AGI – “Dopo la pandemia di Covid le cose hanno preso un verso diverso rispetto al passato e abbiamo ricominciato a vendere libri. I clienti sono tornati e così anche le richieste perché il vero lettore legge sulla carta, gli piace l’odore dei libri”. Massimo Botrini, titolare della Libreria Cicerone di Roma vicino alla Galleria Alberto Sordi, uno degli ultimi librai indipendenti ‘sopravvissuti’ alla crisi legata alla pandemia, racconta all’AGI come ce l’ha fatta.
“Oggi il turismo ha ripreso a ritmi importanti per cui è aumentata di molto l’incidenza di questa tipologia di cliente occasionale che in passato non c’era – spiega – e per noi che siamo in centro storico è determinante, anche se il livello non è al top, ovviamente”.
La Libreria Cicerone si trova vicino a Piazza Colonna e con la fine dell’emergenza Covid e il ritorno del turismo, anche internazionale, ha visto aumentare di molto la clientela occasionale o di passaggio, alla quale offre anche prodotti ad hoc. “Essendo in centro storico ci sono ovviamente anche molti articoli per turisti perché nel cassetto alla sera ci deve essere qualcosa”, dice Botrini.
La proposta del ministro Sangiuliano sull’equo canone per affitti agevolati alle librerie ospitate in immobili di proprietà non privata ma di Comuni e Regioni, banche e altri enti piace a Botrini: “Ben venga una proposta che mira ad aiutare le librerie – spiega – va bene l’equo canone così come andava bene il credito d’imposta del suo predecessore, il ministro Franceschini: tutto quello che viene fatto è ben accetto, sono piccoli aiuti che vanno bene”.
La battaglia contro Amazon
Per andare avanti la Libreria Cicerone non si è affidata solo al flusso dei turisti. Accanto a questi, spiega ancora il titolare, c’è un buon numero di clienti affezionati perché “noi abbiamo prodotti di editoria di nicchia che non trovano altrove. Noi trattiamo la piccola e media editoria, quindi abbiamo clienti che spesso sono sbalorditi di trovare libri che non sono neppure su Amazon”.
E, parlando proprio dell’e-commerce, il libraio spiega che obtorto collo deve utilizzarlo insieme alla vendita classica. “Siamo su tutti i fronti, per cui anche la vendita per corrispondenza di cui io sono un nemico – racconta – ma, come dicevo, il cassetto alla sera deve sorridere. Confesso che mi piace la figura del libraio di una volta”.
L’incidenza dell’online, comunque, non è particolarmente significativo anche se in media sono almeno 20 i suoi libri che vengono acquistati con l’e-commerce ogni giorno. “È un metodo che detesto, ma è necessario”, aggiunge. La Libreria Cicerone si trova a pochi metri da Palazzo Chigi per cui è inevitabile parlare dei politici-lettori.
Politici-lettori come mosche bianche
“I politici leggono? A me non risulta – commenta amaro Botrini – almeno non quelli di oggi. La mia libreria è davanti a Palazzo Chigi da una vita e qui sono passati spesso i vari Andreotti, Cossiga, Spadolini oltre a tanti altri. Io ho stretto la mano a Giovanni Spadolini più di trent’anni fa e non me la sono più lavata. Oggi vedere un politico qui dentro è un evento eccezionale”.
Massimo Botrini col suo lavoro di libraio è, suo malgrado, un testimone del tempo. “Si contano sulle dita delle mani i politici che oggi frequentano la libreria – spiega – è cambiata la generazione di politici e non abbiamo più clienti affezionati come accadeva, per esempio, con Giovanni Spadolini. Quelli che vedo più spesso? Mi vengono in mente il senatore De Carlo, l’onorevole Mollicone, il senatore De Priamo, la senatrice Montevecchi… ma sono casi rari”, conclude.
AGI – La fabbrica del vino a chilometro zero è nata con gli antichi romani. A Villa dei Quintili – uno dei più grandi complessi residenziali della Roma imperiale adagiato sulla via Appia Antica – il nettare degli dei si consumava senza sosta e a presa diretta.
La pigiatura dell’uva, il torchio, la fermentazione. Il mosto che sgorgava dalle fontane. E l’imperatore che – come a teatro – si gustava lo spettacolo. Il vino viaggiava dalle vasche lungo tubi in piombo per poi dirigersi verso una ‘rete’ di rubinetti. E i calici si svuotavano a tempo di record.
Commodo e la ‘città dei piaceri’
Vinacce e torchi. Zampilli e marmi. Sfarzo e sostenibilità. Un perfetto esempio di “economia circolare” tra i lussi della mini-città modellata dall’imperatore Commodo come residenza del piacere. Fu proprio Commodo (regnò dal 177 al 192 d.C.) a uccidere i fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, membri di una famiglia senatoria e consoli. Da allora la villa divenne una residenza imperiale con tanto di teatro e un circo per le corse dei cavalli. Da diversi scavi archeologici è spuntata l’ultima sorpresa: una cantina per la produzione del vino e un’enoteca.
Il viaggio del vino
Oltre il giardino si trova il nucleo principale della Villa: cortili, sale di rappresentanza, un grande impianto termale e la residenza privata che affaccia sulla vallata. Proprio dagli scavi nell’area del circo sono emerse anfore, e l’impianto del vino costruito all’epoca di Gordiano (220-238 d.C).
Il vigneto imperiale assicurava l’uva da spremere. Le vinacce venivano pigiate da due presse meccaniche e il mosto d’uva convogliato nelle fontane da cui usciva a cascata. Poi scorreva lungo canali aperti o giare di stoccaggio, incastonati nel terreno, una tecnica di vinificazione standard nell’antica Roma, poiché creavano un microambiente stabile in cui avrebbe avuto luogo la fermentazione. Banchetti e tecnica enogastronomica imperiale. A chilometro zero.
AGI – Tucidide la vuole fondata dai profughi della guerra di Troia, ma è più probabile una origine italica degli Elimi (in realtà anche loro di discendenza troiana): Segesta, tra la sommità e le pendici del monte Barbaro nella parte nord-occidentale della Sicilia fu una città di grandissima importanza, e una nuova scoperta, che ne ribalta un’altra, lo prova. Si tratta di una strada lastricata che la tagliava, ed è venuta alla luce nel corso del cantiere di scavo condotto dall’Università di Ginevra all’interno del Parco archeologico regionale: “Risale al II secolo avanti Cristo ed è stata utilizzata fino al VII secolo dopo Cristo”, spiega all’AGI Alessia Mistretta, direttrice degli scavi.
È un ritrovamento eccezionale che permetterà di riscrivere l’ampiezza dell’abitato di età ellenistica, ma già nell’orbita romana, in attività sino all’epoca medievale, come denunciano importanti e bellissimi frammenti di ceramica. “Non sappiamo dove conduceva questa strada, per adesso abbiamo trovato una minima parte delle lastre ma sono sicura che ne troveremo altre”, aggiunge Mistretta. “Si tratta di un asse viario importante, con una piazzetta, dei gradini monumentali, e non è di sicuro un camminamento: è una strada molto importante, forse la seconda con una tessitura seconda solo a Selinunte”.
Il confronto con Selinunte
È l’eterna rivale della cui ombra Segesta non riesce a liberarsi. La città degli Elimi combattè contro Selinunte e contro Siracusa, alleandosi con Cartagine, ma quando si trattò di scegliere tra quest’ultima e Roma, non ebbe dubbi e da Roma fu sempre prediletta: lo testimoniano, tra l’altro, i resti dell’edificio che fino a oggi era considerato la Casa del navarca Eraclio, capo di una flotta militare, citato da Cicerone nelle Verrine.
L’area in cui è venuta alla luce la strada è la stessa Acropoli sud dell’insediamento, un sito dove si svolsero delle prime indagini nel 1992, ma lo scavo venne ricoperto. Nel 2021 si è ripreso a lavorare ed è venuta alla luce un’importante pavimentazione unica nel suo genere, una sorta di antico gioco illusorio a tessere romboidali a tre colori, “sectilia” marmorei (bianco, celeste e verde scuro) che raffigurano una sequenza concatenata di cubi dall’effetto tridimensionale.
E anche due mensole in pietra a forma di prua e una scritta di benvenuto: sono stati questi ritrovamenti a far finora ipotizzare agli archeologi che questa fosse l’abitazione del navarca. La casa doveva essere una sorta di sito di avvistamento, come dimostra una torre medievale che insiste sull’atrio a peristilio della dimora: da qui lo sguardo arriva fino all’odierna Castellammare.
La nuova scoperta
L’ipotesi che si tratti della residenza del ricco armatore è bocciata dagli archeologi impegnati nello scavo. “Non ci sono elementi archeologici per dare il nome a una casa servono indicazioni concrete, come ad esempio iscrizioni, che noi non abbiamo. Inoltre, è difficile pensare che un personaggio per quanto eminente decori la casa privata con mensole a forma di prua. Questa non è una casa privata. La casa di Eraclio, se c’è, non è questa”, dice all’AGI Mistretta, che invece indica una diversa ipotesi di lavoro.
“Siamo – sottolinea – al margine di una grande area pubblica, di un edificio pubblico, un archivio di mappe, rotte: Segesta, infatti, possedeva un porto. Oppure era in luogo in cui acquisire l’acqua: l’acropoli è piena di cisterne e l’acqua non si poteva trasportare”. A scavare sono i ricercatori, gli studenti e anche i giovani richiedenti asilo del centro Casa Belvedere di Marsala, che ha stretto un accordo di archeologia solidale con il Parco di Segesta e l’Università di Ginevra. Saranno tutti loro a portare alla luce la potenza, l’eleganza e la bellezza di Segesta.
Presto saranno possibili, con il supporto del concessionario dei servizi aggiuntivi, CoopCulture, anche visite guidate a cantiere aperto; già dal prossimo 25 aprile (che da quest’anno sara’ una giornata a ingresso gratuito nei siti della cultura). Non è l’unico progetto che guarda a una fase storica precedente del sito: parte il 22 aprile “Segesta incontra le culture. I simboli del sacro“, progetto di valorizzazione ideato e organizzato da CoopCulture, che si focalizza sul periodo normanno quando si insedio’ nell’Isola una comunità a forte prevalenza islamica.
L’obiettivo a lungo raggio entra nelle pieghe più profonde del Parco e mira a disegnare a Segesta un nuovo itinerario di visita sui simboli del sacro – che è insieme luoghi, rituali, religioni, tradizioni, architetture -, a partire dalla moschea, dall’imponente tempio dorico e dalla piccola chiesa di San Leone, interessante sito stratificato di civiltà precedenti. San Leone nasce nel 1442 su una preesistente chiesa normanna-sveva di fine XII secolo che a sua volta sorge su un edificio di eta’ ellenistica (tra il II e il I secolo a.C.) i cui mosaici – riportati alla vista in questi giorni dopo pesanti interventi di disboscamento – furono poi riutilizzati come pavimento delle due chiese posteriori.
AGI – Nel febbraio 1923 Thomas Edward Lawrence fu costretto a lasciare la Royal Air Force dopo che si scoprì che si era arruolato sotto falso nome. ‘Lawrence d’Arabia‘, l’eroe della rivolta beduina che cacciò l’Impero Ottomano dal Medio Oriente, scontava le sue critiche a Londra per non aver mantenuto la promessa dell’indipendenza alle popolazioni arabe. Un tradimento che lo aveva spinto persino a rifiutare l’onorificenza offertagli da re Giorgio V.
Un secolo dopo il mito di Lawrence d’Arabia, suggellato dal film di David Lean del 1962 con Peter O’Toole, resta ancora vivo nei ‘suoi’ luoghi: in Galles la casa in cui nacque nel 1888 nel villaggio di Tremadog è stata trasformata in Snowdon Lodge, un ostello molto frequentato dagli escursionisti. La casa al numero 2 di Polstead Road a Oxford in cui visse da bambino è ricordata da una targa mentre la camera da letto che lo ospitò al Jesus College è stata trasformata dall’università oxfordiana in una sala riunioni ribattezzata “TE Lawrence Room”. E a Londra un’altra targa blu al 14 di Barton Street, a Westminster, segnala l’attico in cui risiedette per diversi anni a partire dal 1919.
Ma è soprattutto in Medio Oriente che si possono ricercare le orme del personaggio più conosciuto della Prima guerra mondiale. Non che vi siano strade, negozi o monumenti a lui dedicati. L’eredità di Lawrence è più nota in Occidente, dove evoca la poesia della lotta per la libertà e delle battaglie nel deserto, che non tra gli arabi che lo conoscono poco o tendono a sminuirne il ruolo nella rivolta. “Non è mai stato una leggenda qui”, ha sottolineato il sociologo Sari Nasir della University of Jordan. “Non guidò la rivolta, fu una rivolta araba, lui era uno dei tanti”, ha assicurato lo storico giordano Suleiman Mousa, autore di “T. E. Lawrence: An Arab View” in cui denuncia le imprecisioni e le esagerazioni contenute nell’autobiografia dell’ufficiale britannico, “I sette pilastri della saggezza”.
A parlare ancora di Lawrence, però, ci sono i luoghi a lui collegati da libri, documenti, vecchie fotografie o semplici racconti tramandati oralmente. In alcuni casi vi furono scritti capitoli della Storia, in altri trafiletti di una vicenda umana che è stata trasfigurata dal mito. Ad Aleppo, in Siria, è ancora in piedi l’Hotel Baron in cui il 23enne Lawrence soggiornò per poche notti nel 1914, nella stanza 202. Il conto dei drink che Lawrence consumò al bar del Barton ma per motivi sconosciuti fuggì senza pagare è stato esposto recentemente al British Museum. L’hotel, a due passi dal ‘suk, fu costruito nel 2011 da un armeno (il nome significa ‘signore’) e divenne rapidamente il preferito di mercanti ed esploratori. Ad Aleppo il giovane cartografo seguiva gli scavi, in un periodo in cui l’archeologia era la migliore copertura per fare spionaggio tra le potenze europee.
Sempre in Siria l’altra città di Lawrence è la capitale Damasco, la cui conquista il primo ottobre del 1918 segnò la capitolazione dell’Impero Ottomano. L’ufficiale inglese entrò con i suoi uomini nel Serai, il municipio, e vi depose i due collaborazionisti algerini che la governavano per conto dei turchi. In quattro giorni, dormendo appena tre ore in totale, Lawrence organizzò la nuova amministrazione e istituì una forza di polizia. Oggi il palazzo affacciato su Al-Merjeh (la piazza dei Martiri) è sede del Ministero dell’Informazione. Poco distante, sulla piazza Hejaz, si trova la vecchia stazione da cui partiva la linea ferroviaria ottomana per Medina: l’interno mantiene le decorazioni originarie e fino allo scoppio della guerra civile partiva ancora un treno settimanale per Amman. La guerra civile scoppiata nel 2011 ha però tagliato fuori la Siria dal turismo per chissà ancora quanto tempo.
Al Cairo, in Egitto, nel 2018 è stato abbattuto e trasformato in uffici nello stesso stile coloniale il Grand Continental Hotel, sulla piazza Ezbekiyya, dove Thomas Edward alloggiò nella stanza 220 per nove mesi, dal 1914 al 1915, dopo essersi arruolato nell’Arab Bureau dell’intelligence britannica allo scoppio della Grande Guerra. Costruito nel 1860 nell’ambito dei progetti di modernizzazione legati al Canale di Suez, era l’albergo più antico della capitale rimasto in piedi e un pezzo di storia dell’Egitto: nel 1922 vi fu firmata la dichiarazione d’indipendenza dalla Gran Bretagna.
L’epopea di Lawrence fu scritta soprattutto sulla sabbia del deserto, con gli assalti e i sabotaggi alla ferrovia ottomana nell’Hejaz e l’attraversamento del Wadi Rum giordano per prendere alle spalle i turchi ed espugnare Aqaba.
Oggi l’apertura dell’Arabia Saudita al turismo rende per la prima volta realizzabile un tour di questi luoghi. È possibile anche visitarli con una nuova crociera che tocca i porti sauditi di Gedda e Yanbu, quello giordano di Aqaba e Safaga, in Egitto, base di partenza per l’escursione a Il Cairo. E in ogni tappa ci sono posti che riecheggiano le narrazioni di Lawrence nella sua autobiografia.
Gedda “era davvero una città notevole”, raccontava, “le strade si stringevano in vicoli chiusi da tettoie di legno nel bazar principale, ma altrove aperti verso il cielo, nei piccoli interstizi tra le sommità delle alte case dai muri bianchi”. È la descrizione dei palazzi in corallo di Al Balad, la città vecchia dichiarata nel 2014 Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. I balconi intarsiati dei suoi palazzi erano il simbolo dell’opulenza dei mercanti, arricchiti dal passaggio dei pellegrini diretti alla Mecca. I balconcini chiusi in tek traforato chiamati ‘roshan’ (dal persiano rozen, “apertura nella finestra”) sono autentiche opere d’arte con una funzione pratica: ostruiscono i raggi del sole e garantiscono una discreta ventilazione, convogliando l’aria. Dietro di loro le donne potevano curiosare sulla strada restando nascoste da sguardi indiscreti.
Sulla piazza Al-Bayaa, all’ingresso della città vecchia, è stata restaurata la Sharbatly House, elegantissima abitazione su quattro piani in stille ‘hijazi’dell’omonima famiglia che da un secolo controlla la distribuzione di frutta e verdura nel Paese. TE Lawrence vi avrebbe abitato nel 1917. Il palazzo, che oggi ospita mostre d’arte, seminari e un ristorante, per vent’anni fu sede della legazione egiziana in città.
A Yanbu al Bahr (‘primavera del mare’), altra città costiera saudita più a nord divisa a metà tra il polo petrolchimico e la suggestiva città vecchia con il mercato notturno in cui facevano scorta le navi in transito, si trova la casa su tre piani in cui Lawrence si fermò nel 1916, ospite del governatore locale. “Rimasi quattro giorni ad attendere la nave”, raccontò, “nella casa pittoresca e sconclusionata di Abdel Kader che dava sulla piazza deserta da cui erano partite innumerevoli carovane dirette a Medina”.
La casa, altro esempio del tipico stile della regione di inizio ‘900, era abbandonata da decenni perché gli abitanti della zona la ritenevano infestata dai fantasmi. Nel 2020, però, è stata ristrutturata nell’ambito della campagna del principe ereditario Mohammed bin Salman per promuovere il turismo ed è ora visitabile.
Da Yanbu si può raggiungere Medina per vedere il museo aperto nel 2006 sui resti della storica stazione ottomana che faceva parte della linea ferroviaria dell’Hejaz, più volte attaccata dai ribelli arabi per interrompere i rifornimenti in arrivo da Damasco. Il 26 marzo 1917 Lawrence guidò l’assalto alla stazione di Aba el Naam, completamente distrutta, in una delle azioni di guerriglia che lo hanno fatto entrare nei manuali di strategia militare.
L’Arabia Saudita sta riscoprendo l’orgoglio per la rivolta che dette il la al processo di indipendenza sfociato nella nascita dello Stato, nel 1932. Dal 2019, complici le tensioni con la Turchia per il suo sostegno alle Primavere arabe, nei libri di storia il dominio dell’Impero ottomano viene definito come un’occupazione e non più come un Califfato.
La città che più di ogni altra è legata a colui che i beduini chiamavano ‘Aurans Iblis’, Lawrence il Diavolo, è Aqaba, in Giordania. Lo strategico porto sul Mar Rosso fu conquistato dalla rivolta araba il 6 luglio 1917 grazie a un’azione temeraria: la fortezza ottomana, il castello Mamelucco, aveva i cannoni puntati verso il mare perché si riteneva che l’unica minaccia potesse arrivare dalle navi britanniche, soprattutto in piena estate. Invece le forze del principe Feisal furono guidate attraverso la fornace del deserto, a costo di indicibili sacrifici, e presero alle spalle la guarnigione ottomana con un leggendario assalto con i cammelli. Oggi del castello del XVI secolo, un ex caravanserraglio fortificato poco distante dal lungomare e dal gigantesco pennone con la bandiera giordana, restano solo le rovine, anche a causa del devastante terremoto del 1995. Adiacente al castello è un edificio che ospitò lo sceriffo della Mecca, Hussein, trasformato ora nel Museo archeologico.
Alle spalle della seconda città della Giordania, 60 chilometri più a nord, inizia lo spettacolare Wadi Rum, uno dei deserti più belli del mondo conosciuto anche come la Valle della Luna: “Vasto, echeggiante e simile a una divinità”, lo definì Lawrence che intitolò la sua autobiografia, ‘I sette pilastri della saggezza’, con il nome che aveva dato a una delle formazioni più impressionanti che si levano dalle sue sabbie rosse. Una landa spettrale da cui emergono escrescenze della costa terrestre simili a spine dorsali di dinosauri e in cui Lean girò le scene più spettacolari del suo film, le uniche realizzate ‘in loco’. Un bassorilievo che ritrae il volto dell’ufficiale di collegamento britannico è ancora intatto. Fu in questo deserto che Lawrence si accampò con l’esercito di Feisal e ancora oggi ci vivono molti badiah, i beduini del deserto, dalle cui tende esce il profumo del tè e il suono del violino rababah. Dai racconti di Lawrence sappiamo che visitò la sorgente di Ain Shalaleeh, vicino al villaggio di Rum. Oltre naturalmente alla meravigliosa città nabatea di Petra, che definì “il più bel luogo della terra”. “Non per le sue rovine”, precisò, “ma per i colori delle sue rocce, tutte rosse e nere con strisce verdi e azzurre, quasi dei piccoli corrugamenti e per le forme delle sue pietre e guglie, e per la sua fantastica gola larga appena quanto basta per far passare un cammello” .
A est di Amman si trova il Qasr Azraq (Castello blu), fortezza in uso dai tempi dei romani che nel 1917 ospitò il quartier generale dell’esercito arabo del Nord guidato dal principe Feisal e dal generale Lawrence d’Arabia. Le guide indicano tra le sue rovine la zona in cui avrebbe dormito l’ufficiale inglese, il quale descrisse “il silenzio imperscrutabile” che avvolgeva l’area. La desolata ma suggestiva regione si trova al confine con la “teglia giordana”, il deserto che prosegue in Siria a nord, in Arabia Saudita a sud e in Iraq ad est. Lawrence d’Arabia morì in un misterioso incidente di motocicletta nel 1935 nella campagna inglese. Ma in queste aride e lontane terre il suo spirito ancora parla al viaggiatore che voglia mettersi in ascolto.
AGI – Non azzardatevi a chiamarla anziana. Perché Barbara Alberti, scrittrice, sceneggiatrice, attrice, giornalista, drammaturga, detentrice di poste del cuore di gran livello domani compie ottant’anni, ed è orgogliosa, chiarisce all’Agi, di essere “una vecchia”. Come suo marito Amedeo Pagani, suo coetaneo, appena uscito allegramente da una frattura al femore: “Festeggeremo in casa, mangiando una pastiera portata da un amico, gioendo del fatto che siamo ancora qui, abbiamo una vita fortunata, ci siamo dedicati e lo facciamo ancora, al lavoro che amiamo” chiarisce, sottolineando come fino a qualche tempo fa, un ottantenne che si rompeva il femore “era praticamente condannato a morte e a sessant’anni avevano quasi tutti la dentiera”.
Quelli della sua generazione, spiega, sono stati molto fortunati: “Essere vecchi oggi è una gran cosa, non ci leviamo mai dai piedi e questo diventerà un problema sociale. Siamo nati alla fine della seconda guerra mondiale e per fortuna non ce la ricordiamo e siamo cresciuti liberi. E la medicina ha fatto dei tali progressi che invecchiare è diventato quasi un piacere. Eugenio Scalfari se n’è andato a 98 anni quando era ancora sulla tolda, io lavoro ancora a pieno ritmo…”.
Alla fierezza anagrafica Alberti ammette di essere arrivata lentamente e non senza difficoltà: “Non avrei mai pensato di compiere ottant’anni perché da giovane facevo fatica ad accettare l’idea degli anni che passavano, mi facevano pensare alla morte ed era un’idea che trovavo indigeribile – racconta – tant’è che pensavo anche (ma sapendo bene che mai ne avrei avuto il coraggio) al suicidio, come paradossale atto, autoderminante, contro l’invecchiamento”.
La prima volta che si sentì vecchia, ricorda, risale addirittura ai suoi 24 anni: “Incontrai un compagno di università che non vedevo da un po’ e che davanti a qualche mia piccola ruga intorno alla bocca, dovuta al fatto che ho sempre riso tanto, mi disse “ma come sei invecchiata”. Ci rimasi malissimo, e a lungo, poi con il tempo ho capito che gli uomini esorcizzano la loro paura di invecchiare trasferendola sulle donne”.
La consapevolezza, se non la fierezza (“non mi sento orgogliosa di essere arrivata a ottant’anni non ho nessun merito”) è arrivata con il tempo anche grazie al suo carattere: “Ho capito che si può invecchiare gioendo della vita, delle piccole cose, del gatto che abbiamo preso da poco, degli amici che abbiamo. Non ho mai cercato amicizie mirate, di convenienza, ma solo quelle disinteressate”. E al traguardo degli ottanta vorrebbe che i vecchi fossero guardati con riguardo, come un tempo: “I vecchi ricordano la morte, un tabù di questa era consumistica. Una volta invece la vecchiaia era uno status: ai miei nonni, ma anche i miei genitori, che chiamavamo “i vecchi” conferivamo un’autorità assoluta”. Lei intanto, evita chi comincia a guardarla “come se non ci fossi più. Voglio frequentare soltanto chi mi considera eterna”.
AGI – Sicilia, anni 70. Un giovane va a Licata dove sin da piccolo trascorre le vacanze nella cittadina di mare dove vivono gli zii. Bei ricordi, belle giornate passate insieme alle cugine e agli amici. Solo che stavolta è diverso, accade qualcosa che segna un punto di svolta nella sua vita e che lo fa riflettere su tutto quello che ha detto, fatto e costruito fino a quel momento.
La politica, le manifestazioni antifasciste, il rancore, il distacco verso la famiglia borghese degli zii, pensieri e inquietudini personali. Proprio quell’estate, il giovane si infila per caso in un’indagine su un omicidio, e finisce in una storia intricata fatta di sotterfugi familiari, mafie, con il sogno di un amore. Fin qui, per non svelare troppo, la trama di “L’ultima ombra d’estate” (edizioni Piemme), primo romanzo giallo di Mario Mattia, geofisico dell’Ingv, (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) nato a Caserta ma da sempre residente a Catania, dove lavora presso l’Osservatorio Etneo occupandosi di monitoraggio geodetico dei vulcani e delle aree sismotettoniche della Sicilia. Dalla penna di questo geofisico, esce un giallo appassionante che fra mare, sole che scotta, rocce, monti, qualche frase in dialetto che umanizza ancora di più i protagonisti, guida il lettore attraverso una storia ambientata nella regione più eclettica d’Italia.
“L’idea del romanzo – spiega all’AGI Mario Mattia – è nata da un casuale ritorno a Licata dopo trent’anni di assenza. Questo fatto, abbastanza insignificante, ha aperto una porta chiusa da molto tempo dietro la quale c’erano ricordi, sensazioni ed emozioni vissute in quelle estati di tanti anni fa, passate sulle spiagge licatesi. Il fatto di essere un geofisico mi ha aiutato molto, in primo luogo perché il mestiere di ricercatore prevede una buona dose di creatività e poi perché il mio è un lavoro che ti porta a girare e a conoscere nel dettaglio il territorio. E conoscere il territorio non significa solo studiare la geologia o le faglie perché, per forza di cose, entri in contatto con le persone che lo abitano e con le loro storie. Da qui, la scintilla di cominciare a mettere su carta queste storie attraverso la narrazione”.
Marco il protagonista, Sandra, Laura Torrisi la PM, Tiziana e suo padre: sono personaggi reali? Quanto c’e’ di autobiografico? “Per onestà – risponde lo scrittore – devo rispondere di sì, ma nel senso che i caratteri e magari anche gli aspetti fisici dei personaggi del mio romanzo sono legati a persone che ho conosciuto o incontrato. Non si tratta di veri e propri ritratti, direi più che a loro mi sono ispirato e li ho fatti recitare sul palcoscenico della Sicilia degli anni ’70. Marco è stato il più immediato e il più semplice da ‘inventare’. Ragazzi come lui ne ho incontrati tanti nelle manifestazioni e nelle assemblee politiche. Seri, poco socievoli, pronti a esplodere quando si trattava di difendere diritti violati. Molti “Marco” li vedo ancora, perfetti membri di quella borghesia che tanti anni fa contestavano. Altri, pochissimi, hanno invece fatto scelte più coerenti e tragiche per sé stessi e per gli altri, esattamente come il Marco del mio libro. L’altro personaggio con cui mi è piaciuto giocare un po’ è la PM Torrisi, una donna forte e un magistrato rigoroso, ma con una enorme carica di umanità. Non so se esiste davvero un pubblico ministero come lei, ma da cittadino me lo auguro”.
La passione per i gialli e l’ispirazione: “Nel romanzo ci sono ampie citazioni di ‘A ciascuno il suo’ di Leonardo Sciascia – spiega Mattia – la sua visione razionale e spietata della realtà siciliana è stata un insegnamento fondamentale, per me. In generale, sono molto legato a scrittori siciliani come Bufalino, Brancati e Patti”. Il libro si legge tutto d’un fiato, scorre bene e intriga: è stato definito un romanzo di formazione. Dall’impeto giovanile in cui tutto appare facile e conquistabile, alla scelta più matura di cercare un punto di equilibrio.
Anche per l’autore, nato a Caserta ma da sempre in Sicilia, è cambiato nel tempo qualcosa? “Non mi piace fare i discorsi del ‘buon tempo antico’. La Sicilia – sottolinea lo scrittore – è cambiata moltissimo ed ho già detto dello scempio del territorio, ma ricordo perfettamente la miseria e il degrado di certe zone della Sicilia. Li ho visti, tanti anni fa, i bambini scalzi e con gli occhi malati di tracoma. Oggi, per fortuna, queste cose non ci sono più. Riguardo il romanzo, ho cercato di descrivere, al meglio delle mie possibilità, delle immagini, delle sensazioni. Se in qualche modo ci sono riuscito, ne sono felice. Alla fine, anzi, è l’unica cosa che conta e che ripaga del lavoro fatto in tante notti, chino sulla tastiera del PC…”.
L’ombra della mafia, il tentativo di resistere alle sirene dell’illegalità, la resa, ma anche l’amore come boccata di ossigeno, c’e’ speranza? “Per rispondere a questa domanda cito un celebre libro di Hannah Arendt. Nel mio romanzo ho cercato di descrivere ‘la banalità del male’ – risponde Mario Mattia – nel senso che molto spesso dietro il ‘sacco’ urbanistico che ha sfigurato la Sicilia negli ultimi 50 anni non bisogna cercare solo gli interessi mafiosi, ma anche la rapace avidità della borghesia siciliana, quella ricca e istruita, che trovava una giustificazione alla sua bramosia trincerandosi dietro la parola ‘sviluppo’. Io comunque sono ottimista e penso che l’amore, inteso non solo come quello profondo e viscerale che lega i due personaggi del mio romanzo, ma anche quello per la propria terra e per la propria gente, sia il motore che porta ai grandi cambiamenti e l’unico fattore che può aiutare a mettere da parte l’abituale cinismo e la diffidenza atavica che troppo spesso finisce per paralizzare il cambiamento qui in Sicilia”.
A proposito di politiche urbanistiche scriteriate, sembra che da parte dei giovani e della popolazione in generale, stia iniziando a manifestarsi un certo interesse verso temi come quello della tutela del paesaggio e dell’ambiente. “Credo sia evidente che il dolore per le mostruosità urbanistiche compiute in Sicilia dagli anni ’60 dello scorso secolo in poi – aggiunge ancora lo scrittore – è stato la molla che mi ha spinto a sedermi dietro a un tavolo e a raccontare una storia. Non uso a caso la parola ‘dolore’, e non ne trovo una migliore per descrivere la sofferenza nell’osservare come un territorio meraviglioso sia stato massacrato senza creare quasi nulla di quello ‘sviluppo’ che prometteva. I ragazzi di oggi scappano dalla Sicilia, soprattutto quelli che hanno elevati livelli di formazione. Sono terrorizzati dall’idea di restare marginali rispetto ai grandi processi di globalizzazione e di essere condannati ad accontentarsi di un numero limitato di possibilità lavorative. Servirebbe una nuova stagione di idealità e prospettive per invertire il trend e mi auguro che a innescarlo siano proprio i ragazzi che in questi mesi, in questi anni, stanno partendo per il nord o per altre nazioni”.
Oggi si parla di nuovo del Ponte sullo Stretto: “Da geofisico che tuttora sta lavorando nell’area dello Stretto di Messina – spiega Mattia – posso dire che abbiamo un background scientifico di ottimo livello, che ha chiarito molti degli aspetti geodinamici di un’area estremamente complessa, crocevia di diversi sistemi di faglie. Inoltre la zona è ben monitorata e nuovi progetti si stanno realizzando, che alzeranno il livello di conoscenza sulla pericolosità sismica della Sicilia Nordorientale e della Calabria meridionale. Se chiamata in causa, la comunità scientifica sarà quindi in grado di rispondere alle domande dei progettisti. Come siciliano – conclude l’esperto – drizzo le orecchie ogni volta che sento proclamare la parola ‘sviluppo’ e mi pongo in una posizione di attesa, curioso di scoprire se anche stavolta dietro questa parola c’è l’ennesimo ‘nulla’ o se invece ci sarà qualcosa di utile e di realmente produttivo”.
AGI – Si avvicina il cinquantesimo anniversario della morte di Pablo Picasso (Malaga, 25 ottobre 1881 – Mougins, 8 aprile 1973), e per l’occasione il Comune di Sarzana (La Spezia) con l’organizzazione di Paloma, un progetto di Comediarting, e in collaborazione con il “Museo Casa Natal Picasso de Màlaga”, dedicano una mostra, con oltre 100 opere, a uno dei più grandi geni del XX secolo dal titolo ‘Pablo Picasso, le origini del mito’.
Un ritorno alle origini
L’esposizione, che si apre proprio sabato 8 aprile alla Fortezza Firmafede, dove resterà fino al 16 luglio, si unisce alle commemorazioni delle più importanti istituzioni e muse di Europa e degli Stati Uniti, ed è uno dei pochi progetti culturali organizzati in tal senso in Italia.
“La famiglia di Picasso era ligure ed è quindi una mostra che acquista anche per questo un significato ancora più profondo, si tratta di un ritorno alle origini – spiega la curatrice della mostra, Lola Duràn Ùcar – Se c’è qualcosa che possa arrivare a spiegare la complessa personalità di Picasso è la sua passione, la sua curiosità, il suo immenso affanno di conoscere e sperimentare. Picasso utilizza un marcato e inconfondibile linguaggio pittorico, pieno di genialità, che ha rivoluzionato il Ventesimo secolo e lo ha fatto diventare un mito”.
La mostra è un racconto completo del percorso artistico di Picasso. In esposizione oltre 100 opere, tra le quali 18 fotografie – alcune realizzate da Juan Gyenes, provenienti dall’Archivio Gyenes e altre da Robert Capa – oltre a litografie, acquetinte, acqueforti, puntesecche, ceramiche e il famoso dipinto “Tete de femme”.
Un viaggio iniziato e concluso in Francia
Si parte dalle prime opere realizzate a Parigi intorno ai primi del Novecento, quando cercava di farsi strada come artista, fino a quelle realizzate al termine della sua vita, quando si ritirò nella villa a La Californie in Costa Azzurra e ritrasse la giovane moglie Jacqueline Roque e al contempo indagò il tema della terra e del fuoco, creando alcuni bellissimi pezzi di ceramica, molti dei quali saranno esposti a Sarzana.
La mostra comprende poi un insieme d’incisioni appartenenti alle serie più importanti, la ‘Barcelona Suite’ e la ‘Suite des Saltimbanques’, la ‘Tauromaquia o arte de torear’ e ‘Dans l’Atelier’, da una selezione di ceramiche e appunto dal meraviglioso olio ‘Tete de femme’, l’opera ispirata a una delle sue muse amanti, Dora Maar.
Le fotografie di Robert Capa e di Juan Gyenes, inserite nell’allestimento, raccontano la quotidianità del grande maestro. Quanto alle opere grafiche, l’attività di incisore è stata una delle più importanti della carriera di Picasso. Il lavoro grafico rispecchia tutte le fasi creative dell’artista ed è proprio lì che si apprezza al meglio il suo talento tenace e appassionato.
Con le serie della ‘Barcelona Suite’ e la ‘Suite des Saltimbanques’, il visitatore si avvicinera’ ai primi anni di creazione di Picasso, la Parigi bohémien di Montmartre, il malinconico periodo blu o il ben più dolce periodo rosa. Il visitatore camminerà tra i ritratti di giovani donne, ammirerà le scene del circo e si ritroverà davanti la figura dell’Arlecchino, ripreso dalla commedia dell’arte.
Arte e vita si incrociano
Invece ‘La tauromaquia o arte de torear’ rappresentano il tema della corrida, una delle grandi passioni di Picasso. La corrida era un luogo per lui legato sia all’infanzia, quando si recava all’arena con suo padre a Malaga, che alla nostalgia per il suo Paese di origine, la Spagna. Nella prima di queste serie Picasso rende omaggio anche a Francisco de Goya, pittore che alcuni secoli prima aveva illustrato il destino di Pepe Hillo.
Un’altra serie presente in mostra è ‘Dans l’Atelier’, un insieme di litografie e riproduzioni litografiche pubblicate nel 1957 a La Californie, la casa-studio che acquistò nel 1955 sedotto dal fatto che fosse isolata e dalla splendida vista sulla baia di Cannes e che ha condiviso con Jacqueline Roque. Qui arte e vita si incrociano: a La Californie, Picasso studia, lavora e incontra amici e visitatori. In ‘Dans l’Atelier’ vari temi concorrono e dialogano tra loro: è il caso delle nature morte, il genere più importante nella pittura di Picasso dopo la rappresentazione della figura.
La scoperta di un nuovo linguaggio
E c’è anche la ceramica. Infatti, il carattere curioso e irrequieto porta Picasso, già uomo maturo, a cimentarsi nel campo della ceramica. Picasso vi si dedicò con la passione di un bambino insieme all’abilità dell’artista. L’argilla come materia prima e la sua trasformazione come metodo di lavoro lo portarono alla scoperta di un nuovo linguaggio. Picasso reinventò la forma e affrontò la decorazione di vasi, piatti o mattonelle, nello stesso modo nel quale aveva potuto reinventare l’incisione o la pittura.
Le sue ceramiche riprendono temi già rappresentati su tela e carta. Emerge così un universo popolato di fauni, colombe, volti femminili, minotauri o corride, che abitano piatti, brocche e vasi. E anche all’interno della produzione ceramica il tema taurino, come nel resto della sua opera, finirà per essere uno dei più importanti.
Amore e guerra
C’è poi la parte dedicata all’ampio corpus di opere strettamente legate alla sua vita personale, in cui le donne giocarono un ruolo decisivo. Ecco perché la presenza femminile è così frequente nella produzione artistica di Picasso, che si tratti di ritratti, nudi o idealizzazioni. Sono donne identificabili, reali, che diventano muse o modelle dell’artista nel corso della relazione sentimentale.
‘Tete de Femme’ raffigura Dora Maar (Henriette Theodora Markovitch), pittrice e fotografa che fu sua compagna tra il 1936 e il 1943. I biografi la descrivono come una donna indipendente, politicamente impegnata, intellettuale ed enigmatica. I due artisti condivisero un periodo di grande passione e intesa intellettuale, non privo però di forti turbolenze. Il periodo di convivenza coincide infatti con un periodo particolarmente tragico: la guerra civile spagnola e la Seconda guerra mondiale sono momenti di angoscia e paura, momenti convulsi che si riflettono nella pittura di Picasso. L’artista a volte la ritrae serenamente, ma altre volte ne distorce il volto, come appunto nel caso di ‘Tete de femme’, che e’ l’ultimo di una serie di quattro ritratti realizzati il 3 giugno 1943 esposti in mostra.
Quanto alla sezione fotografie, la mostra ne presenta una selezione di nove scattate da Robert Capa alla famiglia Picasso in vacanza a Golfe Juan, in Francia, nell’agosto del 1948. Capa, che aveva conosciuto Francoise Gilot anni prima a Parigi, cattura il lato più intimo dell’artista, con la sua amata e il figlio Claude, il primo figlio della coppia. Giocano sulla spiaggia davanti alle acque calme della Costa Azzurra, passeggiano e si divertono, in istantanee che trasportano il visitatore nei momenti più personali di Picasso, fuori dal suo studio e dal suo universo creativo.
E poi ci sono altre nove fotografie di Pablo Picasso provenienti dal lascito Gyenes del Museo Casa Natal Picasso di Malaga. Juan Gyenes fu un fotografo di origine ungherese, considerato un maestro della luce, un classico dell’arte fotografica spagnola. In questa mostra sono state selezionate alcune istantanee che corrispondono a tre incontri tra Picasso e Gyenes.
La mostra sarà aperta dal martedì alla domenica dalle 11 alle 13 e dalle 15 alle 19.
AGI – E’ un momento magico per i libri che raccontano il cinema. Lo fa Quentin Tarantino focalizzando la sua attenzione sulla Hollywood anni ’70. Lo fa il grande critico David Thomson il cui splendido saggio sul cinema americano del 2004 arriva ora in Italia con tutta la sua mole di informazioni e curiosità. Lo fa ora Francesco Piccolo, sceneggiatore (da Nanni Moretti a Paolo Virzì, da Francesca Archibugi a Marco Bellocchio alle serie tratte da Elena Ferrante) e scrittore casertano, vincitore nel 2014 del premio Strega per ‘Il desiderio di essere come tutti’, grande appassionato ed esperto di cinema che pubblica ‘La bella confusione) (Editore Einaudi – pagg. 282, prezzo: 20 euro), un suo saggio “autobiografico” incentrato sul dualismo Fellini-Visconti e sull’anno 1962 quando i due cineasti girarono contemporaneamente due film che avrebbero segnato per sempre la storia del cinema, ‘8 ½’ e ‘Il Gattopardo’. Due pellicole che avevano in comune un’attrice, Claudia Cardinale, oltre all’autore delle musiche, Nino Rota, che arrivarono in sala cinquant’anni fa a poche settimane l’una dall’altra.
Francesco Piccolo, il cui ultimo lavoro per il cinema è la sceneggiatura di ‘ La storia’ di Francesca Archibugi dal romanzo di Elsa Morante, attualmente al montaggio, ha spiegato durante la Masterclass conclusiva del Bif&st la genesi del suo libro. “L’idea mi venne nel 2014 – ha ricordato Piccolo – mentre mi trovavo al Festival di Sanremo dove lavoravo come autore per Fabio Fazio. Ad un certo punto mi trovai a fumare una sigaretta nel foyer insieme a Claudia Cardinale e lei mi raccontò, tra le altre cose, di quando stava girando negli stessi mesi ‘8 1/2′ e ‘Il Gattopardo’ e di come i due registi esigessero un colore diverso di capelli per i suoi personaggi senza che dovesse indossare una parrucca. Pare che la sua parrucchiera abbia smesso di lavorare dopo quei film!”, ha scherzato.
“Dopo avere deciso di dedicare il libro ai due film, ho iniziato un lavoro di documentazione che mi ha richiesto molti anni perché non volevo parlare solo dei film – ha aggiunto Piccolo – ma di tutto ciò che vi ruotava attorno in termini di fatti di cronaca, il modo di vivere il cinema allora, volevo che si potesse leggere come il racconto di un cronista dell’epoca. Ho scoperto, tra le tante cose, che Fellini e Visconti non si sono parlati per 8 anni, a partire da un episodio accaduto alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1954, dove erano in concorso l’uno con ‘La strada’ e l’altro con ‘Senso’. Andò a finire che Fellini vinse il Leone d’Argento (per la regia, ndr) e Visconti non vinse nulla, le rispettive troupe vennero alle mani durante la premiazione e da allora i registi iniziarono una competizione che si trascinò per diversi anni”.
Una rivalità accesissima quella raccontata nel libro ‘La bella confusione’, che è anche un ritratto di un’epoca e viaggia sul doppio binario Visconti-Fellini, coppia di geni contro che si odiavano al punto che – racconta Enrico Lucherini, press agent di Visconti e del ‘Gattopardo’ – passando in macchina davanti al Canova a Piazza del Popolo e vedendo Fellini seduto al tavolino, il regista del ‘Gattopardo’ tirò su il finestrino dicendo all’autista di accelerare: “Se mi vede, quello mi sputa!“, disse.
Una rivalità nata a Venezia e finita in Russia dieci anni dopo, nel 1964, quando Fellini e Visconti portarono al Festival di Mosca ‘8 1/2′ (in concorso) e ‘Il Gattopardo’ (fuori concorso). Un incontro in albergo, favorito dall’azione diplomatica di Giulietta Masina – moglie di Fellini e grande amica di Visconti – sancì la fine della guerra e la riappacificazione definitiva. I due registi continueranno a farsi i complimenti e a dichiarare apprezzamento l’uno per l’altro fino alla morte di Visconti nel 1976.
Piccolo racconta le vicende di due dei film più importanti del cinema italiano, pellicole che nell’annus mirabilis 1963 (ma nei Sessanta c’erano spesso ‘anni mirabili’) registrarono il primo (‘Il Gattopardo’) e il terzo incasso (‘8 1/2′) dell’anno. Per la cronaca: secondo incasso fu ‘Il sorpasso’ di Dino Risi e il quarto ‘Mafioso’ di Alberto Lattuada con Alberto Sordi, a testimoniare quanto la nostra cinematografia fosse (giustamente, visto i titoli) dominante. Piccolo è un grande scrittore, oltre ad essere un esperto di cinema e un addetto ai lavori. Per cui leggere ‘La bella confusione’, titolo che riporta a quello inizialmente pensato da Fellini per il suo ‘8 ½’, è un piacere oltre che un vero arricchimento.
Raccontando la realizzazione in parallelo dei due capolavori del cinema, Piccolo ripercorre anche momenti importanti, racconta vicende personali dei protagonisti e narra aneddoti (alcuni riportati col beneficio del dubbio) che girano intorno ai due film e ai due giganti del nostro cinema. Racconta di Claudia Cardinale, costretta a cambiare colore di capelli passando dal set di ‘Il Gattopardo’ a quello di ‘8 ½’, attrice amatissima da Visconti e Fellini e interprete fondamentale nei loro film girati nel 1962 – protagonista nel ruolo di Angelica per Visconti e nel ruolo di donna ideale del regista Guido Anselmi-Mastroianni per Fellini – motivo di contrasto e oggetto di ripicche da parte del regista del ‘Gattopardo’ che faceva di tutto per trattenerla e impedirle di andare da Fellini (che non poté averla sul set per la scena fondamentale dell’harem in ‘8 ½’).
Racconta poi di grandi personaggi che hanno scritto la storia del cinema italiano, legati all’uno o all’altro regista, come Suso Cecchi D’Amico sceneggiatrice di tanti film di Visconti o Ennio Flaiano, sceneggiatore dei primi capolavori di Fellini fino a ‘Giulietta degli Spiriti (collaborazione e amicizia di fatto finite dopo il successo di ‘8 ½’ e poi rapporto recuperato nel 1969 e proseguito, unicamente come frequentazione e non più come collaborazione, fino al 1972 quando Flaiano morì). La cosa che rende il tutto molto interessante è anche il fatto che Suso e Flaiano erano amici (secondo la figlia, forse anche qualcosa di più) e scrissero insieme numerosi film, ma erano divisi nella collaborazione con Visconti e Fellini.
Nel libro di Piccolo cronaca, spettacolo, gossip e arte si mischiano dando corpo alla narrazione e senso al titolo: ‘la bella confusione’ da cui scaturiscono due capolavori assoluti vede anche lontani dai riflettori rapporti sentimentali e personali che influenzano non poco l’opera dei due cineasti. Piccolo racconta la storia durata 37 anni di Federico Fellini con la sua amante segreta (si è rivelata solo dopo la morte del regista), Anna Giovannini, una farmacista con cui visse una storia d’amore parallela, alla quale comprò una casa ai Parioli, che frequentò assiduamente per decenni all’insaputa (ufficiale) di Giulietta Masina. Poi c’è l’amante ‘ufficiale’, Sandra Milo, legata sentimentalmente (ed eroticamente, come raccontato senza troppo pudore dalla stessa attrice) per 17 anni a Fellini e, curiosamente, diventata tale sul set di ‘8 ½’ quando impersonava proprio un personaggio (Carla) modellato sull’amante segreta Anna.
Poi c’è la storia di collaborazione e di probabile intimità Flaiano-Suso Cecchi D’Amico; quindi quella tra Visconti e Alain Delon, con l’attore francese che faceva arrabbiare (e ingelosire) il regista perché lo evitava e, malgrado fidanzato ufficialmente con Romy Scheider, ospitava ogni sera una donna diversa in albergo. Anche Visconti aveva poi le sue storie, seppure vissute in maniera molto riservata, raccontate a Piccolo dal più pettegolo dei press agent, Enrico Lucherini (racconta che il regista ebbe una storia con un importante attore italiano sul set di cui non rivela il nome).
‘La bella confusione’ di Francesco Piccolo parla della genesi di due capolavori del cinema, racconta le invidie, i problemi, le gioie e le frustrazioni, le difficoltà economiche e quelle realizzative. E poi fa una sintesi che descrive il senso più profondo del cinema: “Nel tempo tutto il resto se ne va – scrive – e rimane soltanto il film; e anche di chi l’ha realizzato, si ricordano solo alcune caratteristiche; e nel tempo, perfino le caratteristiche peggiori cambiano di senso e acquistano leggenda”.
AGI Un velo bianco ornato da un pizzo della tradizione barbaricina copre il loro volto spettrale, lasciando intravedere enormi occhi neri, buchi che forano il volto pallido. Così appaiano le ‘Panas’, creature della tradizione della Sardegna rielaborate dalla fantasia dell’illustratrice cagliaritana Ilenia Loddo, nella seconda avventura del suo personaggio, il professor Rufus Kraus, studioso di fenomeni paranormali morto dopo una caduta in un crepaccio durante le sue ricerche e diventato fantasma.
In questa forma il protagonista delle storie create dall’artista incontra figure leggendarie che popolano la Sardegna. Le Panas sono spiriti di donne morte durante il parto. Secondo la superstizione popolare, sono costrette a vagare senza pace per sette anni. Nella loro tunica bianca macchiata di sangue, questi spettri appaiono allo scoccare della mezzanotte nei boschi della Barbagia di Ollolai, dove trascorrono la notte al fiume, a lavare le vesti del loro bambino, intonando una struggente ninna nanna in sardo.
‘Le terrificanti scoperte del dottor Kraus. Le Panas’ (Camena edizioni) è l’ultimo albo illustrato di Loddo, affascinata dalle atmosfere dark e ispirata dalla leggende oscure che si tramandano in Sardegna. “Le Panas m’interessano come tutte le creature notturne”, spiega l’autrice, “e qui ancora di più perché si trattava di gestire il tema della maternità e dell’abbandono, ancora adesso di grande attualità. Non si trattava di creare mostri ma, anzi, di dare corpo a misteriose figure femminili affascinanti, pur con gli occhi neri come il buio, celate da un velo bianco arricchito da un pizzo che ho preso dalla tradizone di Ollolai”.
Il tratto delle tavole richiama il disegno a mano, ma è il risultato di otto mesi di lavoro interamente al computer. Nella visione dell’autrice, le Panas, spettri vendicativi che si fatica a distingure dalle donne in carne e ossa, si aggirano la notte con un osso umano e un catino e sono condannate alla solitudine: a nessuno è consentito rivolgere loro la parola, pena conseguenze terribili, come accade a un bambino raffigurato nel volume.
L’albo, completo di bibliografia che include una raccolta di scritti etnografici di Grazia Deledda, riporta alcune utili ‘precauzioni’ per evitare le Panas e anche per impedire che una donna morta di parto abbia quella sorte. In chiusura, l’autrice racconta la storia di ‘Sa Reula’, la processione fantasma del 31 ottobre, altra leggeda da cui è preferibile – secondo la superstizione – che i ‘non morti’ stiano lontani.
AGI – Flessibilità, modernizzazione, stabilità. Lo schiavismo del secolo ha un volto, ed è quello del lavoro tutto doveri e niente tutele: lo hanno sostenuto il regista Ken Loach e il linguista Noam Chomsky in un ‘duello’ virtuale organizzato dalla Fondazione Piccolo America presso il romano cinema Troisi, dopo la proiezione di ‘Sorry we missed you’, la profezia cinematografica che Ken Loach ha girato nel 2019, un ritratto affilato e doloroso di questo tempo di ‘schiavisti’ inconsapevoli di esserlo e di ‘schiavi’ a cottimo.
È iniziato da qui, da questo affresco sociale il dibattito tra il regista Ken Loach e il linguista Noam Chomsky, classe ’36 e classe ’28, e ancora sulle barricate, anche se tra l’uno e l’altro, nella serata di oggi, c’erano un oceano, tre fusi orari, e Roma. Intervistati dal presidente della Fondazione Piccolo America, Valerio Carocci, riguardo al primo pensiero che li sveglia ogni mattina, il regista britannico e lo studioso statunitense hanno risposto quasi unanimi: continuare a lottare.
“Mi aggrappo alla mia tazza di caffè – ha risposto Ken Loach – poi il mio primo pensiero, dopo l’ansia di essere in ritardo, è ascoltare la BBC, che è lo strumento di propaganda più sofisticato che ci sia. Si propone come un ente indipendente ma non è così, ed è quello che i privilegiati vogliono sentire. È una caratteristica britannica questa ipocrisia calcolata, sempre proposta con un sorriso, molto gentile, con una facciata affabile, che invece rivela la più grande propaganda. Quindi arriva il terzo pensiero: trovare le energie per combattere”.
Gli fa eco Chomsky, che con i suoi 94 anni pensa a correre, almeno con la testa. E lo fa leggendo il New York Times, che definisce “la voce dello Stato costituito, del potere”. Lo ha spiegato, nel suo collegamento con il cinema Troisi di Roma, portando degli esempi: “Da Internet – ha sottolineato – possiamo vedere ciò che la stampa ufficiale non dice: Al Jazeera ci informa quest’anno, nel ventesimo anno dall’invasione statunitense in Iraq, che la marina americana ha nominato una sua nave Fallujah, cioè con il nome di una delle peggiori stragi che sono state fatte dagli statunitensi, non risparmiando armi al fosforo e all’uranio impoverito, le cui conseguenze si pagano ancora adesso. Questo non viene raccontato, come non viene raccontato, su un altro fronte, che il Nord Stream, che garantiva i collegamenti energetici tra l’Europa e l’area orientale, era proprio la principale fonte economica per la Russia. Siamo davvero sicuri che a manomettere la principale fonte di approvvigionamento del Paese siano stati proprio i russi?”. Il dibattito, pero’, si lega al lavoro.
Dalla staffilata di ‘Sorry, we missed you’: “Qualcuno – chiede il ‘padrone’ al lavoratore – durante le tue consegne, ti ha mai chiesto come stai? Perché non interessa a nessuno: ai clienti interessano il prezzo e i tempi di consegna dell’oggetto che hanno acquistato, nient’altro”. Un manifesto di questo tempo di ‘schiavisti’ inconsapevoli, quello dei rider e dei lavori a cottimo. In un sistema in cui basta piegare le parole per tentare di sovvertire la realtà, Loach e Chomsky si cimentano, nell’impegno linguistico volto a individuare le parole-trappola di questo secolo. Tre, secondo il regista britannico: “Stabilità. Vuol dire sapersi adattare, ma anche che il datore di lavoro ti può far lavorare 4 ore oggi e mai la settimana prossima. Poi: flessibilità. Vuol dire che puoi lavorare da casa, cioè di fatto sempre. Modernizzazione: essere moderni vuol dire perdere tutti i diritti sul lavoro. Il datore di lavoro spende di meno per la mano d’opera, ha tutto da guadagnare: ne abbiamo un esempio nelle ferrovie, dove c’e’ stato in Gran Bretagna un grande sciopero. I ferrovieri vengono accusati di essere contrari alla modernizzazione, ma questo significa chiudere i botteghini. La lotta politica è quella che modifica a fondo la struttura: è questa la grande sfida che si pone. Come possiamo fare questo passaggio dalle richieste industriali a quelle politiche? Dobbiamo, perché se queste istanze non diventano politiche continueremo a lottare”.
Anche per il linguista Noam Chomsky le parole che hanno negato la realtà dei lavoratori iniziano da flessibilità. “La flessibilità è l’economia del precariato, in cui le persone non sanno se domani verranno chiamate o resteranno a casa. È di nuovo una di quelle circostanze in cui le persone sperano in un orario regolare e in entrate fisse. Questa è l’aspirazione oggi: essere servi di un padrone per tutta la tua vita di veglia. Questo vuol dire avere un lavoro oggi: che qualcuno ti dica quello che puoi o non puoi fare. Se sei un autista che fa le consegne non ti puoi fermare neanche per un caffè. Fino a poco tempo fa questo tipo di lavoro era considerato l’attacco più estremo alla dignità umana. Nel secolo scorso i sindacati non lo avrebbero mai accettato”.
Non mancano le digressioni storiche, anche in riferimento alla storia del Paese che ospita il dibattito: “In Italia – ha osservato Chomsky – così come in Inghilterra, la Prima Guerra Mondiale ha portato alla consapevolezza che il mondo capitalista fosse intollerabile: sono nate le cooperative in Italia e il socialismo in Inghilterra. Lo slogan sindacale era: ‘niente capi’. Questo sistema è stato schiacciato dalla violenza: il fascismo in Italia e l’attacco ai sindacati negli Stati Uniti sotto la bandiera liberista hanno prodotto la convinzione che a occuparsi di economia dovessero essere ‘altri’, che economia e politica fossero separate. È stata una grande battaglia, la vera lotta di classe, poi tutto il potere è stato messo nelle mani di un capitale che ha preteso di non dover rispondere a nessuno. Ora il trasferimento della ricchezza è esasperato, passando dalla classe operaia a quella media, fino alle mani dell’1% dei ricchi che detengono da soli 50 trilioni di dollari. La nuova guerra di classe parte da qui, e con questo si ritorna alla flessibilità: ora la classe operaia si preoccupa di avere un lavoro regolare, di sottomettersi per tutta la vita a un padrone. Le lotte di classe lo avrebbero considerato intollerabile, ma è la grande conquista della propaganda. Nessuno ne parla, non ci devi neanche pensare, ma potrebbe esplodere da un momento all’altro”.
E il tempo libero? È politica, anche quello. “Un diritto. Di più: un tema politico”, secondo Ken Loach. “Ricordiamoci – ha proseguito – lo slogan di una lotta americana: vogliamo il pane ma anche le rose (titolo di un suo film, ndr.). Vogliamo il lavoro ma combattiamo anche per avere l’arte, lo sport, lo svago: questa lotta ha portato alla giornata di 8 ore che non esiste più, purtroppo. Biblioteche e luoghi d’arte ora funzionano solo se sono sponsorizzate dalle aziende, dalle banche:, il messaggio è che la cultura non è un diritto, ma viene fornita dalla generosità di coloro che ci danno lavoro, e che sovvenzionano. L’ideologia che il capitalismo sia una forza della natura. La libertà è solo quella di essere sfruttati, o di avere più libertà se hai tanti soldi. Ci persuadono che bisogna accettarla. Negli ultimi 50 anni abbiamo perso pezzo per pezzo le conquiste fatte. Come si trova una via per superare la frammentazione? Dobbiamo avere un piano, un progetto politico. Cosa serve? Agitazione, istruzione, organizzazione: senza l’organizzazione non possiamo vincere”.
Quello della lotta per gli spazi culturali è il tema fondante che ha portato alla realizzazione dell’evento, ha spiegato Carocci, che sottolinea come l’incontro, saltato dopo un primo tentativo a settembre, sia stato recuperato oggi per celebrare una battaglia della Fondazione: quella per la salvaguardia dello storico cinema di Trastevere. Battaglia vinta grazia all’investimento di un solo capitale: “il tempo dei nostri vent’anni”. “Sì – ha risposto Loach salutando con orgoglio britannico – ma siamo cosi’ pieni di film americani… Perché intitolare la Fondazione all’America? Non vi andava bene De Sica?” ha concluso.