Ultime News
Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterEmail this to someone

AGI -Le donne coinvolte negli incidenti stradali sono associate a un rischio maggiore di subire traumi rispetto alle controparti maschili. Lo evidenzia uno studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Public Health, condotto dagli scienziati del Medical College of Wisconsin. Il team, guidato da Susan Cronn, ha esaminato i dati relativi alle lesioni da trauma delle vittime di incidenti automobilistici per valutare le distinzioni di genere. Gli equipaggiamenti di sicurezza delle automobili, spiegano gli esperti, sono stati progettati pensando a un corpo maschile, il che potrebbe spiegare perché le donne siano generalmente associate a rischi maggiori di lesioni, traumi e intrappolamenti in caso di incidenti.

“Abbiamo scoperto una notevole differenza di genere in termini di lesioni da trauma – sottolinea Cronn – i modelli evidenziano che le donne sono associate a conseguenze importanti più frequentemente rispetto alle controparti maschili, indipendentemente dalla gravità degli urti. Dobbiamo pertanto approfondire e capire come migliorare queste statistiche”. In totale, gli studiosi hanno utilizzato i dati di oltre 56 mila vittime di incidenti stradali. L’impiego di dati clinici è stato estremamente utile per ottenere un quadro reale della situazione piuttosto che semplici stime di rischio. Stando a quanto emerge dall’indagine, gli uomini erano associati a un tasso di infortuni generale superiore, ma il numero di lesioni al bacino e al fegato era significativamente più elevato per le donne, così come il rischio di traumi, perdite di sangue, emorragie e tasso di mortalità. “Queste informazioni – aggiunge Cronn – potrebbero indicare che i corpi femminili sono più vulnerabili in alcune situazioni. Spesso si pensa che i segni vitali siano gli stessi per ogni paziente, ma è possibile che sia necessario ridefinire i parametri di normalità”. Un indice di trauma differenziato per genere potrebbe rivoluzionare il modo in cui medici, paramedici e soccorritori si comportano con le vittime di incidenti. “Speriamo che i nostri risultati possano contribuire a sviluppare migliori sistemi di sicurezza automobilistica – conclude Cronn – che tengano in considerazione le importanti differenze tra i corpi maschili e femminili. Al contempo, i prossimi studi dovranno valutare i dati relativi alla dimensione dei veicoli, la tipologia e la dinamica degli incidenti, che non erano inclusi nella nostra analisi”. 

AGI – L’analisi dell’andatura degli anziani attraverso una fotocamera di profondità potrebbe contribuire a individuare il rischio di declino cognitivo precoce. Questa interessante prospettiva emerge da uno studio, pubblicato sul Journal of Alzheimer s Disease Reports, condotto dagli scienziati del College of Engineering and Computer Science della Florida Atlantic University. Il team, guidato da Behnaz Ghoraani, ha esaminato la correlazione tra sottili disturbi dell’andatura negli anziani e il rischio di sviluppare declino cognitivo. In ambito clinico, spiegano gli esperti, l’analisi della camminata sta emergendo come un prezioso complemento non invasivo alle valutazioni cognitive. Il gruppo di ricerca ha considerato la capacità di un gruppo di volontari di seguire un percorso curvo, che richiede maggiori capacità cognitive e motorie rispetto alla camminata in linea retta.

 

Gli scienziati hanno utilizzato una telecamera di profondità, in grado di rilevare e monitorare 25 articolazioni del corpo, per registrare l’andatura dei partecipanti e individuare i segni di deterioramento cognitivo lieve. I singoli segnali sono stati elaborati per individuare 50 marcatori di andatura, che sono stati confrontati utilizzando analisi statistiche descrittive. Questi parametri hanno evidenziato differenze significative tra il gruppo di controllo, formato da partecipanti sani, e i pazienti con lieve deterioramento cognitivo. Tra le caratteristiche più rilevanti, sono emersi macro-marcatori, come velocità e cadenza, ma anche micro-marcatori, come fasi di appoggio, oscillazione e falcata.

 

“La camminata curva – riporta Ghoraani – ha mostrato notevoli disparità tra i nostri gruppi di studio. In caso di deterioramento cognitivo, si evincevano una lunghezza media del passo e una velocità mediamente inferiori, ma anche una diminuzione nella simmetria e nella regolarità del passo”. I ricercatori non hanno riportato particolari differenze di genere nei risultati ottenuti. Tuttavia, i partecipanti con deterioramento cognitivo erano associati a un indice di massa corporea più elevato e livelli di istruzione generalmente più bassi rispetto ai volontari sani. “Un lieve deterioramento cognitivo – conclude Ghoraani – può essere un segno precoce della malattia di Alzheimer. Il nostro approccio migliora la comprensione delle caratteristiche legate all’andatura e individua un potenziale strumento efficace e non invasivo per rilevare il rischio di sviluppare questa problematica”.

AGI – Più di 35 anni dopo la sua invenzione, una terapia che utilizza cellule immunitarie estratte dal tumore di una persona per combatterlo sta finalmente arrivando ai pazienti. Almeno 20 persone negli Usa con melanoma avanzato hanno intrapreso un trattamento con i cosiddetti linfociti infiltranti il tumore (TIL), che prendono di mira e uccidono le cellule tumorali. Il trattamento, chiamato lifileucel, è la prima terapia TIL ad essere approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense. Ed è la prima terapia con cellule immunitarie a ottenere l’approvazione della FDA per il trattamento di tumori solidi come il melanoma. I medici utilizzano già cellule immunitarie chiamate cellule T CAR (recettore chimerico dell’antigene) per curare il cancro, ma la terapia CAR-T viene utilizzata solo contro i tumori del sangue come la leucemia.

 

I TIL sono un tipo di cellula immunitaria naturale chiamata cellula T. I TIL riconoscono bersagli, chiamati antigeni, sulla superficie delle cellule tumorali e si insinuano nei tumori solidi per ucciderli. Il loro uso ora negli Usa è il frutto degli studi di Steven Rosenberg, ricercatore sul cancro e chirurgo presso il National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland, che per primo ha dimostrato che i TIL potrebbero ridurre i tumori nelle persone con melanoma. Negli studi clinici, il trattamento TIL ha messo alcune persone con melanoma in remissione fino a 20 anni. La FDA ha concesso l’approvazione il 16 febbraio per il lifileucel, venduto con il nome di Amtagvi dalla società di biotecnologie Iovance Biotherapeutics, con sede a San Carlos, California. L’approvazione “è un grande risultato”, afferma lo specialista TIL Nick Restifo, capo scienziato presso Marble Therapeutics a Boston, Massachusetts, sentito da “Nature”.

 

Dice che aprirà la strada all’uso dei TIL per trattare altri tumori, compresi i tumori del polmone e del pancreas, nel prossimo futuro. Per questo trattamento dopo che il tumore di una persona è stato rimosso, i chirurghi inviano campioni di tessuto a un laboratorio che isola i TIL e li fa crescere per tre settimane finché non si sono moltiplicati in miliardi di cellule. Prima che i TIL vengano reinfusi nella persona trattata, al ricevente viene somministrata la chemioterapia e una sostanza chimica immunitaria chiamata interleuchina-2 (IL-2) che uccide temporaneamente le cellule immunitarie per fare spazio ai TIL. Per ora, lifileucel può essere utilizzato solo come trattamento di ultima istanza nelle persone con alcune forme di melanoma avanzato che non hanno risposto ad altri trattamenti. Ma Iovance e altri stanno attualmente testando il lifileucel come trattamento di prima linea contro il melanoma. Alcune prove suggeriscono che potrebbe essere ancora più efficace come trattamento di prima o seconda linea, prima che un trattamento aggressivo possa danneggiare i TIL nei tumori.

 

Nello studio condotto da Iovance che ha testato il lifileucel su 153 persone con melanoma, i tumori si sono ridotti nel 31 per cento dei partecipanti. E in un secondo studio condotto in Danimarca, il 20 per cento delle persone che hanno ricevuto la terapia TIL sono andate in remissione completa, rispetto al 7 per cento di coloro che hanno ricevuto un farmaco diverso. Iovance ha affermato che prevede di far pagare 515.000 dollari per il trattamento, rendendolo ancora più costoso di alcune delle sei terapie CAR-T approvate negli Stati Uniti. Ma altri approcci potrebbero rendere i TIL più convenienti, afferma Inge Marie Svane, immunologa oncologica presso l’Ospedale universitario di Copenaghen che sta conducendo studi TIL in Europa. Diversi ospedali universitari stanno coltivando TIL per il melanoma senza il coinvolgimento di un’azienda, utilizzando un processo che costa circa 50.000 euro.

AGI – Le donne italiane trascurano la propria salute e stanno peggio oggi che all’apice della pandemia. Sono poco confortanti i dati emersi dall’Hologic Global Women’s Health Index, indagine annuale, giunta alla sua terza edizione, che misura lo stato di salute del 97% delle donne e delle ragazze del mondo di età pari o superiore ai 15 anni. L’analisi è stata sviluppata in collaborazione con Gallup, che ha intervistato oltre 147.000 donne e uomini di 143 Paesi e territori, in più di 140 lingue. L’Hologic Global Women’s Health Index ha l’obiettivo di essere un punto di riferimento permanente per misurare e monitorare i cambiamenti nei comportamenti e negli atteggiamenti che influenzano l’accesso delle donne a un’assistenza sanitaria di qualità in ogni angolo del mondo. Fornisce ai leader globali, ai paesi e ai sostenitori i dati e le intuizioni per alimentare politiche sanitarie innovative e programmi di assistenza che cambiano la vita.

 

Nel complesso, i dati raccolti nell’indagine vanno a descrivere cinque dimensioni della salute femminile interconnesse: la prevenzione, la salute emotiva, le opinioni sulla salute e sulla sicurezza, i bisogni di base e la salute individuale. Insieme, tali dimensioni spiegano più dell’80% della variazione nell’aspettativa di vita delle donne in tutto il mondo. I numeri dello studio, raccolti in Italia, però, rivelano una realtà particolarmente preoccupante. Solo il 51% degli intervistati si dichiara soddisfatto della disponibilità di un’assistenza sanitaria di qualità nella loro zona, percentuale che tende a diminuire ulteriormente per le donne appartenenti alle fasce di reddito più basse (48%). Un dato allarmante, soprattutto se paragonato al 2020, quando la soddisfazione era pari al 60% e rispetto la media globale ed UE (68%).
 

Inoltre, l’indice ha evidenziato che le donne italiane sono le meno partecipi ai programmi di prevenzione oncologica e malattie sessualmente trasmissibili: solo l’11% dichiara di essersi sottoposta a un test oncologico negli ultimi 12 mesi (media EU 20%, media globale 11%) e solo il 5% si è sottoposto a un test per le malattie o le infezioni sessualmente trasmissibili negli ultimi 12 mesi (media europea 8%, media mondiale 10%). L’Italia si colloca quindi al 17esimo posto nella dimensione prevenzione nel 2022, risultando così al di sotto della media dei paesi EU (25). Oltre a questo, dai dati si evidenzia come solo il 37% delle donne in Italia si è sottoposto a un esame della pressione arteriosa negli ultimi 12 mesi, un elemento in linea con il benchmark globale (36%) ma inferiore al benchmark UE (47%). Percentuale che è in diminuzione del -6% rispetto al 2020, quando molti esami routinari erano rallentati causa Covid-19. Anche i dati sulla salute emotiva non sono confortanti.

 

Dalla ricerca emerge che quasi 9 donne su 10 (86%) percepiscono la violenza domestica come un problema diffuso nel luogo in cui vivono, percentuale molto al di sopra della media globale (64%). Infine, almeno una donna su 10 in Italia riferisce di aver provato emozioni negative nel giorno precedente a quello dell’intervista, e anche in questo caso il tasso di emozioni negative è superiore sia alla media globale sia alla media dell’UE: preoccupazione (55% IT, 39% UE, 42% Global), tristezza (33% IT, 26% UE, 30% Global), stress (44% IT, 35% UE, 39% Global), rabbia (12% IT, 15% UE, 25% Global). L’indice complessivo sulla percezione della salute delle donne in Italia scende di una posizione, portando l’Italia dietro Paesi come Tagikistan, Uzbekistan, Vietnam, Bulgaria sotto la media dei paesi del G20. “Hologic è da sempre impegnata nel miglioramento della salute della donna”, commenta Giacomo Pardini, Senior Country Leader di Hologic Italia.

 

“I risultati del rapporto annuale Hologic Global Women’s Health Index, ora giunto al terzo anno, sono allo tempo stesso illuminanti e preoccupanti ed evidenziano l’importanza di aumentare gli sforzi collettivi per migliorare il benessere delle donne a livello globale. In un mondo in cui la salute delle donne riflette direttamente la salute delle società, è sorprendete osservare – continua – un peggioramento dei dati, specialmente in dimensioni cruciali come la prevenzione. Questi aspetti influenzano significativamente l’aspettativa di vita media delle donne alla nascita, sottolineando l’urgenza di affrontare tali sfide. Dobbiamo lavorare tutti insieme, imprese, associazioni e istituzioni affinché la salute delle donne sia prioritaria, indipendentemente dalla posizione geografica, dallo stato economico o dal livello di istruzione. Insieme, possiamo lavorare per un futuro in cui il benessere delle donne sia garantito”, conclude.

AGI – Il rischio obesità aumenta di 6 volte se i propri genitori erano obesi alla stessa età. Lo rivela uno studio, che verrà presentato al Congresso Europeo sull’obesità (ECO 2024) a Venezia il 12-15 maggio, condotto dagli scienziati dell’Università di Tromsø. Il team, guidato da Mari Mikkelsen, ha esaminato i dati relativi al peso e l’altezza di oltre duemila persone. I risultati hanno evidenziato un forte legame tra l’indice di massa corporea dei genitori di età compresa tra 40 e 59 anni e il parametro dei figli alla stessa età. Sempre più evidenze scientifiche mostrano che i figli di genitori affetti da obesità corrono un rischio più elevato di sviluppare la stessa problematica, ma finora questa correlazione non era stata monitorata fino all’età adulta. In questo lavoro, gli studiosi hanno scoperto che un solo genitore con obesità poteva triplicare la probabilità di accumulare peso in eccesso in età adulta per la prole rispetto ai figli di persone normopeso.

“I geni – afferma Mikkelsen – svolgono un ruolo importante sulla salute, e possono influenzare la suscettibilità dell’organismo all’aumento del peso, nonché il modo in cui rispondiamo agli ambienti in cui può essere più difficile mangiare in modo sano. L’obesità infantile – continua la ricercatrice – generalmente può accompagnare l’individuo fino alla prima età adulta. Il nostro lavoro dimostra che l’indice di massa corporea dei genitori tra i 40 e i 50 anni è strettamente collegato a quello dei figli alla stessa età”. In particolare, riportano gli scienziati, quado solo la madre o solo il padre avevano problemi di peso in eccesso, i bambini avevano una probabilità rispettivamente 3,44 e 3,74 volte più elevata di sviluppare obesità rispetto ai figli di persone normopeso. “Sebbene non siamo ancora in grado di spiegare le motivazioni alla base di questa correlazione – conclude Mikkelsen – il nostro lavoro evidenzia l’importanza di promuovere iniziative volte a trattare e prevenire l’obesità, una condizione che può influenzare la salute in modo significativo. La ricerca getta le basi per uno studio approfondito volto a individuare i fattori che influenzano la trasmissione intergenerazionale dell’obesità”. 

AGI – I cosmetici, come il fondotinta, se non rimossi durante l’esercizio fisico, possono svolgere un’azione negativa sulla pelle, causando secchezza e accelerando la produzione di sebo. A rivelarlo uno studio internazionale, pubblicato sul Journal of Cosmetic Dermatology. L’uso del make-up può esaltare la bellezza di una persona e nascondere le imperfezioni della pelle. Per questa ragione, un numero sempre maggiore di persone svolge abitualmente attività fisica indossando cosmetici. Sebbene l’esercizio fisico abbia un effetto positivo sulla condizione della pelle, il trucco potrebbe avere potenziali effetti negativi sulla pelle.

Lo studio ha cercato di esplorare gli effetti del fondotinta in crema sulla pelle durante l’esercizio aerobico. Il fondotinta utilizzato era a base d’acqua privo di oli, non conteneva sostanze oleose ed era pensato per chi ha la pelle grassa. È stato scelto per controllare l’idratazione della pelle, ma anche perché ipoallergenico. La ricerca ha coinvolto 43 studenti universitari sani, di cui 20 di sesso maschile e 23 femminile. Ai partecipanti è stata applicato un fondotinta in crema su metà del volto, in due aree diverse, fronte e zigomo. L’altra metà del viso è servita da controllo. I livelli di idratazione, elasticità, pori, sebo e idratazione della pelle sono stati misurati con un dispositivo di analisi della pelle, prima e dopo un esercizio su tapis roulant di 20 minuti. La sudorazione è aumentata dopo l’esercizio sia nelle zone non truccate che in quelle truccate; tuttavia, l’effetto è stato maggiore nelle zone truccate. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i cosmetici impedisco al sudore di evaporare dall’epidermide.

L’elasticità della pelle è aumentata dopo l’esercizio, ma in misura maggiore nelle zone truccate rispetto a quelle non truccate. Dopo l’attività fisica, i pori si sono dilatati nella pelle non truccata, ma non in modo significativo in quella truccata. Ciò indica che il make-up potrebbe ostruire i pori. Secondo studi precedenti, se i pori sono ostruiti e la secrezione del sudore non avviene correttamente, il sebo e le sostanze di scarto sulla pelle possono aumentare, causando problemi cutanei. Il livello di idratazione della pelle è aumentato nelle zone non truccate e diminuito in quelle truccate, suggerendo che può essere difficile mantenere una pelle idrata quando si indossano cosmetici.

“Per la salute della pelle, è meglio svolgere l’esercizio fisico senza cosmetici”, ha dichiarato Dongsun Park, autore corrispondente della Korea National University of Education. “È sempre più diffusa la tendenza a indossare cosmetici durante l’attività fisica”, ha continuato Park. “Tuttavia, rimane la necessità di approfondire la conoscenza degli effetti della cosmesi sull’epidermide facciale durante l’esercizio fisico, date le lacune esistenti”, ha precisato Park. “Lo studio è uno dei pochi che mostra come il fondotinta influisca sulla pelle durante l’esercizio fisico”, ha sottolineato Park.

“È importante notare che il sudore combinato con il trucco può rappresentare un problema maggiore per la pelle a causa dell’ostruzione dei pori.”, hanno dichiarato i ricercatori. “Studi futuri dovrebbero esplorare l’uso di diverse creme per fondotinta: a base di olio, a base d’acqua e senza acqua”; hanno suggerito gli autori.

“È raccomandabile lavare delicatamente il viso prima dell’esercizio fisico per attenuare la possibile ostruzione dei pori durante l’attività”, hanno consigliato gli scienziati. “Inoltre, è consigliato un fondotinta a base d’acqua per coloro che hanno una pelle leggermente secca”, hanno suggerito gli autori. “La ricerca offre importanti spunti per il pubblico, incoraggiandolo a considerare le possibili conseguenze dell’uso del trucco durante l’attività fisica”, hanno aggiunto i ricercatori. “Studi futuri potrebbero prendere in considerazione la valutazione della sensibilità della pelle dei partecipanti e stratificare i gruppi di studio di conseguenza”, hanno concluso gli autori. 

AGI – Scadono come la lavatrice o il frigorifero: anche le protesi ortopediche che ci consentono di recuperare una funzione articolare compromessa, come correre, saltare o salire le scale, definita nel 2007 da Lancet “l’intervento del secolo”, non durano per sempre e nel tempo vanno incontro alla necessità di un “tagliando”. Una domanda in crescita esponenziale negli Stati Uniti che vale anche per l’Italia, per l’aumento progressivo di pazienti che vivranno più a lungo delle loro protesi, che hanno una durata media di circa 20 anni, a causa del dilatarsi dell’aspettativa di vita e dell’incremento di giovani, al di sotto dei 60 anni, che chiedono di sottoporsi a questo intervento. Si stima che ogni anno siano 20mila le protesi in “scadenza”. Per fare il punto e affrontare questa emergenza, si riuniscono oggi a Verona, fino all’8 marzo, i maggiori esperti nazionali e internazionali per il nono congresso dell’Associazione Italiana di Riprotesizzazione, organizzato dal Dipartimento di Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar, al fine di discutere le tematiche chirurgiche più avanzate, definire un razionale scientifico e preparare i giovani chirurghi ortopedici alla chirurgia di revisione. “Continua ad aumentare in Italia il numero di interventi per l’impianto di protesi ortopediche all’anca, ginocchio e spalla, che in vent’anni sono quasi triplicati, passando da 80 mila nel 2000 a oltre 220 mila nel 2022, secondo i più recenti dati Agenas”, dichiara Claudio Zorzi, tra i maggiori esperti, presidente del congresso e direttore dell’Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar, che proprio in virtù dell’eccellenza raggiunta nel campo della revisione di protesi è tra i centri con la più alta casistica in Italia e struttura di riferimento regionale. “Una quantità impensabile di impianti che colloca l’Italia tra i primi posti in Europa per numero di protesi impiantate in tutte le articolazioni e per i livelli di affidabilità. Causa più frequente l’artrosi che tende a degenerare con l’età”, aggiunge. “Tuttavia – continua -, nonostante le moderne tecnologie siano riuscite a creare protesi di altissima qualità, la fisiologia dell’articolazione sottoposta a intervento di protesi è comunque ben diversa da quella naturale e ci possono essere molti fattori che ne influenzano il buon funzionamento: a partire dal naturale allentamento delle parti mobili, all’utilizzo eccessivo in sovraccarico, soprattutto nei pazienti più giovani o in chi è in sovrappeso, fino alle infezioni, o alla rottura molto rara delle componenti protesiche. Problemi che devono essere ripresi prima che vengano a crearsi gravi danni alle strutture ossee e legamentose”. Anche se ancora oggi non è ipotizzabile, per ogni paziente, una previsione precisa della durata dell’impianto che tenga conto delle tante variabili in gioco come l’età, il sesso, il tipo di protesi impiegata, si può stimare che le protesi saranno ancora “buone” a 15-20 anni dall’impianto, nel 90% dei casi, secondo un ampio studio pubblicato su Lancet dai ricercatori dell’Università di Bristol. Si calcola, infatti, che ogni anno siano oltre 20 mila le protesi che abbiano bisogno di un tagliando, pari al 10% delle oltre 220 mila protesi impiantate ad oggi annualmente. Un fenomeno destinato a una crescita esponenziale, in linea con i dati americani che prevedono aumenti record del 137% per la revisione di protesi all’anca e fino al 600% per la sostituzione di protesi del ginocchio, dovuto, da un lato, al fatto che gli anziani vivano sempre più a lungo e, dall’altro, all’aumento dei pazienti giovani, al di sotto dei 60 anni, che decidono di sottoporsi a questo intervento. “Stimando una durata media della protesi di circa 15-20 anni, risulta evidente come un paziente giovane che ha ricevuto indicazione di protesi al di sotto dei 60 anni, o anche un paziente anziano che si è sottoposto all’impianto intorno ai 70 anni, ‘consumino’ la propria protesi in un’età in cui la richiesta funzionale o l’assenza di dolore è ancora alta e rende necessaria una revisione”, spiega Antonio Campacci, responsabile della Chirurgia dell’anca dell’IRCCS di Negrar e vicepresidente del congresso insieme al collega responsabile della Chirurgia della spalla, Paolo Avanzi. “L’impianto di una protesi è una via a senso unico, se fallisce non si torna indietro e solo un’ulteriore protesi potrà cercare di garantire una funzione articolare che duri nel tempo”, sottolinea Campacci. Una procedura molto complessa che per il suo successo richiede centri ad alta specializzazione e chirurghi esperti che si auspica aumentino in tutta Italia alla luce dell’incremento esponenziale delle revisioni. Una eventuale carenza rischia di creare migliaia di disabili, se la revisione fallisce, con importanti oneri per il Servizio Sanitario Nazionale. “L’abitudine ad affrontare il problema protesico, già importante nei primi impianti, diventa essenziale nelle revisioni, in cui la pratica e l’esperienza riducono molto i rischi che i pazienti non raggiungano una normale autosufficienza”, puntualizza Zorzi. 

 

AGI – Onnipresenti, le micro- e nanoplastiche attaccano anche il cuore con effetti dannosi fino ad oggi sconosciuti e mai provati prima. Dopo averle trovate nell’uomo in diversi organi e tessuti, tra cui la placenta, il latte materno, fegato e polmoni, compresi i tessuti cardiaci, uno studio italiano rivela per la prima volta la loro presenza perfino nelle placcheaterosclerotiche, depositi di grasso nelle arterie pericolose per il cuore e fornisce soprattutto prova inedita della loro pericolosità. I dati raccolti mostrano infatti che le placche aterosclerotiche “da inquinamento” sono anche più infiammate della norma, quindi più friabili ed esposte a rischio di rottura con un aumento almeno 2 volte più alto del rischio di infarti,ictus e mortalità rispetto a placche aterosclerotiche che non sono infarcite di plastica. Lo ha verificato un ampio studio italiano coordinato da ricercatori dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, oggi pubblicato sulla rivista The New England Journal of Medicine, che dimostra come le placche aterosclerotiche contengano spesso micro- e nanoplastiche a base di polietilene (PE, rilevato nel 58.4% dei casi) o polivinilcloruro (o PVC, individuato nel 12.5% dei casi), due dei composti plastici di maggior consumo nel mondo, utilizzati per realizzare prodotti che vanno dai contenitori ai rivestimenti, dalle pellicole plastificate a materiali per l’edilizia.

L’editoriale del New England Medical Journal Lo studio italiano è accompagnato da un editoriale della rivista che definisce la ricerca “una scoperta rivoluzionaria che solleva una serie di domande urgenti: l’esposizione a microplastiche e nanoplastiche può essere considerato un nuovo fattore di rischio cardiovascolare? Quali organi oltre al cuore possono essere a rischio? Come possiamo ridurre l’esposizione?”, scrive l’epidemiologo Philip J. Landrigan, fondatore e direttore del Global Public Health Program del Boston College e del Global Pollution Observatory all’interno dello Schiller Institute for Integrated Science and Society, che firma l’editoriale.

“Il primo passo è riconoscere che il basso costo e la convenienza della plastica – continua – sono ingannevoli e che, di fatto, nascondono grandi danni, come il contributo della plastica agli esiti associati alla placca aterosclerotica. Dobbiamo incoraggiare i nostri pazienti a ridurre l’uso della plastica, in particolare degli articoli monouso non necessari e sostenere il Trattato Globale sulla Plastica delle Nazioni Unite per rendere obbligatorio un tetto globale alla produzione di plastica. Come per i cambiamenti climatici anche la risoluzione dei problemi associati alla plastica richiederà una transizione su larga scala dal carbonio fossile”. 

L’indagine è stata condotta su 257 pazienti con oltre 65 anni sottoposti a un’endoarterectomia per stenosi carotidea asintomatica, procedura chirurgica durante la quale sono state rimosse placche aterosclerotiche che poi sono state analizzate con il microscopio elettronico così da rilevare l’eventuale presenza di micro- e nanoplastiche, ovvero particelle plastiche con un diametro rispettivamente inferiore a 5 millimetri o a 1 micron (0,001 millimetri). “L’analisi ha dimostrato la presenza di particelle di PE a livelli misurabili (circa 20 microgrammi per milligrammo di placca) nel 58.4% dei pazienti e di particelle di PVC (in media 5 microgrammi per milligrammo di placca)nel 12.5% – dichiara Giuseppe Paolisso, coordinatore dello studio e Ordinario di Medicina Interna dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” -; soprattutto, tutti i partecipanti sono stati seguiti per circa 34 mesi e si è osservato che in coloro che avevano placche ‘inquinate’ dalle plastiche il rischio di infarti, ictus o di mortalità per tutte le cause era almeno raddoppiato rispetto a chi non aveva placche aterosclerotiche contenenti micro- e nanoplastiche, indipendentemente da altri fattori di rischio cardio-cerebrovascolari come età, sesso, fumo, indice di massa corporea, valori di colesterolo, pressione e glicemia o precedenti eventi cardiovascolari. I dati mostrano inoltre un incremento locale significativo di marcatori dell’infiammazione in presenza delle micro e nano plastiche”.

Il meccanismo dei danni creati al cuore dalla plastica “L’effetto pro-infiammatorio potrebbe essere uno dei motivi per cui le micro-nanoplastiche comportano una maggiore instabilità delle placche e quindi un maggior rischio che si rompano, dando luogo a trombi e provocando così infarti o ictus – spiega Raffaele Marfella, ideatore dello studio e Ordinario di Medicina Interna dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli” –. Dati raccolti in vitro e negli animali da esperimento hanno già mostrato che le micro- e nanoplastiche possono promuovere lo stress ossidativo e l’infiammazione nelle cellule dell’endotelio che ricopre i vasi sanguigni, ma anche che possono alterare il ritmo cardiaco e contribuire allo sviluppo di fibrosi e alterazioni della funzionalità del cuore: questi risultati mostrano per la prima volta nell’uomo una correlazione fra la presenza di micro- e nanoplastiche e un maggior rischio cardiovascolare”. La diffusione delle plastiche Il PE è una delle plastiche più utilizzate al mondo, tanto da costituire il 40% del volume totale della produzione mondiale di materie plastiche; leggero e resistente a urti e corrosione, è usato ampiamente per realizzare contenitori, oggetti, rivestimenti. Il PVC è altrettanto diffuso ed è una delle materie plastiche più versatili, perché può essere modellato e stampato a caldo, ma anche sciolto per spalmare tessuti e superfici; si trova in innumerevoli prodotti, dai rivestimenti alle pellicole, dai tubi fino ai dischi in vinile. Entrambi possono dare origine a microscopiche particelle plastiche che si riversano nell’ambiente e possono poi essere assorbite: stando all’ultimo rapporto Future Brief sulle nanoplastiche della Commissione Europeain media un adulto inala o ingerisce dalle 39.000 alle 52.000 particelle plastiche all’anno, paria 5 grammi di plastica alla settimana, l’equivalente di una carta di credito.

“L’aumento esponenziale della produzione è la causa principale del peggioramento dei danni da plastica – si legge nell’editoriale -. In tutto il mondo, la produzione annuale è cresciuta da meno di 2 milioni di tonnellate nel 1950 a circa 400 milioni di tonnellate a oggi. Si prevede che questa produzione raddoppierà entro il 2040 e triplicherà entro il 2060”.

“Il nostro studio non ha indagato l’origine delle micro- e nano plastiche rilevate nelle placche aterosclerotiche: considerata l’ampia diffusione di PE e PVC, attribuirne la fonte di provenienza nell’uomo è pressoché impossibile – precisa il professor Antonio Ceriello dell’IRCSS Multimedica di Milano -. Sono soprattutto le particelle plastiche più piccole, le nanoplastiche, a poter penetrare in profondità nei tessuti, ma numerosi studi ne hanno rinvenute anche di dimensioni maggiori e in quantità rilevabili in molti organi umani: si sono trovate particelle con un diametro fino a 10 micron nella placenta, fino a 15 micron nel latte materno e nelle urine, fino a 30 micron nel fegato, fino a 88 micron nei polmoni, con un diametro superiore a 0,7 micron nel sangue. Sebbene i nostri dati non stabiliscano un rapporto di causa-effetto, tuttavia suggeriscono che le micro- e nanoplastiche potrebbero costituire un nuovo, importante fattore di rischio cardiovascolare di cui tenere conto”. “La qualità di questo studio – aggiunge il Rettore dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Gianfranco Nicoletti – dimostra ancora una volta quanto sia cresciuta la nostra Università in questi anni e che grandi potenzialità di sviluppo essa ha nel prossimo futuro”.

AGI – Il benessere e la salute mentale dei bambini e degli adolescenti sono temi di portata globale che richiedono un’azione immediata e concreta da parte di ogni espressione della società. Non dobbiamo dimenticare che la salute è un diritto umano fondamentale per tutti gli individui. E’ questo l’appello lanciato da Ernesto Caffo, presidente di Fondazione Child in occasione del 17esimo Seminario Internazionale di Formazione in Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza promosso da Fondazione Child e Telefono Azzurro. La giornata, che si inserisce nella settimana del Seminario Internazionale di Formazione dedicata a esplorare le nuove frontiere della salute mentale in ambito giovanile, ha ospitato figure autorevoli della neuropsichiatria e psichiatria infantile. 

 

“Il problema globale della salute mentale dei bambini e degli adolescenti – ha detto in apertura dei lavori il direttore del tavolo tecnico sulla Salute Mentale Alberto Siracusano –  richiede un intervento, un aumento della ricerca e la creazione di maggiori conoscenze, non solo in ambito sanitario ma anche sociale, che è di estrema importanza. Il ministero è pronto e disposto ad assumersi la responsabilità di affrontare i problemi di salute mentale di bambini e adolescenti. Per questo accogliamo l’innovazione nelle conoscenze e nelle metodologie, enfatizzando gli approcci multidisciplinari e globali”.

 

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel mondo un individuo su sette tra i 10 e i 19 anni soffre di disturbi mentali. In Europa, ben 9 milioni di adolescenti sono alle prese con problemi di salute mentale, segnati principalmente da depressione, ansia e disturbi comportamentali. E’ sorprendente che il suicidio sia la principale causa di morte per i giovani tra i 15 e i 19 anni, con un rischio significativamente più elevato per i gruppi emarginati e discriminati. Anche in Italia la situazione è altrettanto grave. Dall’ultima indagine di Telefono azzurro realizzata con il supporto di BVA Doxa 1 ragazzo su 5 si sente in ansia, e per 1 su 3 chiedere aiuto ad un esperto di salute mentale e’ motivo di vergogna.

 

Dati questi che trovano conferma nell’aumento dei contatti da parte dei bambini con le linee di assistenza e supporto dedicate. Nel 2022 l’OMS ha registrato oltre 12.638.633 contatti alle linee di ascolto sul tema della salute mentale e delle violenze dai minori. “Ascoltare le voci dei bambini e degli adolescenti è fondamentale per rispondere in modo adeguato ed efficace ai loro bisogni di salute mentale. Una comunicazione efficace favorisce la fiducia e incoraggia l’apertura portando a un sostegno e a un intervento migliori. Il benessere mentale e’ un problema globale che riguarda diversi attori e allo stesso tempo richiede nuove categorie per essere compreso. Per questo diventa fondamentale condividere le conoscenze e le riflessioni tra i vari esperti a livello internazionale per mettere in atto azioni concrete per migliorare la salute mentale dei più piccoli”, ha sottolineato Ernesto Caffo, presidente di Fondazione Child. 

 

Come ha ricordato il professore ordinario di Psicologia alla Sapienza Università di Roma, Gian Vittorio Caprara, “la conoscenza dello sviluppo e del funzionamento della personalità è fondamentale per orientare gli interventi e le politiche pubbliche volte a promuovere il benessere degli individui e la prosperita’ delle società. E’ necessario mettere la persona al centro dell’indagine psicologica per valorizzare e sviluppare le attitudini e le capacita’ che si accordano con la piena realizzazione del potenziale degli individui”. “Per quanto riguarda la salute mentale la situazione varia a seconda della parte del mondo da cui si proviene. Dobbiamo però fare tutti di più e lavorare insieme per trovare un modo per fare davvero la differenza in termini di benessere e salute dei bambini e delle loro famiglie. Sono le nuove generazioni e dobbiamo trovare un modo per aiutarli a progredire nelle loro vite e nelle loro carriere” ha sottolineato James Frederick Leckman, professore di psichiatria infantile, psicologia e pediatria all’Università di Yale tra i più autorevoli esponenti nel suo campo negli USA. “In termini di episodi di suicidio, si nota un’enorme differenza per quanto riguarda le ragazze e le giovani donne giovani rispetto ai ragazzi. E’ interessante: quelli che hanno maggiori probabilità di suicidarsi sono i ragazzi e i giovani adulti, ma in realtà le giovani donne sono quelle che hanno maggiori probabilità di avere un’intenzione suicida che può essere piuttosto grave”.

 

“Ci sono diversi motivi per cui la salute mentale nei bambini e negli adolescenti è importante: non si può essere sani se non si ha una buona salute mentale, perchè il corpo è sano se il sistema di salute mentale funziona. Dobbiamo far star bene l’intera persona. La salute mentale nei bambini e negli adolescenti è spesso ignorata perchè le persone non vi prestano attenzione o si vergognano perchè c’è uno stigma al riguardo. Oggi sappiamo che un tasso tra il 15 e il 20% dei bambini ha disturbi mentali, ci convivono e noi abbiamo il dovere di occuparci di loro. E’ una questione di grande urgenza perchè questi bambini soffrono e la situazione sta continuando a peggiorare. I tassi di suicidio aumentano a causa di eventi come il Covid, le guerre, la violenza, le migrazioni, quindi è urgente lavorare tutti su questo tema” ha dichiarato Bennett L. Leventhal, professore di Psichiatria infantile e dell’adolescenza dell’Università di Chicago.

AGI – Anche per il paziente con problemi di linguaggio il caregiver è un pilastro fondamentale. Dei 3 milioni in Italia che assistono molti pazienti, circa un terzo si occupa proprio di supportare coloro che seguono cure logopediche. I caregiver possono, infatti, contribuire alla prevenzione e rieducazione dei disturbi della comunicazione e della deglutizione e sono anche un “ponte comunicazionale” nel dialogo con loro cosi come nell’interazione con persone con demenze e afasia (come Bruce Willis). Per questo ai caregiver è dedicata la Giornata Europea della Logopedia (6 marzo 2024) celebrandone, quest’anno, l’importante ruolo a fianco dei logopedisti. E come ogni anno, nella settimana che “circonda” la giornata, quindi quella dal 4 all’8 marzo, dalle 10 alle 12, la Federazione dei Logopedisti Italiani, FLI, apre le proprie linee telefoniche e la mail a tutti i cittadini per avere informazioni sulle principali problematiche del linguaggio e sull’assistenza ai pazienti. Il numero da contattare è il 345.2754760, la mail è info@fli.it. Tutte le informazioni sono sul sito www.fli.it.

 

Secondo gli esperti, i caregiver agiscono tramite l’utilizzo di approcci codificati come il Communication Partner Training o la Comunicazione Aumentativa Alternativa, e con una serie di azioni e strategie condivise con familiari, amici e altri professionisti per favorire il dialogo e l’interazione. “I logopedisti riconoscono il ruolo cruciale del caregiver nella gestione del paziente e della persona fragile con disturbi del linguaggio”, spiega Tiziana Rossetto, logopedista e presidente della FLI. “La nostra collaborazione con queste figure di riferimento è una pratica consolidata già da ben prima del 2020, anno della pandemia, in cui è emerso a pieno titolo il loro valore nel tessuto sociale, e che si è incrementata nel tempo. La collaborazione con il caregiver comincia dunque dal primo incontro, con la stesura dell’anamnesi e la valutazione indiretta tramite interviste e questionari, e prosegue via via fino ai follow-up e alle dimissioni”, aggiunge.

 

“Un aiuto che diviene fondamentale in caso di disturbi del linguaggio come l’afasia o le difficoltà comunicativo-linguistiche”, sottolinea Ilaria Ceccarelli, logopedista FLI (ASL Roma 4). “Qui il caregiver agisce da ‘partner comunicativo’ tramite l’utilizzo, ad esempio, di approcci codificati come il Communication Partner Training o la Comunicazione Aumentativa Alternativa, e con una serie di azioni e strategie condivise con familiari, amici e altri professionisti per favorire il dialogo e l’interazione”, aggiunge. “Anche in casi di disturbi della deglutizione – precisa Raffaella Citro, logopedista FLI (A.O.U. Ruggi D’Aragona, Salerno) – il caregiver fornisce un aiuto chiave nell’organizzare e gestire i pasti secondo quanto concordato con il logopedista in termini di consistenza dei cibi, tempi di somministrazione, posture facilitanti, con un importante ruolo di monitoraggio per la sicurezza della persona assistita, i cui gusti e preferenze, con il supporto del caregiver, sarà possibile rispettare”.

 

Aggiunge Anna Giulia De Cagno, logopedista vicepresidente FLI: “Negli ultimi anni, inoltre, si è affermato il fondamentale ruolo del caregiver nella terapia indiretta o mediata, soprattutto per l’età evolutiva, in cui il logopedista condivide con le figure di riferimento, strategie da utilizzare nei contesti di vita quotidiana per una stimolazione adeguata delle competenze socio-conversazionali e linguistiche”. Ricorda Rossetto: “Inoltre, quando di parla di caregiver non dobbiamo dimenticare che si tratta soprattutto di donne. È su di loro che ancora maggiormente grava l’assistenza in famiglia, secondo le stime diffuse dal Ministero degli Affari Sociali. Eppure, il loro valore nel tessuto sociale non è riconosciuto e non riceve la giusta dignità in rapporto all’operato offerto. Anche perché, secondo dati dell’Istituto Superiore di Sanità, sono a maggior rischio per sintomi depressivi (34% vs 14% nell’uomo) e in generale per un peggioramento dello stato di salute complessivo (67% vs 53%). Anche per questo, come in tutta Europa, si è deciso di dedicare al caregiver la sua ‘giornata’ più importante dell’anno”.