravaganti lo guidano in un luogo meraviglioso, dove tutto accende l’immaginazione e le sue curiosità prendono vita una ad una davanti ai suoi occhi.

Un mondo capovolto di poesia e di umorismo dove il visibile diventa invisibile e le prospettive si trasformano. E tutto questo accompagnato dalla musica suonata dalla Kurios Band composta da sei musicisti che si esibiscono dal vivo per mostrare ciò che avviene sul palco, motivi che riportano al jazz classico anni ‘20.

‘Kurios – Cabinet of curiosities’, spettacolo itinerante di Cirque du Soleil Entertainment Group che ha venduto finora oltre 130.000 biglietti in Italia, presentato dai partner italiani Show Bees e Vivo Concerti, è un mix di curiosità insolite e di prodezze acrobatiche mozzafiato, un vero kolossal in puro stile Cirque du Soleil in scena a Roma fino al 29 aprile (a Tor di Quinto è stato allestito un villaggio dalla superficie di 48.000 metri quadrati) per poi andare a Milano a Piazzale Cuoco dal 10 maggio al 25 giugno.

Questa produzione, la 35ª del Cirque du Soleil dal 1984, vanta un cast di 50 artisti provenienti da 17 paesi diversi, alcuni dei quali sono in tournée con il Cirque du Soleil da oltre 15 anni. La scenografia colloca lo spettatore in un luogo ben definito: la camera delle meraviglie di un Cercatore, pieno di oggetti insoliti raccolti durante i suoi viaggi. Ambientato in quello che si potrebbe definire un retro-futuro, l’impianto scenico fa numerosi riferimenti all’inizio della rivoluzione industriale avvenuta durante il XIX secolo, senza esserne vincolato però.

“È come se Jules Verne incontrasse Thomas Edison in una realtà alternativa, fuori dal tempo”, spiega lo scenografo Stéphane Roy. In questo universo parallelo, è il motore a vapore e non il motore a combustione interna a regnare sovrano. Il set evoca l’inizio dell’era dell’industrializzazione, ma è come se la scienza e la tecnologia si fossero evolute diversamente e il progresso avesse assunto una dimensione più umana.

Lo spazio della performance è dominato da due strutture chiamate ‘camere’; una esplora il tema del suono e l’altra il tema dell’elettricità. Costruite dal Cercatore, utilizzando scarti e pezzi raccolti nel tempo, le due grandi torri servono anche come ‘sensori d’onda’ realizzati con componenti vari come grammofoni, vecchie macchine da scrivere, lampadine elettriche e turbine. In realtà questi oggetti sono stati recuperati dalle discariche e in seguito smontati, amalgamati e uniti tra loro attraverso tubi e condotti.

Le due camere delle meraviglie sono collegate tra loro attraverso l’arco principale – un altro sensore di onde – che domina il palco. L’apertura al centro, in fondo alla scena, ricorda l’imboccatura di un tunnel ferroviario che attraversa una montagna; è principalmente da qui che gli artisti entrano ed escono dalla scena e che le attrezzature e gli oggetti vengono portati dentro e fuori dal palco.

Lo spettacolo è un omaggio alla fantasia e alla curiosità. Questo mondo meccanico alternativo celebra l’unione di oggetti preesistenti. “Tutti questi oggetti – la tromba, la macchina da scrivere – hanno una loro storia ed è dalla loro associazione che emerge un nuovo significato – dice ancora Roy – un’ulteriore prova che il tutto è maggiore della somma delle sue parti”.  Padrone di casa è il Cercatore, un umanista tanto ingenuo quanto ingegnoso, con innocenza infantile, crede in un mondo invisibile dove risiedono le idee più folli e i sogni più grandiosi. Scoprirà che le meraviglie sono a disposizione di chi si fida del proprio intuito e della propria immaginazione.

Poi ci sono i curiosistani, gli abitanti di un paese immaginario chiamato Curiosistan e si presentano nel mondo del Cercatore per attivare la sua immaginazione. Una figura autoritaria, il signor Microcosmos è il leader del gruppo. Un tipo serio, incarnazione del progresso tecnologico; il suo mondo è solido, rappresentato dal treno a vapore e dalle strutture edilizie massicce: la Torre Eiffel e il Grand Palais. Quindi c’è Nico l’uomo fisarmonica che ha un costume che gli permette grande flessibilità nei movimenti, può diventare molto piccolo oppure altissimo, arrivando a guardare tutti negli occhi. C’è poi Klara che ha un linguaggio tutto suo e incarna l’ossessione per le telecomunicazioni che l’uomo aveva durante l’età d’oro delle ferrovie, quando furono inventati il telegrafo e il grammofono.

Poiché c’è così tanto lavoro da fare prima che il suo sogno diventi realtà, il Cercatore si circonda di una brigata di assistenti tra cui Kurios Winch e Kurios Plunger, due bizzarri robot costruiti con scarti e parti riciclate dallo stesso Cercatore. Sono creature imperfette e disfunzionali, hanno un forte odore di metallo e pelle e l’immaginazione sfrenata del loro inventore.

Diviso in due tempi, con un intervallo di 25 minuti, lo show mette in scena spettacolari performance. Tra queste un incredibile numero di acrobazia: un uomo forte e una bambola dal viso di porcellana, risvegliati da una scarica elettrica, emergono dal loro carillon e prendono vita. I due artisti si arrampicano in cima a un apparato posizionato a quasi 4 metri da terra. Poi c’è un altro eccezionale numero acrobatico in cui una ragazza salta sulla sua bicicletta sospesa a mezz’aria e, sfidando la forza di gravità, assume, una dopo l’altra, pose plastiche: sul manubrio o sulla ruota, tenendosi solo con un piede o con un braccio. Si accomoda persino sul sellino, mani sul manubrio e piedi sui pedali, ma lei e la sua bici sono a testa in giù.

Non manca il numero di contorsionismo con quattro creature degli abissi, che incarnano anguille elettriche all’interno della camera delle meraviglie del Cercatore, prendono vita in questa performance di contorsionismo sorprendente, veloce e fluida. Le artiste che eseguono questo numero danno vita una serie di incredibili piramidi e fantastiche figure a un ritmo sorprendente. Non manca poi il mimo che gestisce un circo in miniatura con artisti invisibili. Dall’altalena ai tuffi dall’alto, passando per il monociclo su una corda tesa, gli spettacoli si materializzano tutti nella mente dello spettatore grazie alla pura potenza degli effetti visivi e sonori: un cenno poetico e comico alle tradizionali arti circensi.

I numeri si susseguono tra lo stupore e la meraviglia del pubblico fino all’epilogo quando un gruppo di 13 artisti esegue sequenze spettacolari di acrobazie perfettamente sincronizzate e piramidi umane che mettono in mostra l’incredibile agilità del corpo. Oltre a stare in piedi in tre o quattro, ognuno sulle spalle dell’altro, gli artisti si librano nell’aria dove fanno evoluzioni e si incrociano su tre livelli, a terra, invece, si spostano su un monolite posizionato al centro del palco, e tra il pubblico.

AGI – Nella linea paterna di Ludwig van Beethoven sembra essersi verificato un evento extraconiugale, che potrebbe aver provocato una particolare divergenza nell’albero genealogico del compositore. Questi, in estrema sintesi, sono i risultati di uno studio, pubblicato sulla rivista Current Biology, condotto dagli scienziati dell’Università di Cambridge, del Beethoven Center San Jose, dell’American Beethoven Society, dell’University Hospital di Bonn, dell’Università di Bonn, del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, della Katholieke Universiteit Leuven e di FamilyTreeDNA. Il gruppo di ricerca, guidato da Tristan Begg, ha esaminato cinque ciocche di capelli, comprovate autentiche, risalenti agli ultimi sette anni di vita del famoso compositore e ottenute grazie a collezionisti privati.

Nel 1802 Beethoven chiese al proprio medico di lasciare degli scritti per descrivere la malattia che lo stava corroborando e da allora la scienza si interroga sui motivi alla base del peggioramento della sua salute, come la progressiva perdita dell’udito che lo ha portato alla sordità nel 1818. L’analisi al dna rivela che Beethoven aveva contratto l’epatite B, il che, insieme al consumo significativo di alcol, potrebbe aver contribuito alla sua prematura dipartita nel 1827, a 56 anni.

I ricercatori non hanno tuttavia individuato una causa definitiva per i problemi clinici del compositore, ma hanno scoperto una serie di fattori di rischio genetici legati alle malattie del fegato. Dalla cirrosi all’ittero fino all’epatite B, il musicista sembra infatti aver sperimentato diverse problematiche epatiche nel corso della propria esistenza. “I diari che Beethoven ha utilizzato nell’ultimo decennio della propria vita – osserva Begg – sembrano suggerire che facesse un consumo regolare di alcol, anche se è difficile stimarne la quantità precisa. Questo comportamento, insieme ai fattori di rischio genetici, potrebbe aver contribuito alla manifestazione della cirrosi”.

Per quanto riguarda invece la perdita dell’udito, sono state formulate varie ipotesi, e gli scienziati non hanno identificato una semplice origine genetica di questo disturbo. “Sebbene non sia stato possibile identificare una chiara base genetica per la problematica più nota di Beethoven – commenta Axel Schmidt dell’Istituto di Genetica Umana presso l’Ospedale Universitario di Bonn – non possiamo escludere questa possibilità. Comprendere le motivazioni che hanno portato il compositore a perdere la capacità di sentire i suoni potrebbe aiutarci a contrastare l’ipoacusia”.

Il lavoro ha inoltre dimostrato che le precedenti ipotesi relative all‘avvelenamento da piombo del musicista erano fondate sull’analisi di campioni di dna appartenenti in realtà a una figura femminile. Pur non essendo in grado di ricostruire con precisione le dinamiche del decesso del musicista, i ricercatori hanno effettuato un’altra scoperta interessante nel suo albero genealogico. Analizzando la genetica dei familiari di Beethoven, gli studiosi hanno infatti individuato le prove di una relazione adulterina nella linea paterna del compositore, che avrebbe generato un parente illegittimo intorno al 1572, circa sette generazioni prima della nascita di Ludwig.

“Abbiamo notato una discrepanza tra la genealogia familiare e quella biologica – riporta Maarten Larmuseau, della Katholieke Universiteit Leuven – il mancato ritrovamento del documento battesimale di Beethoven aveva sollevato dubbi da parte degli storici sulla sua famiglia, ma non sappiamo ancora rispondere ad alcuni interrogativi sulla vita del grande compositore”. “Speriamo che il nostro lavoro possa contribuire a risolvere alcuni dei misteri che avvolgono la figura di Ludwig van Beethoven – conclude Begg – sulla sua salute, sulla sua morte e il suo albero genealogico”. 

AGI – Cosa ti accade se cresci all’inizio degli anni ’70 andando al cinema portato dai tuoi genitori a vedere film considerati per adulti per le scene di violenza, per i temi di sesso, sangue, guerra, omosessualità, ecc.? Beh, può capitare che da grande diventi… Quentin Tarantino. Dal 21 marzo arriva in libreria ‘Cinema Speculation’ (La nave di Teseo, collana i Fari, trad. Alberto Pezzotta – pagg. 464, 20 euro) la ‘quasi cine-biografia’ del grande regista americano in cui per la prima volta racconta la sua passione per il cinema nata nel 1970 quando entrò per la prima volta al cinema Tiffany di Hollywood dove la madre Connie e il suo patrigno Curt lo portano a vedere un doppio spettacolo composto da ‘La guerra del cittadino Joe’ di John G. Avildsen e da ‘Senza un filo di classe’ di Carl Reiner. Un esordio pazzesco per un bimbo di sette anni. Che, racconta Tarantino, apprezzò moltissimo entrambi i film anche se non riuscì a non addormentarsi prima della fine.

Da quel battesimo del fuoco in poi il piccolo Quentin vide, in tenera età, tutti i film di quella che definisce la New Hollywood, ossia pellicole in cui i temi vietati dal Codice Hays potevano ora essere espressi esplicitamente (il codice di autocontrollo rigidissimo e bigotto era stato sostituito dai ‘rating’ dell’Academy, ossia le fasce di età a cui il film si rivolgeva che potevano vedere i minori solo se accompagnati). “Alcuni di questi film da adulti erano pazzeschi – scrive il regista – ‘M.A.S.H.’, la ‘Trilogia del dollaro’ di Sergio Leone, ‘Dove osano le aquile’, ‘Il padrino’, ‘Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!’, ‘Il braccio violento della legge’, ‘Il gufo e la gattina’ e ‘Bullitt’.

Altri, per un bambino di otto o nove anni, erano un rompimento di marroni assurdo: ‘Conoscenza carnale’, ‘La volpe’, ‘Isadora’, ‘Domenica, maledetta domenica’, ‘Una squillo per l’ispettore Klute’, ‘La ragazza di Tony’, ‘L’amante perduta’, ‘Diario di una casalinga inquieta’”. Eppure erano film che hanno formato il piccolo Quentin facendolo appassionare al cinema e dandogli quell’apertura mentale e artistica che lo contraddistingue. Perché la mamma, donna piuttosto inquieta e di grande modernità, andò a vivere con due coinquiline, una nera e una messicana, portandosi dietro il piccolo Quentin.

Il ragazzo, inoltre, grazie alla passione della mamma per gli uomini di colore, scoprì anche un tipo di cinema che in genere i bianchi non frequentavano né amavano: il genere definito ‘Blaxploitation‘ (film a basso costo rivolti ad afroamericani con attori e registi afroamericani e colonne sonore di musica soul o funk). A cui fece seguito più avanti la scoperta del cinema di kung-fu. Tutte pellicole spesso considerate di serie B che contribuirono alla cultura e al gusto di Tarantino (più avanti scopri anche la commedia all’italiana con attrici che il regista considera delle vere e proprie icone come Edwige Fenech o Barbara Bouchet).

Dalla mamma il piccolo Quentin apprese anche un grande lezione che poi fece sua e su cui basa tutto il suo cinema, ossia l’importanza della sceneggiatura, del fatto che il film racconti una storia. Quando gli disse che non lo avrebbe portato a vedere ‘Melinda’ con Calvin Lockhart, il piccolo Quentin ne chiese il motivo alla madre (gli unici altri due film a essergli stati negati furono ‘L’esorcista’ e ‘Il mostro è in tavola… barone Frankenstein’) e lei gli rispose: “È un film molto violento. Non che per me sia per forza un problema, ma non capiresti la storia. E non capendo la storia, guarderesti la violenza solo per il gusto della violenza. E questo non voglio che succeda”.

“Considerato che per tutta la vita avrei risentito questo discorso, non lo sentii mai espresso con tanta chiarezza – commenta Tarantino – certo, non è che capissi granché di un intreccio confuso come quello del ‘Braccio violento della legge’, se non che dei poliziotti volevano incastrare un francese barbuto. Ma agli occhi di mia madre era sufficiente”. Poi aggiunge, ricordando che la madre gli spiegava di non essere preoccupata di portarlo con sé a vedere film per adulti (“Quentin, mi preoccupa di più se vedi i telegiornali. Un film non può farti male”): “Alcune immagini a cui venivo esposto mi disturbavano? Certo che sì! Ma ciò non vuol dire che non mi piacesse il film. ‘Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!’, quando il cadavere nudo della ragazza uccisa viene estratto dalla buca, cavolo se era disturbante! Ma capivo quello che c’era dietro”, aggiunge.

Curiosamente, confessa poi Tarantino, che malgrado i tanti film violenti, alcuni addirittura horror che vide da bambino, il film in grado di sconvolgerlo fu… ‘Bambi’ di Walt Disney. “Bambi che si smarrisce, la madre uccisa dal cacciatore e il rogo della foresta mi scioccarono più di qualunque altra cosa avessi visto al cinema. Solo ‘L’ultima casa a sinistra’ di Wes Craven, che vidi nel 1974, ci andò vicino”, rivela.

Nel libro il regista due volte premio Oscar per la sceneggiatura di ‘Pulp Fiction’ e ‘Django Unchained’ racconta i film che ha amato e che ha visto per la prima volta da giovanissimo, i grandi registi da cui si è abbeverato e i grandi attori che ha ammirato. Ed è una sorta di dichiarazione d’amore al cinema degli anni ’70, da quello della New Hollywood in cui i registi antisistema hippies come Dennis Hopper, Paul Mazursky, Arthur Penn, hanno poi lasciato il posto, in maniera inconsapevole, a quelli dei ‘Movie Brats’ diventati i veri padroni di Hollywood dalla fine degli anni ’70 in poi (Spielberg, Coppola, Lucas, Scorsese De Palma).

In sintesi Tarantino spiega: “Con la controcultura degli anni Sessanta, l’esplosione dei movimenti giovanili, l’affermarsi di una musica pop diversa dal passato, l’entusiasmo creato da film come ‘Gangster Story’ e ‘Il laureato’, e soprattutto il successo a sorpresa di ‘Easy Rider’ di Dennis Hopper, comparve sulla scena una Hollywood orientata verso un pubblico adulto. Una New Hollywood. Una Hollywood con una sensibilità forgiata dagli anni Sessanta e che dichiarava guerra al sistema”. E questa Hollywood durò un decennio perché poi arrivarono i ‘Movie Brats’, la “nuova generazione (che) non aspirava, come chi l’aveva preceduta, a portare sullo schermo la grande letteratura” perché “li attiravano di più romanzi rivolti al grande pubblico, da cui pensavano di trarre buoni film: come successe con ‘Lo squalo’, ‘Il padrino’, ‘L’ultimo spettacolo’, ‘Paper Moon’”.

E così, nella frase in cui c’è la sintesi del Tarantino autore e critico, spiega: “A un certo punto, furono i Movie Brats a essere in sintonia con i tempi, al contrario degli autori antisistema che avevano dato inizio alla Nuova Hollywood in cui i giovani ora prosperavano. I registi hippie non capivano, o non volevano capire, che c’era gente a cui piacevano i film sulle formiche giganti e che prendeva sul serio ‘Assalto alla Terra’”. 

La sua dichiarazione d’amore si arricchisce poi di tanta cultura cinematografica, unita alla passione e al gusto personale. Per cui oltre a raccontare storie di cinema, si diverte anche a immaginare – come ha fatto in ‘Bastardi senza gloria’ e ‘C’era una volta a… Hollywood’ – una storia diversa, arrivando anche a immaginare come sarebbero stati film diventati di culto se avessero auto altri registi o attori (come per ‘Taxi Driver’ diretto da Martin Scorsese dopo il rifiuto di Brian De Palma e la scelta di prendere come protagonista Robert De Niro e non Jeff Bridges come voleva la produzione). 

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In ‘Cinema Speculation’ Tarantino fa quello che gli riesce meglio: insegna cinema. Lo fa raccontando le vicende di pellicole o di attori di grande spessore, come Steve McQueen, o film che ha amato – o semplicemente ammira da cinefilo e genio qual è – in maniera particolare come ‘Bullitt‘ , ‘Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!’, ‘Un tranquillo weekend di paura’, ‘Getaway!’, ‘Taxi Driver’, ‘Rolling Thunder’, ‘Taverna Paradiso’, ‘Fuga da Alcatraz’, ‘Hardcore’, ‘Il tunnel dell’orrore’. Un libro godibilissimo, ricco (ricchissimo) di citazioni di film e personaggi e di tanto cinema. Un libro che in qualche modo anticipa quello che dovrebbe essere – il condizionale è d’obbligo – il suo decino e ultimo film (almeno così ha dichiarato), una storia nel mondo del cinema degli anni ’70.

Quentin Tarantino venerdì 7 aprile sarà a Milano (libreria Mondadori Duomo, ore 18) per un evento speciale della XXIV edizione della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, dove presenterà il nuovo libro in conversazione con Antonio Monda e incontrerà i lettori.

@andreacauti

AGI – “Attivisti e storici dell’arte hanno fatto pressioni sui musei affinché ripensassero al modo in cui etichettano l’arte e gli artisti, sostenendo che data la storia di sottomissione dell’Ucraina sotto l’Impero russo e l’Unione Sovietica, la sua cultura non dovrebbe esser confusa con quella dei suoi governanti”, scrive il New York Times.

Tradotto, significa che venerdì mattina il Metropolitan Museum of Art di New York ha cambiato l’etichetta sotto uno dei quadri di Edgar Degas in “Ballerini Ucraini” da “Ballerini russi”, così come aveva già fatto l’anno prima la National Gallery di Londra, dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina. Le riconsiderazioni riflettono un movimento di pensiero attualmente in corso nei musei di tutto il mondo.

“Il pensiero accademico si sta evolvendo rapidamente”, ha dichiarato Max Hollein, direttore del Met, “a causa della maggiore consapevolezza e attenzione alla cultura e alla storia ucraine dall’inizio dell’invasione russa nel 2022” anche se “il processo non è sempre semplice, in particolare quando i musei cercano di riflettere la nazionalità degli artisti, e non solo il luogo in cui sono nati”, sottolinea il quotidiano americano.

Gli errori tuttavia non mancano, perché dopo che il Met ha cambiato la descrizione di Aivazovsky da “russo” a “ucraino” sul suo sito web, c’è chi non ha mancato di sottolineare che in realtà “era armeno”.

Seguita a scrivere il quotidiano americano che “attivisti e storici dell’arte hanno fatto pressioni sui musei affinché ripensassero al modo in cui descrivono l’arte e gli artisti, sostenendo che “i musei negli Stati Uniti e in Europa sono complici della sua colonizzazione se non onorano i contributi artistici degli ucraini”. “È come rubare il patrimonio”, ha spiegato Oksana Semenik, una storica dell’arte di Kiev che ha insistito per apportare le modifiche alle etichette sotto i quadri: “Come puoi trovare la tua identità? Come puoi trovare la tua cultura?”, s’è chiesta.

“Le descrizioni della nazionalità possono essere molto complesse, specialmente quando si fanno attribuzioni postume”, ha dichiarato Glenn D. Lowry, direttore del museo, in una dichiarazione al NYTimes. “In genere facciamo ricerche rigorose e affrontiamo le diciture con particolare sensibilità alla nazionalità registrata dell’artista alla morte e alla nascita, alle dinamiche di emigrazione e immigrazione e ai mutevoli confini geopolitici”, ha aggiunto Lowry.

Quanto al Met, il museo ha apportato le correzioni dalla scorsa estate dopo essersi consultato con i curatori e studiosi esterni, per concludere che “i cambiamenti sono in linea con gli sforzi del Met di ricercare ed esaminare continuamente gli oggetti nella sua collezione”, ha affermato il museo in una nota, “per determinare il modo più appropriato e accurato per catalogarli e presentarli”.