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AGI – Il grande mosaico pavimentale della sala triclinio-ninfeo della Villa marittima Romana di Minori torna all’antico splendore e sarà visibile. Da martedì 14 marzo, in occasione della Giornata Nazionale del Paesaggio, si potrà tornare ad ammirare il prezioso decoro a tasselli di marmo del ninfeo risalente al I secolo d.C., finora oscurato da uno strato di detriti, micro vegetazione e muschi sedimentati nel tempo.

Il mosaico, che raffigura una scena di caccia e un corteo (tiaso) marino di Nereidi e creature mitologiche del mare, è una testimonianza di eccellenza del dialogo costante fra natura e artificio che caratterizza l’arte romana.

L’intervento di pulitura è stato effettuato nell’ambito delle attività propedeutiche alla progettazione del grande intervento di restauro e valorizzazione della Villa romana attualmente in corso. La restituzione al pubblico del mosaico durante la Giornata del Paesaggio, promossa dalla Direzione regionale Musei della Campania in collaborazione con la Soprintendenza Abap di Salerno e Avellino, sarà l’occasione anche per raccontare il percorso dell’intervento e le sue fasi.

All’evento, in programma alle 16.00, interverranno il direttore regionale Musei Campania Marta Ragozzino, la Soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Salerno e Avellino, Raffaella Bonaudo e il sindaco di Minori Andrea Reale.

La sala triclinio-ninfeo definiva il paesaggio marittimo della Villa marittima romana di Minori attraverso l’arco monumentale aperto nella facciata del livello inferiore, rivolta verso il mare, la cui linea di costa era molto più avanzata di quanto non sia oggi, arricchita di nicchie che contenevano, probabilmente, scenografici giochi d’acqua.

Il complesso residenziale veniva poi ulteriormente impreziosito dalle suggestioni illusionistiche dei riflessi generati dalle acque della grande vasca realizzata nella facciata a mare e della piscina (natatio), all’interno del giardino (viridarium) porticato. 

AGI – Perla, pesci, nuoto. È legato decisamente all’acqua il destino di Carole André l’attrice francese trapiantata in Italia che ha turbato tanti sonni maschili ai tempi di ‘Sandokan’. Nata sotto il segno dei Pesci oggi la “Perla di Labuan” compie settant’anni e li festeggia con un record mondiale. Un primato che non ha niente a che vedere con il cinema, mondo che si è decisamente lasciata alle spalle, per dedicarsi alle vasche e non con qualche bracciata a blanda velocità per tenersi in forma come viene consigliato a chi ha superato gli “anta”.

L’ex attrice, da anni apprezzata architetta, fa sul serio: ai regionali che si sono disputati ai primi di marzo a Ostia ha vinto i 50 rana nella categoria della sua età, i Master 70, stabilendo il nuovo record mondiale con il tempo di 42”51. Non solo: si è tolta anche la soddisfazione di conquistare il primato italiano nei 50 Stile libero in 33”52. Se fosse un film sarebbe ‘La donna che visse due volte’ di Hitchcock.

Perché la Carole André che ha lavorato con Fellini, Risi, Visconti, Ferreri e che negli anni Settanta, quando aveva poco più di vent’anni, Sergio Sollima nonostante lo scarso entusiasmo dell’attrice per la trasferta asiatica la trascinò (era stato il primo a dirigerla quando lei aveva solo 14 anni nel western ‘Faccia a faccia’) in India e Malesia  accanto a Kabir Bedi per quel cult televisivo, non esiste più. A partire dal nome: Carole Andrè (cognome della mamma, attrice anche lei, che ha perso poco prima di Sandokan) è diventata Carole Smith (il suo vero cognome, quello del padre). Ma al Due Ponti Sporting club di Roma, dove si allena da qualche anno e si presenta sempre con un look largo e comodo, preferisce essere chiamata semplicemente Smith, o affettuosamente “Smittina”. I riferimenti a Kabir Bedi, a Sandokan e alle tigri di Mompracem non sono graditi, chi si allena con lei lo sa,  per la Smittina esiste solo il nuoto.

Francesco Di Pippo il personal trainer che la segue, dice all’AGI che paragonando i suoi tempi di adesso con i record degli anni Settanta se Carole avesse iniziato ad allenarsi da giovane “sarebbe andata alle Olimpiadi”. L’ex attrice recupera il tempo perduto allenandosi quattro volte a settimana in piscina, due in palestra, mentre il sabato è dedicato all’acquagym e allo yoga. “E’ talentuosa di suo e si sottopone ad allenamenti da ventenne”.

L’ex perla di Labuan stesa sulla panca piana tira su un bilanciere da 40 chili e altrettanti con lo squat, roba da far invidia a un sollevatore di pesi. “Mia madre alla sua età fa fatica a salire le scale…” scherza Di Pippo.

Il motivo della capovolta esistenziale è stato dovuto probabilmente a una identificazione nella Perla di Labuan da cui si sentiva imprigionata e che frenò anche la sua carriera. Ma la infastidiva anche la vita da star (“i paparazzi mi inseguivano, non potevo uscire di casa, ero diventata all’improvviso come Madonna ma in fondo mica avevo scoperto la cura per il cancro”  ha raccontato anni fa in un’intervista). E quindi ha coraggiosamente cambiato vita: l’ultimo film, ‘Una vita non basta’ di Lelouch è del ’76, l’ultima miniserie tv (‘Pronto soccorso’) del ’90, seguita da una parentesi attoriale negli episodi di ‘Un medico in famiglia 5′ quelli in cui c’era Kabir Bedi. Era il 2007 e dopo quella reunion con Sandokan Carole ha cambiato strada. Oggi soffia su settanta candeline ma ci sarà poco spazio ai festeggiamenti: domenica l’ex Perla gareggia.

AGI – Avrebbe compiuto cento anni oggi Benito Jacovitti, il vignettista dei salami e delle lische di pesce. Portava quel nome perché il padre, Michele, era un avanguardista quasi della prima ora.

E in questi nostri tempi è facile domandarsi se nelle strisce di Zerocalcare, un autore politicamente distante da Jacovitti ma accomunato da un certo senso di straniamento rispetto alla realtà, ci starebbero poi così male dei salami sorridenti ad ammiccanti a margine delle vignette: anche perché i nasi dei personaggi di Zerocalcare qualcosa hanno di quei salami che sono diventati il marchio di fabbrica di Jacovitti, la sintesi del suo modo divertito, irridente e sarcastico di vedere la realtà in tutte le sue forme. E di raccontarla.

Il mitico Zorry Kid

C’è un personaggio inventato da Jacovitti e che furoreggiò sulle pagine del ‘Corriere dei Piccoli poi ribattezzato, a cavallo fra i ’60 e i ’70, ‘Corriere dei Ragazzì che è passato spesso in secondo d’ordine rispetto al mitico Cocco Bill. Si chiamava Zorry Kid e comparve in un’epoca in cui l’appuntamento con i telefilm Disney, in cui Zorro aveva il volto baffuto e rassicurante di Guy Williams e la pancia debordante del sergente Garcia reggeva il peso del cotè comico, era irrinunciabile per milioni di ragazzi. 

Lo Zorry Kid di Jaco aveva i baffetti e cercava pure lui di combattere (fra salami e lische di pesce vaganti, si capisce) l’ingiustizia: ma soprattutto aveva a che fare con una fidanzata (figlia del governatore) che si chiamava Alonza-Alonza (detta Alonza) e che dall’alto della sua possanza fisica schiaffeggiava con una mano enorme e guantata soprattutto l’antagonista di Zorry, il capitano Malandero, ma talvolta pure lo stesso eroe.

Quello schiaffo potrebbe essere il simbolo di tutto ciò che Jacovitti ha disegnato e creato nel corso della sua vita. E che ancora oggi, quando lui, scomparso nel ’97, avrebbe compiuto un secolo, è di una straordinaria attualità. Jacovitti schiaffeggiava irridendo chiunque pensasse di essere potente e influente. “Nessuno ha raccontato meglio l’Italia del dopoguerra di Sordi, Fellini e Jacovitti” ha scritto Oreste del Buono che lo volle a ‘Linus’ negli anni Settanta, attirandosi addosso le critiche dell’ultrasinistra.

Jacovitti irrideva lo stile di vita americano 

Schiaffeggiava gli americani, il loro cinema, i loro fumetti e il loro frenetico stile di vita con Cocco Bill che beveva camomilla in una tazza bianca con tanto di piattino e con un cavallo-ronzino che si chiamava Trottalemme.

Schiaffeggiava l’intero genere poliziesco con ‘Cip l’arcipoliziotto’, uno dei personaggi che comparì sulle pagine del ‘Vittorioso, il settimanale conservatore cattolico che aveva ampia diffusione nel dopoguerra: la frase “Lo supponevo, lo suppo!” con cui Cip commentava l’esito dei casi polizieschi regolarmente risolti da altri sotto gli occhi dell’assistente Gallina e di Chilometro, ovvero un lunghissimo salame in forma di cane, altro non era che la caratterizzazione di un vizio molto italico: quello di mettere cappello su meriti altrui.

Ed è difficile vedere come la Signora Carlomagno di anni cento che picchiava come un pugile (Jacovitti era un grande appassionato di sport) non sia stata una presa in giro del pensiero dei supereroi americani che avrebbero contrassegnato l’immaginario di intere generazioni nel dopoguerra bastonando i cattivi di turno a più non posso. 

AGI – Le lettere di dieci scrittrici italiane per “incontrare e parlare con le donne che nel mondo si battono per il cambiamento e che oggi sono le protagoniste della lotta per la vita e la libertà. Afgane, yazide, iraniane, curde, africane, sudamericane, indiane, donne migranti. Diverse e lontane da noi, scrive il Sir nel riferire, eppure così vicine nel loro desiderio di cambiare, di trasformare la sofferenza in protagonismo, l’emarginazione in spinta vitale”.

Ruota intorno a questo il numero di marzo di Donne Chiesa Mondo, mensile femminile de L’Osservatore Romano. Lettere che, si legge nell’editoriale, “in qualche modo arriveranno anche nelle parti più lontane del globo. Il linguaggio della letteratura, come quello della libertà, è universale. La voce delle donne, malgrado l’oppressione nel mondo sia ancora tanta, oggi è forte, capace di attraversare frontiere di ogni tipo. Pretende di essere ascoltata”. Così Viola Ardone ha scritto alla donna afghana cui è stato tolto tutto, anche il volto, ma che non si rassegna a essere come gli uomini la vorrebbero: un fantasma senza pensiero, una vita che non vive.

Sotto l’hijab ci sono le donne iraniane che hanno il coraggio di esigere nelle piazze il loro futuro e alle quali scrive Silvia Avallone. Alle donne curde, le prime a gridare “Jin, Jiyan, Azadi”, “Donne, vita, libertà”, è indirizzata quella di Carola Susani. Sono di Mariapia Veladiano le parole alle donne yazide che hanno fatto crollare “il muro di distrazione” dell’Occidente quando lo Stato islamico ha tentato di distruggere il loro popolo.

E di Dacia Maraini quelle rivolte alle africane strette tra una arretratezza che continua a punirle e una modernità che tuttavia nega loro i diritti. Nadia Terranova scrive alle bambine nate in tempo di guerra; Igiaba Scego a una bambina Yanomani le cui terre sono invase e derubate per la corsa all’oro in Amazzonia.

Elena Janezeck alle migranti invisibili ed escluse. Maria Grazia Calandrone invece fa parlare una bambina indiana che ha rifiutato un matrimonio imposto dalla famiglia. E sono presenti anche gli uomini con una lettera loro indirizzata da Edith Bruck: “è la debolezza degli uomini – scrive – che scatena la violenza, lo stupro, l’omicidio di chi vi lascia. Non l’amore”.

AGI – La biancheria intima? Nella moda non è più un tabù. Ora si esibisce, con naturalezza. Dal reggiseno alle mutandine. “Anche i calzini godono di un’insolita popolarità come accessorio”, scrive il Paìs nelle sue pagine dedicata alle tendenze nella moda.

Ma c’è un indumento che esemplifica perfettamente la tendenza visibile dell’intimo ed “è il perizoma”, sempre in primo piano fuori dai pantaloni a vita bassa o quando adorna la scollatura sul retro degli abiti più sensuali. Emblema della moda anni 2000, il suo successo, scrive il quotidiano spagnolo, lo si deve “alla glorificazione del ‘lato B’”. Per paradosso, “la censura inibisce il capezzolo ma non pone limiti a questa parte del corpo”, la chiave del nuovo canone di bellezza reso popolare da icone come l’onnipresente Kim Kardashian.

Ma per ricostruire la vera origine del perizoma bisogna andare più indietro di due decenni, perché “la sua origine contemporanea sono gli anni Settanta”, spiega Ana Velasco Molpeceres, autrice del libro “Storia della moda in Spagna: dallo scialle al bikini”. Ma anche se non c’è accordo sull’origine esatta del perizoma, i modelli originali – grezzi, indossati da uomini e al di fuori della categoria della biancheria intima poiché indossati senza nulla sopra – sono stati utilizzati in diverse parti del Sud America, Africa e Asia, al punto che “tutto ha origine a metà del XVII secolo”, come testimoniano le ricerche d’archivio.

Ricostruisce il giornale: “La coppia formata da Yáñez Iglesias e Yolanda Luccara stava viaggiando su una barca a vela quando fece naufragio nell’isola cilena di Santa d’Or. Le donne del posto indossavano una specie di perizoma fatto di conchiglie. La coppia rimase affascinata dall’invenzione e decise di dedicarsi alla commercializzazione dei tessuti per realizzare il perizoma nella sua versione primitiva. Si stabilirono a Salvador (Brasile) e continuarono l’attività. Poco dopo decisero di esportare l’indumento esotico in Spagna, un’idea audace ai tempi dell’Inquisizione. Quando il temibile tribunale religioso venne a conoscenza delle loro intenzioni, entrambe furono condannate all’impiccagione, la sentenza fu eseguita nell’aprile del 1660”.

Ci sono voluti poi secoli perché il perizoma diventasse un significativo capo d’abbigliamento occidentale. Quello moderno, come lo conosciamo oggi, s’è diffuso dal decennio Settanta e la sua creazione è attribuita allo stilista austriaco Rudi Gernreich, “creatore anche del monokini, il primo costume da bagno topless”. Stilista e attivista, Gernreich è entrato nel mercato dei costumi da bagno con il perizoma, e nello stesso decennio il fotografo Helmut Newton ha fotografato le top model Jerry Hall e Lisa Taylor mentre lo indossavano in un servizio per Vogue nel 1975.

Secondo il Paìs, l’indumento è arrivato “come una boccata d’aria fresca”, ma la sua accoglienza non è stata immediata e solo la “moda ipersessualizzata” della fine degli anni ’90 e dei primi 2000, impersonata da Gianni Versace o Tom Ford, come direttore creativo di Gucci, lo ha sdoganato. Fino a diventare simbolo pop, a cui il cantante R&B Sisqó ha dedicato “Thong Song”, che nel 2000 ha scalato le classifiche di mezzo mondo ottenendo quattro nomination ai Grammy.

Così, mostrare l’elastico del perizoma (o l’intero triangolo, quella che era conosciuta come la “coda di balena”) è diventata una “tendenza straordinaria”, non senza polemiche.

 

AGI – Un angolo di storia dimenticato, non adeguatamente indagato, che torna per far luce sulla sorte di quasi novantamila militari dispersi nella fallimentare campagna di Russia, tra il 1941 e il 1943. Matteo De Santis, con “Fantasmi dalla Russia – Il mistero dei dispersi italiani” edito dalle Edizioni Chillemi di Bruno Chillemi per la collana Memore, si spinge a cercare particolari inediti di una vicenda così oscura. In che condizioni vissero la prigionia e che fine fecero le decine di migliaia di soldati che non tornarono? L’autore, che negli anni si è dedicato alla ricerca storica, in particolare sulle tematiche relative alla Seconda guerra mondiale e ha già pubblicato “L’impegno italiano in Russia”, “I prigionieri di guerra nella storia d’Italia” e “La tormentata vicenda della prigionia in URSS”, prova a dare delle risposte. 

Il libro si basa su documenti inediti dell’archivio storico della Croce Rossa Italiana, che per più di trent’anni, dal 1960 al 1993, si occupò delle ricerche dei soldati italiani in coordinamento con la controparte Sovietica. Poco si sapeva del lavoro di ricerca e ancora meno si parlava della possibilità che qualche italiano fosse rimasto in Russia, derubricando l’ipotesi a mera speranza delle famiglie dei dispersi. Uomini, soldati, che come fantasmi sono rimasti sospesi tra realtà e narrazione tragica. 

L’ipotesi che qualche disperso potesse essere rimasto in Russia, alla luce della documentazione esclusiva analizzata dal libro, diviene dolorosamente reale, connotando la terribile questione della prigionia di un senso di tragico abbandono e di cancellazione della memoria. Con il ritmo incalzante del giallo e una narrazione tra il lavoro storico e la drammatica realtà di situazioni oltre il limite della sopravvivenza, il testo porta a galla e analizza molti interrogativi rimasti finora senza riscontri, con lo scopo di consegnare alla storia eventi per troppo tempo dimenticati, cercando di rispondere al quesito: sono rimasti degli italiani in Unione Sovietica?

AGI – È morto l’attore Tom Sizemore. Lo ha annunciato il suo manager Charles Lago. “È con grande tristezza e dispiacere che devo annunciare che l’attore Thomas Edward Sizemore (‘Tom Sizemore’) di 61 anni è morto serenamente nel sonno oggi al St Joseph’s Hospital di Burbank”. “Suo fratello Paul e i gemelli Jayden e Jagger (17) erano al suo fianco”.

Il 61enne attore talentuoso era stato colpito da un aneurisma cerebrale a febbraio. “Lunedì – aveva detto Lago – i medici hanno informato la sua famiglia che non vi erano più speranze raccomandando la decisione di fine vita”. L’attore ha lavorato con alcuni dei più grandi nomi di Hollywood, ma forse era meglio conosciuto per il suo ruolo nell’epico film di Steven Spielberg sulla seconda guerra mondiale del 1998 “Salvate il soldato Ryan”.

Il film ha ricevuto una nomination come miglior film agli Oscar e le star, tra cui Tom Hanks e Matt Damon, sono state nominate per l’eccezionale interpretazione di un cast in un film dalla Screen Actors Guild. La vita personale di Sizemore è stata spesso travagliata e ha lottato con la dipendenza e ha avuto periodi in prigione. 

AGI – Quest’anno ricorrono i 70 anni dalla nascita di Massimo Troisi (19 febbraio 1953) e l’isola di Salina è pronta per accogliere la dodicesima edizione di uno degli appuntamenti più prestigiosi e attesi delle Eolie: il Marefestival si svolgerà nel Comune di Malfa da venerdì 16 a domenica 18 giugno 2023.

Con l’istituzione del riconoscimento in memoria del grande attore napoletano, consegnato per la prima volta nel 2013 a Maria Grazia Cucinotta, da allora diventata madrina della manifestazione e immancabile presenza ogni anno, il Festival ha ospitato e consegnato il Premio Troisi, nelle passate undici edizioni, a 83 illustri nomi del cinema nazionale e internazionale, da Matt Dillon a Sergio Castellitto, da Miriam Leone a Edoardo Leo, a grandi registi come Pupi Avati, Giovanni Veronesi, Fausto Brizzi, Roberto Andò e tantissimi altri.

Tre giorni di film, documentari, corti, momenti di spettacolo e intrattenimento, focus culturali e dibattiti su temi d’attualità, presentazioni di libri, premiazioni e spazio a giovani emergenti tra la piazza Immacolata del Comune di Malfa, il Centro congressi e alcune location privilegiate come l’Hotel Ravesi che al tramonto diventano cornici particolarmente suggestive per incontri con artisti, giornalisti, rappresentanti istituzionali e autorità. A coadiuvare il direttore artistico, già impegnato in queste settimane per coinvolgere un cast stellare nel nuovo programma, sarà il giornalista e attore palermitano Giovanni Pontillo, che si occuperà anche delle interviste del Festival insieme con la giornalista Nadia La Malfa, da sempre conduttrice dell’evento.

AGI – C’è voluto un po’  di tempo prima che l’editoria tradizionale si accorgesse di una delle migliori gialliste italiane. Cinque anni per l’esattezza, da quando nel 2018 Cristina Stillitano, stanca di aspettare le risposte delle case editrici, ha deciso di fare da sé e di pubblicare su Amazon il primo episodio delle indagini del commissario Clodoveo.

Il riscontro di pubblico è stato immediato e al successo nell’ambito del self-publishing sono seguiti, con il terzo volume, il premio Amazon Storyteller e l’attenzione di Piemme che ha fatto uscire il 28 febbraio in cartaceo il quarto della serie: ‘La giostra del perdono’ (420 pagine, 13 euro).

Come tutti i romanzi su Clodoveo, anche questo ha un’ambientazione particolare: la Roma degli anni Cinquanta, quella che si lasciava alle spalle le macerie della guerra e muoveva i primi passi verso il boom economico. Ma l’anno e il mese in cui è ambientato ‘La giostra del perdono’ sono ancora più particolari: il febbraio del ’56 durante la famosa nevicata sula Capitale.

E la neve, con i suoi simbolismi, è il leit motiv di una storia che si dipana lungo il tema della redenzione. Semplificando si potrebbe dire che Roma è la protagonista assieme a Clodoveo, ma i romanzi di Stillitano sono qualcosa di ancora diverso: sono letteratura. Il giallo e l’indagine, per quanto costruiti con estrema maestria, cedono il passo nel cuore del lettore alla qualità della costruzione dei personaggi, della ricostruzione dell’ambientazione, ma soprattutto della lingua. Prendendo a modello Gadda, Stillitano dà alla propria scrittura tante sfumature quante sono le realtà che narra, facendole vivere al lettore non solo come intrattenimento, ma quasi come una esperienza che si può definire ‘immersiva’, mutuando un termine molto in voga in tutt’altro settore.

Il ritmo sempre sostenuto, l’ironia sottile che attraversa anche le pagine più crude, la vena malinconica del protagonista che non straborda mai nel pietismo, fanno di questo – come di tutti i romanzi dell’autrice – un viaggio non solo in una Roma che non deve restare confinata nei fotogrammi del neorealismo, ma nell’anima di personaggi ai quali ci affezioniamo come un tempo ci si affezionava a certi vicini di casa che finivano per essere poco meno che parenti.

Personaggi forti, complessi, difficili da decifrare. L’obiettivo dell’autrice è lasciar emergere, a poco a poco, lati profondi del carattere che, alla fine, riscattino o quanto meno diano un tocco di umanità anche ai portatori del male.

La Roma che scopriva il frigorifero, la tv, l’auto, la Lambretta – che poi è il mezzo di locomozione del protagonista – non è comunque solo un fondale su cui si dipana la storia. In questo episodio è una città bellissima e surreale, avvolta dall’incantesimo profondo e silenzioso della neve, che Stillitano ha ricostruito attraverso un minuzioso lavoro di documentazione, ma anche grazie ai ricordi che i lettori hanno voluto condividere con lei.

Il commissario Agostino Clodoveo è un burbero dal cuore tenero, un omaccione con la faccia sputata da sbirro le cui imperfezioni sono una ricchezza e che è va alla ricerca della verità in un’epoca in cui le indagini sono fatte di indizi, pedinamenti, interrogatori e informatori che barattano la clemenza della polizia con qualche soffiata.

E così Clodoveo sbaglia, si corregge, talvolta perde. Una sorta di ‘perdente seriale’ – come lo ha definito un lettore – con un’ostinazione che è pari solo al grado di umanità: per vedere il criminale devi saper comprendere prima l’uomo.

L’intreccio, come nei precedenti romanzi, è complesso, articolati su più livelli, con una successione serrata di eventi nel finale.  Tutti i personaggi evolvono, non sono mai uguali a loro stessi. L’autrice ne fa emergere lati nuovi, inaspettati, persino incoerenti. 

In questo quarto episodio, Clodoveo parte con uno stato d’animo diverso dai precedenti. Il passato è alle spalle, è un uomo un po’ più sereno, in qualche modo rassegnato alla sua solitudine. Sarà chiamato a grandi scelte e grandi prove. Dovrà per forza cambiare. Tutti noi lo dobbiamo ogni giorno.

(AGI) – Roma, 28 feb. – Boom di camminatori nel 2022, +26% rispetto allo scorso anno. Sono 4.203, provenienti da 57 nazioni, i camminatori che hanno raggiunto la Basilica di San Francesco in Assisi da soli, in gruppo o in compagnia degli amici a quattro zampe.

I dati rilevati dalla Statio Peregrinorum, ufficio della Basilica di San Francesco, mostrano come i pellegrini, arrivati ad Assisi l’anno scorso siano in maggioranza italiani con il 57,09% (78.55% nel 2021). Tra gli stranieri al primo posto i tedeschi (14,24%), seguiti da francesi con il 6,71%, austriaci (3,44%) e americani (3,01%). Tra gli amanti del “turismo lento” anche dalle Isole Figi, Singapore, Cina e Papua Nuova Guinea. Un trend in grande crescita che mostra come sia forte l’attenzione nei confronti della natura che ci circonda. Superato il record di pellegrini ad Assisi del 2019 (4.124). I cammini francescani sono l’esempio reale e concreto dei valori del Santo di Assisi: fraternità, accoglienza e rispetto dell’ambiente.

Nei dati raccolti dalla Statio Peregrinorum emerge che chi percorre i cammini francescani sono in maggioranza uomini (51,70%) mentre le donne rappresentano il 48,30%. Il 96,03% l’ha percorso a piedi (94,08% nel 2021) e il 3,48% in bicicletta. Di questi pellegrini il 75,20% giunge ad Assisi in solitudine, mentre il 24,80% in gruppo. Sono 57 le nazioni da dove provengono. La maggioranza dei pellegrini sono italiani, ma è comunque un’esperienza conosciuta e apprezzata in tutto il mondo.

Tra gli stranieri al primo posto ci sono i tedeschi, a seguire: Francia, Austria, Stati Uniti e perfino camminatori provenienti dalla Tanzania, Isole Figi, Giappone e Papua Nuova Guinea. I luoghi di destinazione preferiti dai camminatori sono: Assisi (92,38%), Roma (4,25%) e Ascoli Piceno (1,35%). I cammini francescani sono per tutte le eta’: al primo posto i pellegrini dai 30 ai 60 anni 45,90% (51.20% nel 2021), a seguire con il 35,30% gli ultrasessantenni (24,20% nel 2021), mentre tra i 18 e 30 sono il 14,15% (14,60% nel 2021) e infine il 4,30% è costituito da pellegrini di eta’ inferiore ai 18 anni (10% nel 2021).