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AGI – “La Mesopotamia è il sogno per chi studia archeologia del Vicino oriente antico. E la paura di un soggiorno in Iraq svanisce di fronte alla possibiltà di realizzare di conquistare un sogno”:  giovane studiosa dell’Università di Catania, Alice Mendola, che insieme al team dell’archeologo Nicola Laneri ha scoperto il muro di Hammurabi a Tell Muhammad (Baghdad) riassume con parole molto semplici il senso di una passione e di una missione di studio e scavo delle radici dell’umanità, descritta nel corso degli OpenLab “I pionieri della cultura” promossi dalla Fondazione Federico II a Palermo a Palazzo Reale.

La missione archeologica che scava a Tell Muhammad è una delle 19 italiane presenti in Iraq e ha portato alla luce una cinta muraria monumentale di quasi 6 metri di spessore e una porta monumentale edificata in mattoni crudi all’epoca di Hammurabi di Babilonia (risalenti al periodo 1792-1750 a.C.).  “Quando ero ragazzo – ricorda Laneri – andai a Roma e incontrai Paolo Matthiae: da quel momento mi sono innamorato del Vicino Oriente. Ho scavato in Siria, in Turchia, in Azerbaigian e ora in Mesopotamia. E’ stato difficile convincere i ragazzi a venire a Baghdad, ma per adesso . prosegue – ho trovato cinque baldi giovani che hanno soppportato le difficolta’ degli scavi a Baghdad e soprattutto un direttore che pretendeva molto”. Il team, oltre a Mendola, è composto da Rachele Mammana, Vittorio Azzaro, Giulia La Causa, Vittoria Cardini, Rawa Ali Salman, Mais Fawzi Jihad, Mohammad Muwaffaq Ahmad.

Il sito di  Tell Muhammad potrebbe contenere la chiave di uno dei “misteri” dell’archeologia mesopotamica: la collocazione della capitale del primo impero nato tra due fiumi, ovvero l’Akkad di re Sargon (2335-2280 a.C.) “La continuazione degli scavi forse ci darà una risposta”, ha detto l’ambasciatore italiano in Iraq, Maurizio Greganti. Sul tema, Laneri non si sbilancia e resta prudente.

L’Iraq, ha aggiunto Greganti, è “assetato di cultura, con radici antichissime e una vasta produzione artistico-letteraria. Il Paese cerca di recuperare la primazia che per secoli aveva visto Baghdad al centro della cultura mediorientale”. L’archeologia, che tra l’altro e’ una passione del diplomatico, e’ “il pilastro centrale dell’interscambio culturale tra l’Italia e l’Iraq. Gli archeologi italiani sono parte integrante e integrata nelle comunita’ locali, presenti dagli anni Sessanta ed è una presenza che non si è mai interrotta, neanche nei momenti piu’ difficili di questo Paese. L’Iraq ospita il numero maggiore di missioni archeologiche italiane, che si occupano di tutti i periodi della storia millenaria del Paese”.

Quanto alla sicurezza dei siti archeologici, essa, ha spiegato l’ambasciatore, non è più minacciata, grazie alle autorità irachene e alla stessa presenza delle missioni archeologiche. “Il ruolo dell’archeologo – ha sottolineato – è mutato, e gli scavi hanno un impatto determinante sullo sviluppo del Paese: i nostri archeologi tra i migliori al mondo, puntano da sempre sulle capacità e il trasferimento delle competenze alle comunità locali. E le competenze trasferite facilitano la crescita di un settore produttivo”.

L’importanza delle missioni italiane nelle relazioni diplomatiche tra Italia e Iraq è emersa anche dalle parole di Laith Majid Hussein, direttore dell’Iraqi State Board of Antiquities and Heritage (Sbah), che ha sottolineato, tra l’altro, il lavoro che gli italiani stanno svolgendo nella riorganizzazione del museo archeologico di Baghdad, nella messa in opera dell’ala sumerica. “Siamo molto contenti delle collaborazioni sul campo – ha aggiunto – negli scavi che si stanno svolgendo. Siamo molto soddisfatti del lavoro degli archeologi italiani”.

“La cultura – ha spiegato Patrizia Monterosso, che guida la Fondazione Federico II – e’ circolazione, dialogo, ponte: oggi ancora piu’ di ieri con le guerre che vedono nella cultura i simboli da abbattere, come sta accadendo anche in Ucraina e in altre parti del mondo. Come ieri a Palmira, quando abbiamo assistito alla morte di un organismo vivente della Storia, che riguarda tutti noi. Il nostro piccolo grande contributo e’ creare elementi di riflessione per un dibattito attraverso chi della cultura preserva le radici forti o attraverso coloro, saggisti o artisti, che propongono una nuova prospettiva della realta’. E’ un campo aperto, quello dei ‘Pionieri della cultura’, che lanciamo oggi con l’archeologia”.

E’ l’antica Mesopotamia lo ‘scenario’ in cui si colloca la prima avventura dei ‘pionieri’, ma, a qualche giorno dalla cattura di Matteo Messina Denaro, la cui latitanza ha pesato come una cupa incompiuta nell’anima dei siciliani, il pensiero si sposta da Baghdad a Palermo, segnata anch’essa per anni da una guerra e ancora oggi alla ricerca faticosa di segni di rinascita. “La cultura – ha sottolineato Monterosso – così come la interpretiamo noi oggi nella Fondazione Federico II – tiene ben presente un concetto di Aritostele: la bellezza coincide con l’Etica”.

“La Bellezza – aggiunge – va preservata e va tenuta alta e forte rispetto a un mondo negativo, che ha segnato il nostro passato in Sicilia e che le forze dell’ordine e gli organi inquirenti ci ricordano come possa insorgere e nutrirsi di nuova linfa. Preservare, ad esempio, questo Palazzo Reale che nel Medioevo ha lanciato un messaggio ante litteram di civiltà e di dialogo, che si legge nella Cappella Palatina, ci permette di creare un muro di resilienza rispetto a quel mondo negativo che potrebbe tornare a segnare il nostro territorio. Ecco: la cultura e’ un anticorpo contro quel mondo“. 

AGI – “Madeline McIntosh, una delle figure più potenti dell’editoria di libri americana, si è dimessa da amministratore delegato di Penguin Random House” America. Ad annunciarlo è il New York Times secondo cui il più grande editore di libri del paese sta vivendo “un momento di grande turbolenza”, specie dopo che Markus Dohle, l’amministratore delegato di Penguin Random House e anche il capo della McIntosh, s’è dimesso dal suo incarico a dicembre, forse anche in seguito alla mancata acquisizione della Simon & Schuster, grande casa editrice rivale, dopo che il governo ha eccepito sul rischio di posizione dominante nel settore rivolgendosi all’Antitrust.

Però il fallimento dell’accordo “è costato a Penguin Random House una penale di 200 milioni di dollari”, segnala il Times, oltre a un’enorme serie di spese legali mentre proprio Dohle era il supervisore dell’acquisizione.

Madeline McIntosh era a capo di Penguin Random House US dal 2018 e in precedenza ha ricoperto diversi ruoli presso l’azienda, in cui è entrata per la prima volta quasi 30 anni fa. Ha anche lavorato brevemente in Amazon. McIntosh ha tuttavia negato che il fallimento della fusione abbia influenzato la sua decisione di dimettersi, ma che dopo quella infelice conclusione s’è sentita pronta per intraprendere una nuova fase della carriera: “È davvero un buon punto di svolta per l’azienda così come per me“, ha dichiarato, e “con questa prova alle spalle, una nuova leadership in arrivo, è un buon momento per tutti noi per poterci orientare meglio con uno sguardo al futuro”.

In ogni caso, sottolinea il quotidiano, la società aveva già rivelato “d’aver perso quote di mercato negli ultimi anni” e sperava che “l’acquisizione di Simon & Schuster potesse aiutare a recuperare parte del terreno perduto. Sfumato l’affare, Penguin Random House dovrà ora trovare un altro modo per crescere”.

L’azienda rimane una grande potenza nel settore dei libri, pubblica acclamati romanzieri come Kazuo Ishiguro e Colson Whitehead, autori commerciali di successo come Dan Brown e EL James, e classici per bambini come Eric Carle e Dr. Seuss. E questo mese il libro di memorie del principe Harry, “Spare”, ha venduto più di 1,43 milioni di copie negli Usa, in Canada e in Gran Bretagna nel suo primo giorno, prevendite incluse.

”Ma poco dopo l’uscita del libro, un altro dirigente di lunga data ha detto che avrebbe lasciato l’azienda. Gina Centrello, presidente di Random House, la divisione che ha pubblicato ‘Spare’, ha annunciato che si sarebbe ritirata”, ha puntualizzato il Times. C’è una qualche relazione? Quanto a McIntosh, negli anni “ha supervisionato alcuni cambiamenti impopolari, tra cui la fusione di divisioni editoriali e la chiusura di marchi, cacciando alcuni influenti editori noti come coloro che dettano le mode”.

 

AGI – Il Musee d’Orsay annette alla sua collezione espositiva un quadro che viene considerato un “tesoro nazionale” e il cui valore viene stimato in 43 milioni di euro. Si tratta del particolare “Parte della barca” del pittore Gustave Caillebotte, vissuto tra il 1848 e il 1894, la cui fattura è datata 1877-1878. Si tratta di un’immagine e di un’inquadratura “forte e radicale”, secondo Le Monde, che ritrae un uomo vestito elegantemente da cittadino, con cilindro in testa, la barba sul viso, in maniche di camicia, panciotto e papillon, che rema lungo il fiume Yerres, a sud-est di Parigi, in una sequenza che “porta lo spettatore direttamente a bordo dell’imbarcazione”. “Il trattamento dei giochi d’acqua è impressionista, ma la meticolosità dei dettagli più vicina al realismo”, annota il giornale.

A proposito di questo dipinto, Didier Rykner, il fondatore della Tribune de l’art , ha scritto nel 2014 che “quel che è certo è questo quadro non dovrebbe in nessun caso lasciare la Francia se un giorno venisse venduto”. Giudizio che sembra essere stato esaudito proprio con l’acquisizione da parte del d’Orsay, avvenuta però solo grazie alla sponsorizzazione del gruppo Lvmh, leader mondiale dei prodotti di qualità nel settore del lusso, secondo le indiscrezioni poi confermate a Le Monde da parte del ministero della Cultura francese.

Per il Museo Parigino di Rue de la Legion d’Honneur 1, celebre per i capolavori dell’impressionismo, si tratta di un vero colpo di mano se si calcola che il suo budget di acquisizione non può per legge superare i 3 milioni di euro e che solo i musei americani e quelli sauditi possono permettersi opere del calibro della “Parte della barca”, che ha una forza fotografica e cinematografica assolutamente inedita per l’epoca, ciò che fa del suo autore, Guastave Caillebotte, un caso a parte distinguendolo tra tutti gli altri geni dell’impressionismo.

AGI – Acquistato nel 2002 per appena 600 dollari, è stato rivenduto per 3,1 milioni in un’asta da Sotheby’s: è il singolare destino di un bozzetto di “San Gerolamo” di Anton van Dyck, battuto giovedì scorso alla “Masters Week” newyorchese. L’opera dell’artista fiammingo del ‘600 era stata acquistata in un’asta da un collezionista americano, Albert B. Roberts, dopo il ritrovamento in un fienile di Kinderhook, nello Stato di New York. Roberts è un appassionato di opere ‘perdute’, al punto che descrive la sua collezione come “un orfanotrofio per l’arte perduta e abbandonata”.

Nel 2019 la storica dell’arte Susan J. Barnes ha pubblicato un articolo in cui ha riconosciuto il bozzetto come uno schizzo a olio di Van Dyck databile intorno al 1618 “sorprendentemente ben conservato” che “ci aiuta a capire di più sul metodo dell’artista da giovane”.

“Studio per San Gerolamo” raffigura un uomo anziano nudo ed è uno degli unici due grandi studi realizzati su modelli dal vivo dall’artista fiammingo. Questo fu probabilmente eseguito quando il giovane Van Dyck lavorava al fianco di Peter Paul Rubens ad Anversa. Il disegno era stato pensato come propedeutico alla realizzazione del dipinto dedicata a San Girolamo, oggi conservato Museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam.

Una parte del ricavato andrà alla fondazione Albert B. Roberts che aiuta gli artisti e altri enti di beneficenza. La vendita faceva parte dell’asta “Master Paintings Part I” con opere del Bronzino (“Ritratto di giovane uomo con penna d’oca e foglio di carta” del Bronzino battuto a 10,7 milioni di dollari), di Tiziano (“Ecce Homo” venduto a 2,1 milioni) e di Melchior de Hondecoeter.

L’attuale record in asta per un Van Dyck è di 13,5 milioni di dollari, fatto segnare nel 2009 per un autoritratto

Sebbene la muscolatura asciutta dell’uomo raffigurato nello “Studio per San Gerolamo” sia basata su un modello dal vivo, il tipo di corpo ha le sue radici sia nell’antichità che nell’opera di Rubens, con cui il giovane Van Dyck lavorò a stretto contatto in quegli anni. La posa deriva dal cosiddetto Pescatore Borghese, marmo nero antico ora al Louvre. Al tempo di Rubens e Van Dyck, si pensava che la statua rappresentasse l’antico filosofo Seneca, mostrato morente per le coltellate autoinflitte e in piedi in una bacinella del proprio sangue.

In realtà, la statua è una copia romana da un originale ellenistico, che non aveva gambe sotto la metà del polpaccio quando fu scoperta nel XVI secolo e rappresenta probabilmente un pescatore in piedi su una spiaggia. Ad ogni modo, il marmo affascinò Rubens: realizzò diversi disegni successivi e la sua Morte di Seneca è in gran parte basata sui suoi studi di questa figura antica.

AGI – È stato presentato, in occasione del XXVII Seminario di Venezia organizzato dall’Ambasciata d’Italia a Londra, “In Venetia Hortus Redemptoris”: il nuovo progetto di Venice Gardens Foundation volto al restauro, conservazione, gestione e apertura ai visitatori del Compendio del Giardino – l’Orto, le Cappelle di meditazione, le Antiche Officine, la Serra e l’Apiario – del Convento della Chiesa palladiana del Santissimo Redentore, luogo di alto valore storico, simbolico e spirituale, caro ai veneziani e al mondo.

Un grande Progetto Città di rilevanza internazionale che conferisce a tali spazi un ruolo di riferimento significativo, condiviso con l’Ordine dei Frati Minori Cappuccini e con la Santa Sede che lo rende un progetto modello di reciproco scambio di visioni e sapere. Presieduta da Adele Re Rebaudengo, Venice Gardens Foundation promuove il suo impegno dal 2014 nel restauro e nella conservazione di parchi, giardini e beni d’interesse storico e culturale, attuando progetti rivolti alla tutela del patrimonio botanico e artistico.

In linea con lo spirito di mecenatismo che ne contraddistingue da sempre l’operato e dopo il restauro e riapertura al pubblico nel 2019 dei Giardini Reali di San Marco a Venezia – grazie a un complesso intervento di oltre 6 milioni di euro (tra i numerosi premi vinti dai Giardini Reali restaurati, anche “Il Parco più bello d’Italia 2022) – Venice Gardens Foundation intraprende così una nuova sfida: la rinascita di un luogo di profonda valenza simbolica e spirituale, il Compendio del Redentore, mai aperto al pubblico, attraverso un disegno durevole nel tempo che, nel pieno rispetto dei valori cappuccini, riconduce all’importante tradizione dei giardini e degli orti conventuali, alla loro ricchezza e capacità di sperimentazione, ma che al contempo guarda al futuro con consapevole e responsabile impegno.

“È un onore per Venice Gardens Foundation poter concorrere a tramandare un Bene di così alto valore storico, simbolico e spirituale, attraverso il suo restauro e conservazione nel tempo – dichiara Adele Re Rebaudengo – Un progetto reso possibile grazie sia alle affinità tra il carisma Cappuccino e la missione della Fondazione sia al proficuo confronto con i Frati del Convento, che ci ha portati, dopo due anni, a iniziare il cantiere dei lavori il 30 gennaio. Un percorso – prosegue – che ha coinvolto tanti professionisti, istituzioni e generosi mecenati che partecipano con entusiasmo a questo nostro progetto, condividendone la visione e i principi: il valore del restauro, del rispetto e della protezione della natura in armonioso accordo. Un progetto attento al passato, ma rivolto anche al futuro con responsabile impegno, fedele al senso di responsabilità, sostenibilità, autosufficienza e al riconoscimento del ruolo fondante che questi luoghi ricoprono in un contesto sociale e comunitario attraverso la loro apertura che avverrà nel rispetto dello spirito del luogo”.

Sostenibilità e autosufficienza sono i principi-chiave che animano il progetto il cui restauro botanico è stato affidato a Paolo Pejrone, giardiniere e architetto paesaggista di fama internazionale, allievo di Russell Page e Roberto Burle Marx, autore, tra i tanti lavori, anche del ripristino dell’Orto di Santa Croce in Gerusalemme a Roma e, su incarico della Fondazione, i Giardini Reali di Venezia a San Marco. Il progetto di restauro architettonico è a cura di Alessandra Raso, architetto impegnato in restauri di importanti complessi storico-artistici e progetti per istituzioni culturali, tra cui la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano.

“Un orto ben coltivato può esse un generoso e versatile compagno di lavoro (e di avventure e di vita); quello dell’orto è un affascinante e lungo viaggio a tappe fatto di partenze e di arrivi e non solo. La diversità e la ricchezza sono il felice programma veloce d’estate e lento d’inverno”, afferma Pejrone. Realizzato dalla Serenissima e da Papa Gregorio XIII come simbolo di gratitudine e rinascita in seguito alla peste del 1575-1577, il Complesso del Redentore, che si estende per circa un ettaro, dal canale della Giudecca fino alla Laguna, si presenta segnato in maniera significativa dalla “acqua granda” del novembre 2019, una marea eccezionale che, raggiungendo i 187 centimetri, ha sommerso e devastato la città di Venezia.

Al fine d’impedire che andassero perse le tracce di una testimonianza di così importante rilevanza paesaggistica, culturale e religiosa, nel 2021 il Compendio Monumentale è stato affidato a Venice Gardens Foundation dalla Curia Provinciale dei Frati Minori Cappuccini, con l’autorizzazione della Santa Sede e della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio, al fine di consentire il recupero del luogo e la sua successiva riapertura, con ingresso gratuito ai veneziani, prevista nel 2024 al termine dei lavori. Il restauro botanico – che ha ottenuto il finanziamento dell’Unione Europea NextGenerationEU con un contributo di 2 milioni di euro (Pnrr ministero della Cultura Restauro e valorizzazione di parchi e giardini storici) – vede nel progetto dell’architetto Paolo Pejrone oltre 2.500 alberi e piante previste a dimora.

I visitatori potranno trovare accoglienza e svago passeggiando fra gli ulivi, il frutteto i cipressi, la vasca delle ninfee (omaggio alla fascinazione per l’Oriente che da sempre anima la Serenissima), i 400 metri di pergolati in legno di castagno, tramandati negli orti veneziani e ricoperti da piante di uva, rose, glicini e bignonie, nel giardino dei pitosfori e rose affacciato sulla Laguna, nell’antica cappella di meditazione e nella biblioteca accanto al ristoro. Grande attenzione sarà dedicata al benessere delle api, con la presenza di arnie e con lo svolgimento dell’attività di smielatura in loco. Un’iniziativa di mecenatismo, volta a restituire a un luogo unico al mondo bellezza, tradizione e visione futura nonché l’opportuno riconoscimento del ruolo fondante che orti e giardini ricoprono in un contesto sociale e comunitario favorendo un proficuo accordo fra spirito e natura. 

AGI – Un gesso di Antonio Canova è stato battuto all’asta al prezzo record di un milione e 228mila euro, cifra sei volte superiore alla base che era di        200-300 mila euro. L’opera ‘Amore e Psiche stanti‘ faceva parte della collezione di opere d’arte e arredi di Veneto Banca messa insieme dall’ex ad Vincenzo Consoli e che i liquidatori hanno dovuto mettere all’asta dopo il crac dell’istituto trevigiano.

Comprata nel 2004, la statua in gesso accoglieva i visitatori nel centro direzionale: ora i proventi della vendita andranno ai creditori privilegiati della Banca. Il prezzo finale rappresenta il record mondiale per un gesso di Canova e il quarto risultato più importante in assoluto per una sua scultura (i primi tre sono tutti relativi a marmi: Sotheby’s Londra 5 milioni nel 2018, Christie’s Parigi 3,7 milioni nel 2017 e Hotel de Ventes Monte-Carlo 2 milioni nel 2019).

Superata persino la Danzatrice in marmo, aggiudicata a Vienna da Dorotheum nel 2019 a un milione e 148mila euro. La cifra di un milione e 228 mila euro doppia il precedente record d’asta italiano per un’opera di Canova, i 602.000 euro del gesso “Gruppo Venere e Adone”, venduto nel 1999.

Il risultato è ancora più eccezionale tenuto conto che il gesso, eseguito sotto controllo dell’artista veneto di cui ricorre il bicentenario della morte, era stato vincolato dallo Stato per la sua eccezionale importanza culturale e quindi non poteva essere acquistato dall’estero.

Per trasparenza, l’opera è stata presentata come ‘di invenzione’, frutto cioè della collaborazione del genio veneto (inventore) con i gessini Malpieri e Torrenti (esecutori dell’opera sotto la sua direzione).

Il gesso dello scultore di Possagno, nel Trevigiano, risale al primo quarto del XIX secolo: le misure sono 149×67,5×62 cm (ma oltre due metri con l’originale basamento che la accompagna da quando era esposta nello studio di Canova). L’opera in marmo – da cui questo gesso è tratto – fu realizzata da Canova nel 1796-1797 e in seguito venne acquistata da Gioacchino Murat, per entrare nelle collezioni del Louvre.

Canova chiamava questo tipo di gessi “da forma buona”, ossia cavati dal marmo, e li faceva realizzare a scopo promozionale per le sue opere. La vendita è stata curata dalla casa d’aste romana Bonino, che si è già occupata della vendita delle opere d’arte e degli arredi della controllata di Veneto Banca in Romania. 

AGI – Scrive il critico gastronomico del New York Times che da quando ha letto che il Noma si trasformerà da ristorante esclusivo a laboratorio di sperimentazione alimentare, non ha potuto fare a meno di “pensare a Namrata Hegde, una stagista non retribuita che ha lavorato nella cucina dello chef René Redzepi per tre mesi, producendo coleotteri alla frutta”. Ogni giorno, infatti, Hedge ha steso la marmellata, l’ha lasciata solidificare e l’ha scolpita in varie forme usando gli stampini. Poi ha assemblato quelle forme per formare uno scarabeo quasi reale: una creatura lucida e tridimensionale fatta di frutta. Il più delle volte, prima di cena, assemblava anche 120 esemplari perfetti e li appuntava ciascuno in una scatola di vetro, pronta per essere servita ai commensali.

Commenta il critico: “In passato, il lavoro della signora Hegde avrebbe potuto essere addirittura ignorato, ma nel mezzo di quello che sembrava un sentimento mutevole contro il culto della cucina raffinata, è diventato invece un significativo dettaglio” perché mostrava “la fatica poco affascinante delle cucine dei ristoranti di fascia alta e per diventare più come l’ennesima giornata noiosa in una fabbrica, l’usuale ripetitivo turno solitario alla catena di montaggio”. Tejal Rao, il critico, sostiene che nell’idea comune forse questa visione non corrisponde esattamente a ciò che la gente immagina quando pensa alla cucina d’alto livello, eppure – annota – “nel mondo della cucina competitiva e raffinata – diciamo, circa 100 ristoranti in tutto il mondo – c’è un coleottero della frutta in ogni menu”. Ovvero, “non un vero e proprio scarafaggio della frutta, ma una serie di piatti da capogiro, guidati dalla tecnica e ad alta intensità di lavoro. Piatti da trofeo”.

Esempi simili? Il caviale di melone di El Bulli sulla costa mediterranea della Spagna, oppure la frutta dalla carne lucida al Fat Duck, nella campagna inglese, e ancora l’uovo rotto impeccabile a Mugaritz, nei Paesi Baschi. Chiosa il Times: “Stagione dopo stagione, anno dopo anno di questo tipo di lavoro e di dedizione, ci si aspetta che le cucine che operano a un certo livello superino se stesse. Per ricercare e sviluppare piatti ancora più selvaggi e interessanti, per perfezionare presentazioni più eccentriche e insolite, per raggiungere ingredienti ancora più preziosi e difficili da preparare, per migliorare il proprio servizio e trovare nuovi modi per entusiasmare i Vip”. Tuttavia, questo tipo di lavoro e di dedizione in cucina “richiede un’enorme quantità di lavoro” con più persone al seguito, “disposte a fare il duro lavoro e tanto più necessario quanto più elaborata è la visione di una cucina raffinata e al pari di uno studio d’arte su larga scala”.

Secondo il giornale, poche istituzioni come i ristoranti e le loro particolari cucine “hanno avuto così tanta attenzione e attirato denaro in questa particolare settore come l’elenco annuale dei 50 migliori ristoranti al mondo”. Eppure, da quando è iniziata nel 2002, la lista 50 Best è stata una guida non ufficiale per il business.

Chiosa in critico del Times, in conclusione: “Ma ora temo che questo tipo di cucina raffinata sia stata davvero mantenuta per offrire continuamente sempre di più, nonostante il costo personale di chi lo deve realizzare”. Il risultato? Che più di un decennio dopo e dopo aver trascorso il maggior numero di anni in cima alla lista e aver guadagnato tre stelle Michelin, lo chef Redzepi ha definito “insostenibile” il vecchio modello di cucina raffinata “e ha lasciato molti a chiedersi la stessa cosa del suo ristorante”.

AGI – La performer Josephine Baker, cantante e danzatrice americana, icona dei diritti civili e affezionata della maison Dior è tornata a rivivere nel tempio della moda nella sfilata parigina della stilista Maria Grazia Chiuri durante la settimana dedicata alle nuove collezioni primavera/estate 2023.

Baker, che è nata nel Missouri ma ha vissuto gran parte della sua vita in Francia, è stata una musa ispiratrice di Christian Dior e anche una delle sue migliori clienti, avendo speso almeno “250.000 dollari in un guardaroba di haute couture”, ricorda il quotidiano inglese The Guardian. L’ultima sfilata Dior haute couture, è stata un vero e proprio un omaggio ai riccioli e alle frange sinuose, sartoria in velluto e lamé di seta stropicciata della cantante e danzatrice che ha riportato la Baker al posto che le spetta nella storia di Dior. Lo spettacolo si è poi rivelato un contraltare all’immagine fortemente feticizzata di un famoso quanto famigerato costume delle Folies Bergère – una sfilza di banane e poco altro – che finì l’immagine infine della Baker.

Il giornale ricorda anche che Baker nel 2021 è diventata la prima donna di colore ad essere inserita nel pantheon tra le figure illustri della storia francese, riconosciuta per il suo lavoro con la resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale, e “ciò la pone al centro della storia di Dior”, ha precisato la stilista Maria Grazia Chiuri. Lei stessa ha anche riconosciuto, per la prima volta, come Baker fosse stata cancellata dal suo legittimo posto nella storia e nell’iconografia della maison della moda quando la stilista ha ricreato uno dei look originali di Baker per Dior: ovvero, un abito strutturato e guanti abbinati, ma con il mantello di pelliccia sostituito con il tulle per riflettere la sensibilità moderna.

Infine, durante i suoi anni parigini, Baker ha investito molto in un guardaroba di abiti riccamente abbelliti e completi elegantemente sartoriali, creando un’immagine che secondo lei rifletteva la sua legittima posizione di grande dama della cultura. Ha acquistato da designer dell’élite, tra cui Madeleine Vionnet e Pierre Balmain, ed è diventata anche un’amica personale di Christian Dior, fotografata in prima fila a una sua sfilata nel 1959 accanto a Juliette Greco. E nel corso degli anni ’60 ha indossato abiti Dior per le apparizioni alle proteste per i diritti civili che ha sostenuto negli Stati Uniti, il suo paese d’origine.

Ovviamente, la sfilata è stata anche l’occasione per domandarsi cosa andrà di moda la prossima stagione, e la risooista inevitabilmente è stata, secondo il Guardian, “ruggenti abiti anni ’20 con frange di seta, abiti da cocktail scivolosi con scollo a cappuccio, sandali da ballo in velluto con punta aperta, capelli ondulati in gel e riccioli a bacio sembrano pronti per il pantheon della moda”. In definitiva, un ritorno in grande stile agli anni di Josephine Baker. Più che un omaggio, una celebrazione.

AGI – Tornano in Italia circa 60 reperti archeologici trafugati illecitamente, compresi tra il settimo e il primo secolo dopo Cristo, trafugati da trafficanti internazionali e recuperati negli Stati Uniti grazie a un’operazione congiunta tra i Carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale e il New York County District attorney’s office.

Il valore complessivo è di 20 milioni di dollari. “Quello che avviene oggi è merito del nucleo tutela e patrimonio dei carabinieri, della magistratura italiana e della collaborazione efficace con gli Stati Uniti – commenta il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, presentando le opere presso la sala Spadolini del ministero”.

Il recupero del patrimonio culturale – ha sottolineato Sangiuliano – è uno dei doveri del mio Ministero, che intendo portare avanti con determinazione. Vedremo dove collocare queste opere, possiamo pensare a una mostra. Ci sono altre attività di recupero in corso ma sulle quali per motivi di riservatezza non posso aggiungere dettagli”.

Tra le opere rimpatriate, l’affresco pompeiano ‘Ercole fanciullo con serpentè del I sec. d.C. Una testa marmorea di Atena e una kylix a sfondo bianco. 
 

AGI – Ultimo a Sanremo rappresenta, perlomeno sulla carta, il più importante dei colpi messi a segno da Amadeus per il suo quarto festival, perché al momento il cantautore erede della grande scuola romana è uno degli artisti più attrattivi e vendibili del panorama musicale italiano.

Niccolò Moriconi, così all’anagrafe, ha già venduto oltre 250mila biglietti per il tour negli stadi che lo aspetta questa estate, un fenomeno di dimensioni gigantesche, in quanto a certificazioni della FIMI, potrebbe ridipingere casa d’oro e di platino con tutti quelli che si è portato a casa; ma soprattutto Ultimo ha posto le basi per restare, per assumere quasi un ruolo nella vita di chi lo ascolta, specie giovanissimi, per i quali la sua musica è particolarmente significativa. 

Perché Sanremo in un momento in cui tu, di fatto, sei uno dei pochissimi in Italia che non avrebbe bisogno della spinta del Festival?

Proprio per questo motivo, perché è un momento della mia carriera in cui sento che devo scrivere la mia storia discografica, presentare “Alba” a Sanremo significa tante cose. Innanzitutto presentare un disco con quella luce lì è un regalo che posso fare alla mia musica, nel senso che lo faccio sentire a più persone possibili, e poi per chiudere un cerchio con Sanremo in modo diverso, vado semplicemente per presentare una mia canzone e per vedere quella canzone sotto una luce che, secondo me, merita.

Cos’ha “Alba” di particolare?

Ho scritto “Alba”, che poi è il pezzo che mi ha fatto scrivere tutto il disco, e ho avito la sensazione, magari solo mia, che fosse una cosa diversa dalle altre che avevo scritto, non ha una struttura strofa-ritornello-strofa-ritornello, non ha un ritornello in realtà, ha un crescendo, e l’idea di presentarla lì è venuta per chiudere un cerchio e far capire che sono anche un’altra cosa rispetto a quello che fino ad oggi ho fatto e che sarò altre cose. Normale che io sia cresciuto artisticamente dopo quattro anni…

Senti l’esigenza di chiudere il cerchio a causa di quella brutta scena in sala stampa quando sei arrivato secondo dietro Mahmood?

Vuoi prenderti una sorta di rivincita? No, no, non vado lì per una rivincita, poi si vince in diversi modi, sia nella vita che nella musica; credo che il palco di Sanremo non serva per non essere dimenticato ma per presentare una propria canzone nella quale si crede e io infatti vado lì per partecipare. Per me quel palco è importante, io gli sono riconoscente e ci porterò “Alba”, che rappresenta una mia crescita artistica, la risposta è già nel fatto che ci vado.

La grandezza del tuo successo spesso ci fa dimenticare che sei giovane e sulle scene da relativamente pochissimo tempo…senti come esigenza il fatto di evolverti artisticamente?

Certo, ma ancor di più sento l’esigenza di mettermi in gioco, non è che se uno fa gli stadi poi non può fare Sanremo, io faccio gli stadi ma quello è un percorso live che c’è, poi discograficamente sento che ancora devo scrivere la mia storia, devo ancora creare il mio repertorio, su cui poi mi potrò sedere tra X anni, ancora non me lo posso permettere.

Tra dieci/venti anni, tu sarai ancora giovane, in fase di maturazione, ti chiedi mai che genere di artista vuoi diventare?

Si e faccio delle cose oggi in modo tale che questo possa avvenire, per me è importante riuscire a durare nel tempo, perché un conto è arrivare e un conto è riuscire a mantenersi. E quello lo fai con le canzoni, per questo dico che è importante oggi buttarsi e scrivere la propria storia, perché questo lavoro poi te lo ritrovi domani.

Io voglio essere un artista che può piacere o no, com’è giusto che sia, ma che ha la propria storia, di canzoni, di concerti, ed ha creduto nelle proprie canzoni. Tant’è che è una scelta coraggiosa quella di partecipare e portare un pezzo come “Alba”, che non ho scritto per Sanremo, anche perché nel disco forse avrei delle canzoni che dal punto di vista dell’accessibilità sarebbero anche più facili, però non aveva senso, voglio tornare con una cosa un po’ diversa.

Ai tuoi fan piacerà?

Non posso saperlo perché quando uno scrive canzoni poi quelle fanno quello che vogliono, uno c’ha in mente che deve andare da una parte e poi va da un’altra, come un palloncino che si sgonfia, è imprevedibile il percorso di una canzone. 

Cosa si prova a scrivere delle canzoni così significative per chi le ascolta?

C’è una canzone nuova del nuovo disco che parla proprio della connessione con il mio pubblico, che è una cosa unica; perché mi rendo conto, quando canto ad un concerto, che c’è la gente in lacrime, mi rendo conto che la gente va ai concerti non per sentire me ma per sentire se stessi e soprattutto che una canzone non è solo una canzone ma molto di più.

Una canzone del mio nuovo disco si chiama “Le solite paure”, che è un pezzo piano e voce e dico proprio che, è vero, dovrei anche avere una vita, perché tante volte io mi chiudo con la musica e vivo 26 ore su 24 nella musica, veramente, in tutto e per tutto, e questo limita anche la mia vita privata; e nel pezzo dico “Dovrei avere anche io una vita mia, ma ho scelto di usare la mia per creane una collettiva”, che è proprio il senso del mio approccio al pianoforte e alle canzoni.

Per me la prima cosa è rispettare il patto di sangue fatto con il mio pubblico, con cui c’è un rapporto proprio carnale, di vicinanza di anime, io la sento forte questa cosa. Anche il fatto di avere più generazioni mi fa piacere, vedo in prima fila donne di cinquant’anni ed è una cosa che a me personalmente fa credere molto nella musica che faccio, perché mi fa capire che sono sulla strada giusta.

È anche una grossa responsabilità, no?

Sì, perché ti senti, non dico un esempio perché è troppo, ma qualcosa di importante nella vita delle persone, ma allo stesso tempo questa responsabilità non può mangiarmi, perché altrimenti cambierebbe l’approccio che ho nella scrittura. Io devo ricordarmi che scrivo innanzitutto per me, perché scrivere per me è curativo, e poi che, come tutti gli esseri umani, sono fallibile e che se dovessi scrivere una canzone che non rispecchia tutte queste persone, pazienza, può succedere.

Non ho la pretesa di fare sempre la cosa giusta, però faccio quello che per me è importante e vedo che questa sincerità arriva e vivono questa esperienza come una sorta di transfer e per me è motivo di grande orgoglio.

Ma è questo il segreto di Ultimo? La sincerità?

È tutto, la sincerità è tutto, nel bene e nel male, soprattutto per un cantautore. Se canti delle cose che non sono tue, magari il pubblico non lo capisce subito ma lo intuisce e non ti da fiducia…

…insomma lo puoi fregare una volta ma non in eterno…

Esatto, il pubblico sceglie sempre qualcosa di vero.

Prima stavi parlando di un pezzo pianoforte e voce ed io pensavo che parli di un pezzo pianoforte e voce del tuo nuovo album mentre la discografia va da tutt’altra parte…Come vivi questo essere, sulla carta, totalmente diverso da ciò che va in classifica in questo momento?

Penso sia sempre una questione di sincerità, quando qualcuno sente qualcosa di vero, a prescindere che sia brutto o bello, lo premia. Poi secondo me in Italia abbiamo una grande cultura per la melodia, però oggi è diminuita tantissimo; però in realtà ci sono, anche nel rap, tanti cantautori, il rapper è un cantautore…

Be, Marracash ha vinto il Tenco…

Esatto, se pensi a lui, lui è un cantautore, si poi rappa, ma la sua è una scrittura più profonda. O Luchè, che è uno che scrive secondo me in modo molto sensibile, certe canzoni sono veramente belle da un punto di vista emotivo. Io ho sempre ascoltato i cantautori, la mia musica di riferimento è un’altra, quella di Antonello Venditti, di De Gregori, di Baglioni, Vasco, tutto quello che rappresenta la musica italiana ‘70/2000.

Lo stesso Cesare Cremonini per me è un grande esempio, lui è un altro che riesce, dopo tanto tempo, ad essere così presente nella musica, e quella è davvero un’impresa. Oggi penso ai sette anni della mia carriera e in un mondo in cui dopo tre mesi sei dimenticato sembrano tanti, ma io mi rendo conto quanto è difficile nella musica vincere il tempo…

…anche nella vita…

Però in un modo o nell’altro ti siedi a tavolino e una soluzione la trovi, riesci a sopravvivere. Però rimanere è un’impresa.

Guardando le immagini dei tuoi concerti la scorsa estate, di fronte a quella marea di persone, ci si rende conto che non si può arrivare oltre quello; il tuo è un mestiere cui benzina per andare avanti è il sogno, e tu una volta raggiunti questi traguardi cosa sogni in più?

Si prova paura e voglia di continuare a lavorare per riuscire a durare nel tempo. Fare 15 gli stadi è una cosa grandissima, quindi la responsabilità la senti il doppio. E poi cerchi di lavorare, che non vuol dire fare gli stadi tutta la vita, ma essere collocato con un repertorio importante che duri nel tempo, quello è importante.

“Alba” è un pezzo che ho avuto la sensazione che comunque poteva rimanere nel tempo, poi uno può dire che è bella o brutta, ci mancherebbe, ma comunque c’è una verità dentro, una cosa che in qualche modo potrebbe essere captata dalle persone.

C’è un pezzo che ancora non hai scritto? La tua “Donna cannone”, la tua “Questo piccolo grande amore”…

Certo, la sensazione che ho avuto con “Alba” (non parliamo delle canzoni che hai citato tu che sono dei capolavori) è che nella mia discografia sia una canzone oltre, nel bene e nel male, ha una struttura che non ha senso, però mi ha dato qualcosa che le altre canzoni non mi hanno dato quando le ho scritte.

La dimensione live è ormai diventata centrale per qualsiasi artista, figuriamoci per te che fai gli stadi; tu quando scrivi roba nuova pensi a quella dimensione? Pensi che serve che quello che scrivi ha la necessità di funzionare live?

In generale no, ma ci sono state delle eccezioni. Tipo “Vieni nel mio cuore”, il pezzo che ho fatto uscire questa estate, l’ho scritto pensando al tour, infatti ha avuto la risposta che speravo. Ma questa cosa non si manifesta tanto in fase di scrittura ma più che altro in fase di arrangiamento e produzione.

Forse la cosa che funziona meglio dei tuoi pezzi è la struttura, sempre così solida…

Io credo che nella struttura di una canzone sia importante la matematica, credo molto nel suono della metrica.

In questo nuovo album in cosa ti senti cresciuto?

Nei testi sicuramente, c’è una ricerca un po’ più astratta, un po’ più eterea, un po’ più sospesa, e poi, com’è naturale che sia, album dopo album c’è una crescita. Che poi bisogna capire che crescere non significa per forza in meglio, diventi semplicemente una cosa diversa, questo va precisato sennò uno associa sempre la crescita con un miglioramento. Spero di si, ma magari no. Mentre scrivo oggi sento che sto andando un po’ più giù, nel profondo.

So che non puoi dirmi né che canzone hai scelto per la serata dei duetti a Sanremo, né chi hai scelto per accompagnarti…

No, anche perché sono l’unico dei quattro che dopodomani ha le prove e non proverà la cover perché ancora non ce l’ho…

Non l’hai scelta?

Ancora no

Che tipo di esibizione vorresti?

Proprio quello che non so ancora.

Deve essere un inferno scegliere un pezzo…

Si, è molto difficile, tra tutti quei pezzi, però mi sa che devo scegliere tra poco.

Eh mi sa di si…tanto a te nessuno direbbe di no per un duetto.

Si, ma anche per la scelta del pezzo

E immagino che sceglierai il featuring rispetto al pezzo…

Si, certo.

E non hai nemmeno una rosa di nomi?

No. Ti giuro no. Ho avuto la testa su altre cose, quando torno domenica da Sanremo ho 3-4 giorni, mi concentro e scelgo.

Sei più incline a scegliere qualcosa che non c’entra niente con il pezzo che porti oppure qualcosa che ti calza a pennello?

No, sceglierò qualcosa che mi piace, una cosa che sento che mi piace fare sul palco.

Istintivamente uno pensa che potresti chiamare Fabrizio Moro…

Non lo so perché noi abbiamo duettato tanto, abbiamo fatto tantissime cose, io poi con lui ho un rapporto bellissimo, siamo veramente fratelli, ci sentiamo spesso, ci vediamo spesso, devo dire che artisticamente abbiamo fatto tante cose, quindi non lo so…

Qual è il risultato migliore che potresti ottenere con questo Festival?

Che “Alba” venga capita da più persone possibili, il mio gol è quello. Portare “Alba” e farla sentire a più persone possibili e che più persone possibili riescano a migliorare in quei tre minuti qualcosa di se stesse.