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AGI – La lotta al Covid-19 potrebbe avere una nuova arma, e questa volta si tratta di un vaccino in spray. Una ricerca pubblicata su Nature riporta lo sviluppo di un vaccino che si può inalare, mostrando promettenti risultati nei test condotti su topi, criceti e primati.

Fin dall’inizio della pandemia nel 2020, sono stati fatti sforzi considerevoli per sviluppare e approvare vaccini contro il Covid-19. Tuttavia, la maggior parte di essi viene somministrata tramite iniezioni intramuscolari, che stimolano la produzione dell’anticorpo IgG. Sebbene efficaci nel prevenire la forma grave della malattia, questi vaccini hanno limitata efficacia nel prevenire l’infezione, poiché richiedono l’induzione di immunità nei tessuti mucosi dei polmoni e delle vie respiratorie.

Inoltre, spesso sono in forma liquida e richiedono condizioni di conservazione a bassa temperatura, aumentando i costi di distribuzione. Il team di ricerca guidato da Guanghui Ma della Accademia di Scienze Cinese di Beijing ha sviluppato un vaccino inalabile sotto forma di aerosol a polvere secca per il SARS-CoV-2. Questo vaccino racchiude una proteina batterica non tossica chiamata CTB, modificata per mostrare l’antigene del dominio di legame del recettore del SARS-CoV-2.

An exciting development for a new Covid vaccine: inhaled single dose induces strong mucosal immunity and protection in multiple species, including non-human primates, and prevents transmission across all variants assessedhttps://t.co/2EMK3TSo3V @Nature pic.twitter.com/fo6iZ4mAOI

— Eric Topol (@EricTopol)
December 13, 2023

Le microcapsule contenenti il vaccino sono sufficientemente piccole da entrare e depositarsi in profondità nei polmoni. Inoltre, è stata creata una versione “mosaico” del vaccino, che conteneva sia ceppi ancestrali che la variante Omicron, per testarne l’efficacia contro diverse varianti.

Dopo una singola dose, il vaccino è stato consegnato efficacemente nei tessuti mucosi dei polmoni, ha mostrato un rilascio sostenuto dell’antigene e una corretta assunzione da parte delle cellule presentanti l’antigene. Ha inoltre indotto un aumento a lungo termine nella produzione di IgG e immunoglobuline A (IgA) in topi, criceti e primati non umani, fornendo una protezione efficace contro l’infezione da SARS-CoV-2.

La versione “mosaico” del vaccino ha ampliato la portata di questa risposta anticorpale, suggerendo un’efficacia contro diverse varianti circolanti, compresa l’Omicron. Inoltre, la polvere è rimasta stabile a temperatura ambiente dopo un mese di conservazione, potenzialmente riducendo i costi di stoccaggio e trasporto del vaccino, rendendolo più accessibile.

Questo vaccino inalabile offre la possibilità di prevenire il Covid-19 agendo direttamente sulle cellule polmonari, inducendo una risposta immunitaria più robusta rispetto ai vaccini inalabili precedenti. Il sistema di somministrazione ad aerosol potrebbe diventare uno strumento per combattere sia il Covid-19 che altre malattie respiratorie, concludono gli autori della ricerca.

AGI – Ogni anno sono milioni le vite che vengono perse prematuramente a causa delle malattie cardiovascolari. Sebbene prevenibili nell’80% dei casi, rimangono la principale causa di morte in tutto il mondo con circa 20 milioni di decessi, attribuibili soprattutto a ipertensione, colesterolo alto, dieta scorretta e inquinamento atmosferico. È quanto emerge dal nuovo numero speciale del Journal of the American College of Cardiology (Jacc), che verrà discusso in occasione del congresso nazionale della Società Italiana di Cardiologia (SIC).

Il report fornisce un aggiornamento delle stime sanitarie rilevate nel 2022 relative all’impatto e alle tendenze delle malattie cardiovascolari a livello globale. In particolare il report ha analizzato l’impatto di 18 condizioni cardiovascolari e 15 fattori di rischio in 21 regioni del mondo, 204 nazioni e territori, per fornire un vero e proprio atlante di queste patologie. Dal rapporto emerge che il numero globale di decessi dovuti a malattie cardiovascolari è aumentato, passando da 12,4 milioni nel 1990 a 19,8 milioni nel 2022.

Tra le malattie cardiovascolari prese in considerazione, la cardiopatia ischemica, patologia che si verifica quando c’è un insufficiente apporto di sangue e ossigeno al cuore, rimane la principale causa di mortalità a livello globale, con circa 109 decessi ogni 100.000 abitanti, seguita da emorragia intracerebrale e ictus ischemico.

I 15 fattori di rischio valutati prendono in considerazione cause ambientali (inquinamento atmosferico, inquinamento domestico, esposizione al piombo, bassa temperatura, alta temperatura), metaboliche (pressione arteriosa alta, colesterolo cattivo, sovrappeso, glucosio nel sangue a digiuno, disfunzioni renali) e comportamentali (alimentazione, fumo, fumo passivo, uso di alcol, attività fisica).

Tra questi, la pressione arteriosa alta rappresenta il fattore di rischio maggiormente responsabile, a livello globale, degli anni di vita persi a causa di disabilità. La dieta e le scelte alimentari scorrette (come ad esempio scarso consumo di frutta, verdura, legumi, cereali integrali, noci e semi, latte, fibre, calcio, acidi grassi omega-3 e acidi grassi polinsaturi ed eccessivo consumo di carni rosse e lavorate, bevande zuccherate, acidi grassi trans e sodio) sono invece il principale fattore di rischio di peggioramento della salute tra quelli comportamentali.

L’inquinamento da particolato ambientale si è invece classificato in testa ai rischi ambientali. “Dopo un calo della mortalità, negli ultimi decenni i numeri sono di nuovo in aumento – dichiara Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli – sia sul fronte delle cardiopatie ischemiche che su quello delle malattie cerebrovascolari.

Si prevede che i decessi aumenteranno entro il 2030 raggiungendo i 24 milioni, con una media di oltre 66mila persone al giorno. È necessario dunque incentivare le attività di prevenzione in maniera capillare coinvolgendo tutti gli attori possibili. In questa ottica, la SIC sta sviluppando per la prima metà del prossimo anno un progetto nazionale di prevenzione in collaborazione con le farmacie di comunità, grazie ad una alleanza con la Federazione Italiana degli Ordini dei Farmacisti Italiani (FOFI) e Federfarma”.

Aggiunge Ciro Indolfi, Past-President della Società Italiana di Cardiologia e ordinario di Cardiologia all’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro: “Oggi più che mai è necessario lo sviluppo di azioni concrete educative di prevenzione e promozione della salute del cuore e programmi di gestione della cronicità che tengano conto dei principali fattori di rischio cardiovascolare, come l’ipertensione e il colesterolo alto, dell’assistenza sanitaria primaria e secondaria e dell’innovazione”.

Guardando alla distribuzione geografica del problema, nonostante le patologie vascolari raggiungano tassi elevanti a livello globale, alcune regioni di Asia, Europa, Africa e Medio Oriente presentano il maggior carico di mortalità. Più in dettaglio, l’Europa, e in particolare i Paesi dell’Est, fanno registrare la più alta mortalità con 553 decessi ogni 100.000 abitanti. Inoltre, l’Asia centrale, l’Europa orientale, il Nord Africa e il Medio Oriente sono le regioni con i tassi più elevati di malattie cardiovascolari attribuibili all’ipertensione.

“In questo scenario, l’Italia, mostra un numero ancora allarmante di decessi per le patologie a carico del sistema cardiovascolare – sottolinea Gianfranco Sinagra, direttore del Dipartimento Cardiotoracovascolare Asugi e Università di Trieste – che arrivano a superare i 220mila morti l’anno, il 35% di tutti i decessi. Rappresentano inoltre la prima causa di ricovero ospedaliero, confermandosi insieme ai tumori, tra le principali cause di invalidità. Fondamentale, dunque, stabilire strategie di sanità pubblica volte a prevenire le malattie cardiovascolari”.

AGI – Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori dell’Hospital for Sick Children e dell’ICES, i ricoveri per disturbi alimentari sono aumentati in modo sproporzionato tra soggetti in età pediatrica, maschi, adolescenti e individui con diagnosi di disturbi alimentari che differiscono da anoressia o bulimia.

L’ampio studio, pubblicato su JAMA Network Open, si è basato sulla popolazione canadese e ha preso in analisi un periodo di 17 anni, dal 2002 al 2019, in Ontario. I ricercatori hanno rilevato un aumento complessivo del 139% dei ricoveri per disturbi alimentari tra bambini e adolescenti, per un totale di 11.654.

Anche il numero di diagnosi di malattie mentali in relazione a ogni ricovero ha subito un notevole aumento. In tutte le fasce d’età, i ricercatori hanno osservato i maggiori aumenti assoluti fra le donne e i soggetti in piena adolescenza. Tuttavia, altri gruppi di individui sono stati colpiti in modo sproporzionato.

“Il nostro studio ha rilevato che un numero crescente di pazienti pediatrici affetti da disturbi alimentari con caratteristiche tradizionalmente considerate atipiche sta diventando abbastanza grave da richiedere il ricovero in ospedale”, ha detto Sarah Smith, medico del Dipartimento di Psichiatria del SickKids e tirocinante del CIEM, che ha completato la ricerca come borsista al SickKids.

Rispetto agli altri, i gruppi che sono stati maggiormente coinvolti sono stati maggiori sono stati: le persone di sesso maschile, con un aumento del 416%, giovani e adolescenti con un’età compresa tra i 12 e i 14 anni, con un aumento del 196% e persone con disturbi alimentari diversi da anoressia e bulimia nervosa, con un aumento del 255%.

Gli autori suggeriscono diverse possibili spiegazioni per l’incremento di questi tassi, tra cui un aumento generale della prevalenza dei disturbi alimentari, in particolare tra le popolazioni meno tipiche, un miglioramento dello screening e della diagnosi e una riduzione dello stigma. Un limite dello studio è stato che non sono stati raccolti dati provinciali relativi alle diagnosi di disturbi alimentari o sui servizi al di fuori delle strutture di cura, che potrebbe comportare una notevole sottostima dei tassi.

“Gli operatori sanitari devono essere consapevoli della crescente molteplicità di bambini e adolescenti che necessitano di cure intensive in regime di ricovero per i disturbi alimentari, in modo da poter identificare questi pazienti in una fase più precoce della loro malattia – ha dichiarato Smith -. Occorre, inoltre, valutare l’efficacia dei trattamenti e dei programmi esistenti per i pazienti pediatrici affetti da disturbi alimentari con queste caratteristiche”, ha concluso.

AGI – “Il mycoplasma pneumoniae è un batterio che colonizza il tratto respiratorio, causando infezioni che vanno da sintomi lievi e spesso autolimitanti (raffreddori, faringiti) fino a forme più severe come la polmonite. In particolare, questo microrganismo è comunemente noto come agente eziologico per la polmonite atipica, in grado di manifestarsi in soggetti in età prescolare, giovani adulti e in soggetti con complicanze o alterazioni immunologiche.

Si stima che causi globalmente tra il 10 e il 20% di tutte le polmoniti. In questi giorni se ne parla perchè si sospetta sia tra le cause di un aumento dei ricoveri di bambini per polmonite in Cina e in alcuni paesi europei come Francia, Olanda e Danimarca”. Lo scrive il dipartimento Malattie Infettive dell‘Istituto Superiore di Sanità in relazione all’aumento di ricoveri di bambini in diversi Paesi per infezione da Mycoplasma Pneumoniae.

“Questo patogeno è ben conosciuto da anni, e l’infezione da Mycoplasma è piuttosto comune, soprattutto fino ai sei anni di età – si legge sul sito dell’Iss – periodicamente si registrano epidemie. Per questo, ora che è aumentata l’attenzione per questo batterio si cominciano a segnalare casi anche nel nostro paese dove, è bene ribadirlo, il Mycoplasma è sempre circolato in comunità. La sua identificazione tempestiva mostra come la rete di sorveglianza sia in grado di registrarne la presenza e, di conseguenza, anche un eventuale aumento nel numero di casi nel tempo”.

Per quanto riguarda i sintomi l’Iss spiega che “l’infezione generalmente non dà sintomi, o dà una sintomatologia lieve di tipo respiratorio. In alcuni casi può provocare una polmonite, che nelle situazioni più gravi può richiedere il ricovero ospedaliero. Nel paziente, spesso, il mycoplasma pneumoniae può essere presente contemporaneamente con altri patogeni, come ad esempio i virus respiratori. Questa co-infezione sostenuta da più patogeni, può esacerbare la sintomatologia e richiedere un ricovero ospedaliero”.

“Fortunatamente il Mycoplasma pneumoniae è sensibile a diversi antibiotici – conclude l’Iss – e quindi l’infezione può essere curata tramite l’applicazione di protocolli medici ben conosciuti e verificati”. 

AGI – E’ ben noto che l’aumento e la perdita del peso corporeo, oltre che dall’apporto calorico, siano determinati da innumerevoli fattori. Ora, i ricercatori dell’Università di Osaka hanno identificato un gene che potrebbe fungere da regolatore principale dell’accumulo di grasso in un’ampia gamma di condizioni.

Nello studio, pubblicato su Nature Communications, gli scienziati giapponesi hanno rivelato che questo singolo gene potrebbe essere influire sulla forma corporea. Il fatto che una persona sia magra o grassa dipende da una serie di fattori, dai livelli di attività all’assunzione di cibo, alle malattie, all’ambiente di vita e altro ancora.

Anche la storia familiare gioca chiaramente un ruolo, ma la base genetica del peso corporeo è ancora poco conosciuta. “Il grasso è un tessuto unico, regolato da diversi fattori nutrizionali, ormonali e molecolari”, ha spiegato Jihoon Shin, autore principale dello studio.

“Tuttavia, una base genetica unificata per la sua regolazione rimane elusiva”, ha continuato Shin. Per identificare i fattori genetici responsabili del deposito di grasso, i ricercatori hanno analizzato i dati di espressione genica del tessuto adiposo rispetto ad altri tipi di tessuto.

I risultati hanno mostrato che HSP47, un chaperone molecolare, ovvero una classe funzionale di famiglie proteiche con la funzione predominante di prevenire associazioni non corrette e aggregazioni di catene polipeptidiche non ripiegate sia in condizioni fisiologiche che in condizioni di stress, specifico del collagene, è un determinante significativo dei livelli di grasso corporeo.

“L’HSP47 è espresso ad alti livelli nel tessuto adiposo e aumenta con l’obesità e l’assunzione di cibo; al contrario, il suo livello di espressione diminuisce con il digiuno, l’esercizio fisico, la restrizione calorica, la chirurgia bariatrica e la sindrome da deperimento”, ha detto Iichiro Shimomura, autore senior. “Inoltre, l’espressione di HSP47 è strettamente correlata alla massa grassa, all’indice di massa corporea, alla circonferenza della vita e alla circonferenza dei fianchi”.

E’ importante notare che l’insulina, un ormone associato all’accumulo o alla perdita di grasso, aumenta i livelli di espressione di HSP47, mentre i glucocorticoidi ne diminuiscono i livelli. Inoltre, un’espressione elevata o bassa di HSP47 è stata collegata a livelli elevati o bassi di grasso corporeo sia negli esseri umani che nei topi.

“I risultati del nostro studio evidenziano il ruolo significativo che HSP47 svolge nel determinare la quantità di grasso corporeo di un individuo in condizioni normali e in risposta a vari fattori come malattie o cambiamenti dei livelli ormonali”, ha affermato Shin.

L’identificazione di HSP47 come elemento chiave che influenza l’accumulo di grasso fornisce una chiara base genetica per i livelli complessivi di grasso corporeo e l’utilizzo di energia. Dato il ruolo centrale di HSP47 in questo processo, è possibile che alterazioni di questo gene possano creare disturbi metabolici.

AGI – In uno studio appena pubblicato su Annals of Internal Medicine, è stato scoperto che respirare l’aria inquinata nel traffico, senza l’uso di mascherine o altre protezioni, porta a un aumento immediato e importante della pressione sanguigna. Questi effetti durano per più di 24 ore.

Gli scienziati hanno condotto un esperimento in cui le persone sono state guidate attraverso il traffico a Seattle, Washington, per tre giorni tra il 2014 e il 2016. Durante questo periodo, sono stati esposti all’inquinamento dell’aria da traffico all’interno di un’auto senza l’uso di filtri. I risultati hanno mostrato che la pressione sanguigna aumenta di 4,5 millimetri di mercurio in modo veloce, raggiungendo il massimo entro 60 minuti e mantenendosi alta per oltre 24 ore.

L’inquinamento dell’aria da traffico è già noto come causa di malattie cardiache e altri problemi di salute. Questo studio sottolinea che l’essere esposti alle particelle nell’aria durante il tragitto quotidiano può immediatamente influenzare la pressione sanguigna. Inoltre, l’uso di filtri per l’aria all’interno dell’auto potrebbe ridurre questi effetti negativi.

Con sempre più persone che trascorrono tempo negli spostamenti, questo studio mostra quanto sia importante considerare l’aria inquinata dal traffico come un fattore che può colpire la salute del cuore. Utilizzare filtri di alta qualità all’interno delle auto potrebbe essere un modo efficace per proteggersi dagli effetti nocivi dell’inquinamento atmosferico durante gli spostamenti in auto. 

AGI – Non esiste un chiaro danno alla salute mentale derivante dall’uso di internet. A dirlo è un’importante indagine condotta dall’Oxford Internet Institute, sfatando l’ipotesi comune di effetti psicologici negativi legati alle tecnologie e alle piattaforme online. Lo studio, si legge nel comunicato stampa dell’Istituto, ha coinvolto due milioni di individui dai 15 agli 89 anni in 168 paesi e ha analizzato il benessere psicologico nel periodo dal 2005 al 2022, in relazione all’uso di internet e alle statistiche sulle connessioni dei cellulari a livello nazionale.

Contrariamente alle aspettative, il team di ricerca ha riscontrato associazioni minori e meno consistenti di quanto ci si aspetterebbe se internet stesse causando danni psicologici diffusi. A condurre lo studio, il Professor Andrew Przybylski dell’Oxford Internet Institute e il Professor Matti Vuorre dell’Università di Tilburg, nonché Ricercatore Associato presso l’Oxford Internet Institute. I risultati mostrano che negli ultimi due decenni si sono verificati solo cambiamenti modesti e poco consistenti nel benessere globale e nella salute mentale. Il Professor Przybylski dichiara: “Abbiamo cercato intensamente un nesso che collegasse la tecnologia al benessere e non l’abbiamo trovata”.

Il Professor Vuorre aggiunge: “Abbiamo studiato i dati più estesi mai considerati riguardo al benessere e all’adozione di internet, sia nel tempo che nelle demografie della popolazione. Anche se non siamo riusciti ad affrontare gli effetti causali dell’uso di internet, i nostri risultati descrittivi indicano associazioni piccole e inconsistenti”.

Anche l’analisi che suddivide per gruppo di età e genere non ha rivelato schemi demografici specifici tra gli utenti di Internet, inclusi donne e ragazze giovani. In realtà, per il paese medio, la soddisfazione nella vita è aumentata di più per le donne nel periodo preso in considerazione. Secondo il Professor Przybylski, “Abbiamo testato accuratamente se ci fosse qualcosa di speciale in termini di età o genere, ma non c’è alcuna evidenza a sostegno delle idee comuni che certi gruppi siano più a rischio”.

Il team sottolinea che, per ottenere evidenze conclusive sull’impatto dell’uso di internet, le aziende tecnologiche devono fornire ulteriori dati. Il Professor Przybylski afferma che “la ricerca sugli effetti delle tecnologie internet è bloccata perché i dati più urgentemente necessari sono raccolti e custoditi dietro porte chiuse da aziende tecnologiche e piattaforme online”. Il team conclude dicendo che è cruciale studiare in modo più dettagliato e trasparente, coinvolgendo tutti gli attori interessati, i dati sull’adozione individuale delle tecnologie internet. Tali dati esistono e vengono continuamente analizzati da aziende tecnologiche globali per scopi di marketing e miglioramento dei prodotti, ma purtroppo non sono accessibili per la ricerca indipendente.

AGI – Il Covid-19 ha causato un’allarmante impennata di nascite premature, ma i vaccini sono stati fondamentali per riportare il tasso di nascite precoci ai livelli pre-pandemici. È quanto emerge da nuova analisi dei registri delle nascite della California, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences. “L’effetto dell’infezione materna da Covid dall’inizio della pandemia al 2023 è stata notevole e ha provocato un aumento del rischio di nascite pretermine di 1,2 punti percentuali“, ha detto Jenna Nobles, docente di sociologia dell’Università del Wisconsin-Madison.

“Spostare così tanto l’ago della bilancia delle nascite premature è simile a un’esposizione ambientale disastrosa, come settimane di respirazione del fumo intenso di un incendio selvaggio”, ha continuato. Ma, i primi due anni della pandemia sono stati di gran lunga peggiori per molte gravidanze, secondo i risultati descritti nello studio da Nobles e dalla coautrice, Florencia Torche, docente di sociologia dell’Università di Stanford.

Gli effetti sulle gravidanze

Il virus da Covid mette a rischio le gravidanze, provocando risposte immunitarie e infiammatorie e deteriorando la placenta. Una conseguenza del contagio è l’interruzione precoce della gravidanza e il parto ben prima della fine delle 39-40 settimane di gestazione previste. Con la diffusione del virus da luglio a novembre 2020, la probabilità che una madre affetta da Covid in California partorisse più di tre settimane prima della data prevista era di 5,4 punti percentuali più alta del previsto, il 12,3% invece del 6,9%, secondo il nuovo studio.

I ricercatori hanno misurato l’impatto della pandemia con l’aiuto dei registri delle nascite dei quasi 40 milioni di abitanti della California, utilizzando informazioni sulla tempistica e il confronto delle nascite tra fratelli per analizzare l’impatto della pandemia sui diversi gruppi demografici. Gli scienziati hanno scoperto che il fattore di rischio di parto pretermine è diminuito leggermente all’inizio del 2021 prima di calare drasticamente nel 2022, quando l’infezione in gravidanza non ha causato alcun aumento del rischio di parto prematuro.

Secondo i ricercatori, i vaccini hanno contribuito a questa diminuzione, effetto che è emerso quando le registrazioni delle nascite sono state suddivise geograficamente. “Fra i codici di avviamento postale con tassi di vaccinazione più elevati, l’eccesso di rischio di nascita pretermine è diminuito molto più rapidamente”, ha dichiarato Nobles. “Sino all’estate del 2021, la vaccinazione per il COVID-19 in gravidanza non aveva mostrato alcun effetto sul rischio di parto pretermine in queste comunità”, ha proseguito Nobles. “Ci è voluto quasi un anno in più perché fra i codici di avviamento postale con una più bassa diffusione del vaccino si cominciassero a rilevare i primi effetti”, ha aggiunto Nobles.

Questo dato evidenzia quanto i vaccini per il Covid siano stati protettivi, aumentando più rapidamente l’immunità”

“La diffusione precoce della vaccinazione ha probabilmente impedito migliaia di nascite pretermine negli Stati Uniti”. La nascita prematura è associata a una serie di problemi di salute a breve e lungo termine. È il principale responsabile della mortalità infantile. Inoltre, la riduzione dello sviluppo nel grembo materno può richiedere ulteriori cure mediche che costano, in media, più di 80.000 dollari per bambino.

Secondo le stime, la nascita pretermine, anche di poche settimane, riduce le capacità cognitive, la salute e i guadagni previsti da adulti. “Abbiamo riscontrato un incremento del rischio del 38% nella dipendenza da cure intensive neonatali, con la possibilità di ritardi nello sviluppo e gravi implicazioni anche per le famiglie, nei casi di nascita prematura, cioè prima delle 32 settimane”.

I vaccini non danneggiano il feto

Le prove che dimostrano gli effetti positivi della vaccinazione nella prevenzione delle nascite premature potrebbero contribuire a dissipare alcune delle principali preoccupazioni espresse quando il vaccino per il COVID-19 è diventato disponibile per le pazienti in gravidanza.

Una delle principali cause dell’esitazione nei confronti del vaccino è la preoccupazione per la sicurezza del feto e per la possibilità di rimanere incinta”

“Sappiamo già che ci sono pochissime prove di effetti negativi della vaccinazione sullo sviluppo fetale; i risultati di questo studio sono una prova inconfutabile del fatto che ciò che danneggia effettivamente il feto non è la vaccinazione”, ha precisato Nobles. “Questo è un messaggio che i medici possono e devono condividere con le pazienti più scettiche e preoccupate”.

Secondo i ricercatori, le evidenze tratte dallo studio sono un argomento convincente a favore delle vaccinazioni e dei richiami, anche dopo la diminuzione del rischio di parto prematuro legato al Covid, in California. “Si tratta ancora di un’epidemia in evoluzione e il tasso di richiami del vaccino tra le persone in gravidanza è attualmente molto basso”, ha sostenuto Nobles. “E’ straordinaria e incredibile la riduzione sostanziale a zero nascite pretermine aggiuntive, ma non vuol dire che sarà così in eterno”.  

AGI – Ben 4000 trapianti di fegato: un traguardo record in Italia e in Europa per l’ospedale Molinette di Torino. Una storia lunga 33 anni, da quando il 10 ottobre 1990 il professor Mauro Salizzoni eseguì il primo trapianto di fegato presso l’ospedale Molinette di Torino, dopo essersi formato insieme con tutta l’equipe presso le Cliniques Universitaires Saint-Luc di Bruxelles in Belgio. Un’attività che dai suoi albori è andata sempre più consolidandosi, parallelamente alla crescita delle attività di trapianto d’organo, in particolare di fegato, in Italia.

Condotto per 28 anni dal suo fondatore, il Centro Trapianto Fegato di Torino è attualmente diretto dal 2018 dal professor Renato Romagnoli. In questi 33 anni l’èquipe di Torino ha saputo affrontare e vincere tutte le sfide che le si sono poste di fronte, essendo anche capace di offrire insegnamento e supporto alla nascita e sviluppo di altri programmi di trapianto di fegato in Italia e nel Mondo. In quest’anno 2023, durante il quale l’attività di trapianto d’organi in Italia segnerà il suo record di sempre (con una previsione di incremento del 15% rispetto all’anno 2022), il Centro Trapianto Fegato di Torino raggiunge il traguardo dei 4000 trapianti totali.

Di fatto abbatte il suo precedente record stabilito nel lontano 2005 di 166 trapianti di fegato eseguiti in un anno. Si stima infatti che per la fine del 2023 verrà superato il muro dei 180 trapianti di fegato in un anno, ovvero un trapianto ogni due giorni (con un incremento netto del 25% rispetto all’anno 2022). Nel dettaglio, a oggi sono 3993 i trapianti di fegato eseguiti presso l’ospedale Molinette di Torino. Si è trattato in 3806 casi di pazienti adulti e in 187 casi di pazienti pediatrici. Tra questi, 16 trapianti di fegato sono stati eseguiti da donatore vivente (12 casi adulti e 4 casi pediatrici) ed 8 trapianti sono stati eseguiti con tecnica ‘domino’. 

 In 144 casi si è trattato di trapianti di fegato eseguiti con organi “split”, ottenuti dividendo in due parti un fegato di un donatore cadavere. In 117 casi il fegato è stato trapiantato in combinazione con altri organi, principalmente il rene (96 casi), ma anche il polmone, il pancreas e il cuore. I riceventi che hanno beneficiato di questi trapianti sono stati non solo pazienti provenienti da tutte le 20 regioni italiane, ma anche pazienti provenienti da altri 29 Paesi del Mondo intero (Europa, Asia, Africa e le 2 Americhe). Si aggiungono nel computo totale almeno altri 12 trapianti supervisionati in regime di convenzione dal professor Salizzoni nel 1996 a Pisa e nel 2004 a Cagliari e, più recentemente, dal professor Romagnoli nel 2022 a Bari.

Anche i risultati di sopravvivenza pongono al primo posto in Italia il Centro di Torino (come recentemente certificato nel Report del Centro Nazionale Trapianti di Roma pubblicato nel luglio ultimo scorso). In particolare, considerando i primi trapianti di fegato eseguiti in riceventi adulti nel periodo 2014-2020, le sopravvivenze dei pazienti ad 1 e a 5 anni dal trapianto raggiungono gli straordinari valori di 95,5% ed 87,6% (migliorando rispettivamente di 3,6 e di 7,9 punti percentuali i risultati ottenuti nel periodo 2000-2013).

Stesso discorso vale per i trapianti eseguiti nei bambini, in cui il Centro di Torino primeggia con valori di sopravvivenza globale del 96% ad 1 e a 5 anni dal trapianto. Per celebrare il raggiungimento dello storico traguardo si terra’ domani, presso la Centrale Lavazza di Torino (via Ancona 11), sotto l’egida dell’Associazione Italiana Trapiantati di Fegato, un’intera giornata dedicata alla diffusione della cultura della donazione degli organi ed al confronto tra riconosciuti esperti del settore trapiantologico e un pubblico costituito non solo da addetti ai lavori.

AGI – Un nuovo studio condotto dall’Università di Bristol e dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha rivelato che consumare cibi ultraprocessati potrebbe essere collegato a un rischio più elevato di sviluppare tumori della parte superiore del tratto aerodigestivo, come bocca, gola ed esofago.

In molti studi, è emerso che i cibi ultraprocessati sono associati al rischio di cancro, e questo nuovo studio, pubblicato sulla rivista European Journal of Nutrition, ha cercato di capire se l’obesità, spesso collegata al consumo di questi cibi, fosse l’unico fattore di rischio. I ricercatori hanno analizzato dati su dieta e stile di vita di 450.111 adulti seguiti per circa 14 anni.

I risultati hanno mostrato che mangiare il 10% in più di cibi ultraprocessati è associato a un aumento del 23% nel rischio di tumori della testa e del collo e del 24% nel rischio di adenocarcinoma dell’esofago. Fernanda Morales-Berstein, autrice principale dello studio e dottoranda presso l’Università di Bristol, ha spiegato che i cibi ultraprocessati sono stati collegati all’eccesso di peso in molti studi, ma nel loro studio il legame con il cancro del tratto aerodigestivo sembrava essere spiegato solo in parte dal peso corporeo.

Gli autori suggeriscono che potrebbero esserci altri meccanismi in gioco, come gli additivi (emulsionanti, dolcificanti artificiali) e i contaminanti presenti negli imballaggi alimentari e nel processo di produzione. Tuttavia, hanno avvertito che i risultati potrebbero essere influenzati da certi tipi di pregiudizi e hanno notato un’associazione tra un maggior consumo di cibi ultraprocessati e un aumento del rischio di morti accidentali, che è altamente improbabile che sia causale.

George Davey Smith, professore di epidemiologia clinica presso l’Università di Bristol, ha sottolineato che, sebbene i cibi ultraprocessati siano associati a diversi problemi di salute, non è ancora chiaro se siano la causa o se fattori sottostanti come comportamenti legati alla salute e la posizione socioeconomica siano responsabili di tale associazione.

Inge Huybrechts, responsabile del team di esposizioni e interventi sullo stile di vita presso l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, ha aggiunto che sono necessari ulteriori studi a lungo termine per confermare questi risultati, considerando anche le abitudini alimentari contemporanee. Ulteriori ricerche sono necessarie per identificare altri meccanismi, come gli additivi alimentari e i contaminanti, che potrebbero spiegare i legami osservati.

Tuttavia, basandosi sul fatto che il grasso corporeo non spiega completamente il collegamento tra il consumo di cibi ultraprocessati e il rischio di tumori del tratto aerodigestivo superiore, Fernanda Morales-Berstein ha suggerito che concentrarsi solo sulla perdita di peso potrebbe non contribuire significativamente alla prevenzione di questi tipi di cancro.

L’associazione tra un maggiore consumo di questi cibi e un aumento del rischio di tumori del tratto aerodigestivo superiore supporta le raccomandazioni per la prevenzione del cancro, che suggeriscono di seguire una dieta sana, ricca di cereali integrali, verdure, frutta e legumi.