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AGI – E’ ben noto che l’aumento e la perdita del peso corporeo, oltre che dall’apporto calorico, siano determinati da innumerevoli fattori. Ora, i ricercatori dell’Università di Osaka hanno identificato un gene che potrebbe fungere da regolatore principale dell’accumulo di grasso in un’ampia gamma di condizioni.

Nello studio, pubblicato su Nature Communications, gli scienziati giapponesi hanno rivelato che questo singolo gene potrebbe essere influire sulla forma corporea. Il fatto che una persona sia magra o grassa dipende da una serie di fattori, dai livelli di attività all’assunzione di cibo, alle malattie, all’ambiente di vita e altro ancora.

Anche la storia familiare gioca chiaramente un ruolo, ma la base genetica del peso corporeo è ancora poco conosciuta. “Il grasso è un tessuto unico, regolato da diversi fattori nutrizionali, ormonali e molecolari”, ha spiegato Jihoon Shin, autore principale dello studio.

“Tuttavia, una base genetica unificata per la sua regolazione rimane elusiva”, ha continuato Shin. Per identificare i fattori genetici responsabili del deposito di grasso, i ricercatori hanno analizzato i dati di espressione genica del tessuto adiposo rispetto ad altri tipi di tessuto.

I risultati hanno mostrato che HSP47, un chaperone molecolare, ovvero una classe funzionale di famiglie proteiche con la funzione predominante di prevenire associazioni non corrette e aggregazioni di catene polipeptidiche non ripiegate sia in condizioni fisiologiche che in condizioni di stress, specifico del collagene, è un determinante significativo dei livelli di grasso corporeo.

“L’HSP47 è espresso ad alti livelli nel tessuto adiposo e aumenta con l’obesità e l’assunzione di cibo; al contrario, il suo livello di espressione diminuisce con il digiuno, l’esercizio fisico, la restrizione calorica, la chirurgia bariatrica e la sindrome da deperimento”, ha detto Iichiro Shimomura, autore senior. “Inoltre, l’espressione di HSP47 è strettamente correlata alla massa grassa, all’indice di massa corporea, alla circonferenza della vita e alla circonferenza dei fianchi”.

E’ importante notare che l’insulina, un ormone associato all’accumulo o alla perdita di grasso, aumenta i livelli di espressione di HSP47, mentre i glucocorticoidi ne diminuiscono i livelli. Inoltre, un’espressione elevata o bassa di HSP47 è stata collegata a livelli elevati o bassi di grasso corporeo sia negli esseri umani che nei topi.

“I risultati del nostro studio evidenziano il ruolo significativo che HSP47 svolge nel determinare la quantità di grasso corporeo di un individuo in condizioni normali e in risposta a vari fattori come malattie o cambiamenti dei livelli ormonali”, ha affermato Shin.

L’identificazione di HSP47 come elemento chiave che influenza l’accumulo di grasso fornisce una chiara base genetica per i livelli complessivi di grasso corporeo e l’utilizzo di energia. Dato il ruolo centrale di HSP47 in questo processo, è possibile che alterazioni di questo gene possano creare disturbi metabolici.

AGI – In uno studio appena pubblicato su Annals of Internal Medicine, è stato scoperto che respirare l’aria inquinata nel traffico, senza l’uso di mascherine o altre protezioni, porta a un aumento immediato e importante della pressione sanguigna. Questi effetti durano per più di 24 ore.

Gli scienziati hanno condotto un esperimento in cui le persone sono state guidate attraverso il traffico a Seattle, Washington, per tre giorni tra il 2014 e il 2016. Durante questo periodo, sono stati esposti all’inquinamento dell’aria da traffico all’interno di un’auto senza l’uso di filtri. I risultati hanno mostrato che la pressione sanguigna aumenta di 4,5 millimetri di mercurio in modo veloce, raggiungendo il massimo entro 60 minuti e mantenendosi alta per oltre 24 ore.

L’inquinamento dell’aria da traffico è già noto come causa di malattie cardiache e altri problemi di salute. Questo studio sottolinea che l’essere esposti alle particelle nell’aria durante il tragitto quotidiano può immediatamente influenzare la pressione sanguigna. Inoltre, l’uso di filtri per l’aria all’interno dell’auto potrebbe ridurre questi effetti negativi.

Con sempre più persone che trascorrono tempo negli spostamenti, questo studio mostra quanto sia importante considerare l’aria inquinata dal traffico come un fattore che può colpire la salute del cuore. Utilizzare filtri di alta qualità all’interno delle auto potrebbe essere un modo efficace per proteggersi dagli effetti nocivi dell’inquinamento atmosferico durante gli spostamenti in auto. 

AGI – Non esiste un chiaro danno alla salute mentale derivante dall’uso di internet. A dirlo è un’importante indagine condotta dall’Oxford Internet Institute, sfatando l’ipotesi comune di effetti psicologici negativi legati alle tecnologie e alle piattaforme online. Lo studio, si legge nel comunicato stampa dell’Istituto, ha coinvolto due milioni di individui dai 15 agli 89 anni in 168 paesi e ha analizzato il benessere psicologico nel periodo dal 2005 al 2022, in relazione all’uso di internet e alle statistiche sulle connessioni dei cellulari a livello nazionale.

Contrariamente alle aspettative, il team di ricerca ha riscontrato associazioni minori e meno consistenti di quanto ci si aspetterebbe se internet stesse causando danni psicologici diffusi. A condurre lo studio, il Professor Andrew Przybylski dell’Oxford Internet Institute e il Professor Matti Vuorre dell’Università di Tilburg, nonché Ricercatore Associato presso l’Oxford Internet Institute. I risultati mostrano che negli ultimi due decenni si sono verificati solo cambiamenti modesti e poco consistenti nel benessere globale e nella salute mentale. Il Professor Przybylski dichiara: “Abbiamo cercato intensamente un nesso che collegasse la tecnologia al benessere e non l’abbiamo trovata”.

Il Professor Vuorre aggiunge: “Abbiamo studiato i dati più estesi mai considerati riguardo al benessere e all’adozione di internet, sia nel tempo che nelle demografie della popolazione. Anche se non siamo riusciti ad affrontare gli effetti causali dell’uso di internet, i nostri risultati descrittivi indicano associazioni piccole e inconsistenti”.

Anche l’analisi che suddivide per gruppo di età e genere non ha rivelato schemi demografici specifici tra gli utenti di Internet, inclusi donne e ragazze giovani. In realtà, per il paese medio, la soddisfazione nella vita è aumentata di più per le donne nel periodo preso in considerazione. Secondo il Professor Przybylski, “Abbiamo testato accuratamente se ci fosse qualcosa di speciale in termini di età o genere, ma non c’è alcuna evidenza a sostegno delle idee comuni che certi gruppi siano più a rischio”.

Il team sottolinea che, per ottenere evidenze conclusive sull’impatto dell’uso di internet, le aziende tecnologiche devono fornire ulteriori dati. Il Professor Przybylski afferma che “la ricerca sugli effetti delle tecnologie internet è bloccata perché i dati più urgentemente necessari sono raccolti e custoditi dietro porte chiuse da aziende tecnologiche e piattaforme online”. Il team conclude dicendo che è cruciale studiare in modo più dettagliato e trasparente, coinvolgendo tutti gli attori interessati, i dati sull’adozione individuale delle tecnologie internet. Tali dati esistono e vengono continuamente analizzati da aziende tecnologiche globali per scopi di marketing e miglioramento dei prodotti, ma purtroppo non sono accessibili per la ricerca indipendente.

AGI – Il Covid-19 ha causato un’allarmante impennata di nascite premature, ma i vaccini sono stati fondamentali per riportare il tasso di nascite precoci ai livelli pre-pandemici. È quanto emerge da nuova analisi dei registri delle nascite della California, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences. “L’effetto dell’infezione materna da Covid dall’inizio della pandemia al 2023 è stata notevole e ha provocato un aumento del rischio di nascite pretermine di 1,2 punti percentuali“, ha detto Jenna Nobles, docente di sociologia dell’Università del Wisconsin-Madison.

“Spostare così tanto l’ago della bilancia delle nascite premature è simile a un’esposizione ambientale disastrosa, come settimane di respirazione del fumo intenso di un incendio selvaggio”, ha continuato. Ma, i primi due anni della pandemia sono stati di gran lunga peggiori per molte gravidanze, secondo i risultati descritti nello studio da Nobles e dalla coautrice, Florencia Torche, docente di sociologia dell’Università di Stanford.

Gli effetti sulle gravidanze

Il virus da Covid mette a rischio le gravidanze, provocando risposte immunitarie e infiammatorie e deteriorando la placenta. Una conseguenza del contagio è l’interruzione precoce della gravidanza e il parto ben prima della fine delle 39-40 settimane di gestazione previste. Con la diffusione del virus da luglio a novembre 2020, la probabilità che una madre affetta da Covid in California partorisse più di tre settimane prima della data prevista era di 5,4 punti percentuali più alta del previsto, il 12,3% invece del 6,9%, secondo il nuovo studio.

I ricercatori hanno misurato l’impatto della pandemia con l’aiuto dei registri delle nascite dei quasi 40 milioni di abitanti della California, utilizzando informazioni sulla tempistica e il confronto delle nascite tra fratelli per analizzare l’impatto della pandemia sui diversi gruppi demografici. Gli scienziati hanno scoperto che il fattore di rischio di parto pretermine è diminuito leggermente all’inizio del 2021 prima di calare drasticamente nel 2022, quando l’infezione in gravidanza non ha causato alcun aumento del rischio di parto prematuro.

Secondo i ricercatori, i vaccini hanno contribuito a questa diminuzione, effetto che è emerso quando le registrazioni delle nascite sono state suddivise geograficamente. “Fra i codici di avviamento postale con tassi di vaccinazione più elevati, l’eccesso di rischio di nascita pretermine è diminuito molto più rapidamente”, ha dichiarato Nobles. “Sino all’estate del 2021, la vaccinazione per il COVID-19 in gravidanza non aveva mostrato alcun effetto sul rischio di parto pretermine in queste comunità”, ha proseguito Nobles. “Ci è voluto quasi un anno in più perché fra i codici di avviamento postale con una più bassa diffusione del vaccino si cominciassero a rilevare i primi effetti”, ha aggiunto Nobles.

Questo dato evidenzia quanto i vaccini per il Covid siano stati protettivi, aumentando più rapidamente l’immunità”

“La diffusione precoce della vaccinazione ha probabilmente impedito migliaia di nascite pretermine negli Stati Uniti”. La nascita prematura è associata a una serie di problemi di salute a breve e lungo termine. È il principale responsabile della mortalità infantile. Inoltre, la riduzione dello sviluppo nel grembo materno può richiedere ulteriori cure mediche che costano, in media, più di 80.000 dollari per bambino.

Secondo le stime, la nascita pretermine, anche di poche settimane, riduce le capacità cognitive, la salute e i guadagni previsti da adulti. “Abbiamo riscontrato un incremento del rischio del 38% nella dipendenza da cure intensive neonatali, con la possibilità di ritardi nello sviluppo e gravi implicazioni anche per le famiglie, nei casi di nascita prematura, cioè prima delle 32 settimane”.

I vaccini non danneggiano il feto

Le prove che dimostrano gli effetti positivi della vaccinazione nella prevenzione delle nascite premature potrebbero contribuire a dissipare alcune delle principali preoccupazioni espresse quando il vaccino per il COVID-19 è diventato disponibile per le pazienti in gravidanza.

Una delle principali cause dell’esitazione nei confronti del vaccino è la preoccupazione per la sicurezza del feto e per la possibilità di rimanere incinta”

“Sappiamo già che ci sono pochissime prove di effetti negativi della vaccinazione sullo sviluppo fetale; i risultati di questo studio sono una prova inconfutabile del fatto che ciò che danneggia effettivamente il feto non è la vaccinazione”, ha precisato Nobles. “Questo è un messaggio che i medici possono e devono condividere con le pazienti più scettiche e preoccupate”.

Secondo i ricercatori, le evidenze tratte dallo studio sono un argomento convincente a favore delle vaccinazioni e dei richiami, anche dopo la diminuzione del rischio di parto prematuro legato al Covid, in California. “Si tratta ancora di un’epidemia in evoluzione e il tasso di richiami del vaccino tra le persone in gravidanza è attualmente molto basso”, ha sostenuto Nobles. “E’ straordinaria e incredibile la riduzione sostanziale a zero nascite pretermine aggiuntive, ma non vuol dire che sarà così in eterno”.  

AGI – Ben 4000 trapianti di fegato: un traguardo record in Italia e in Europa per l’ospedale Molinette di Torino. Una storia lunga 33 anni, da quando il 10 ottobre 1990 il professor Mauro Salizzoni eseguì il primo trapianto di fegato presso l’ospedale Molinette di Torino, dopo essersi formato insieme con tutta l’equipe presso le Cliniques Universitaires Saint-Luc di Bruxelles in Belgio. Un’attività che dai suoi albori è andata sempre più consolidandosi, parallelamente alla crescita delle attività di trapianto d’organo, in particolare di fegato, in Italia.

Condotto per 28 anni dal suo fondatore, il Centro Trapianto Fegato di Torino è attualmente diretto dal 2018 dal professor Renato Romagnoli. In questi 33 anni l’èquipe di Torino ha saputo affrontare e vincere tutte le sfide che le si sono poste di fronte, essendo anche capace di offrire insegnamento e supporto alla nascita e sviluppo di altri programmi di trapianto di fegato in Italia e nel Mondo. In quest’anno 2023, durante il quale l’attività di trapianto d’organi in Italia segnerà il suo record di sempre (con una previsione di incremento del 15% rispetto all’anno 2022), il Centro Trapianto Fegato di Torino raggiunge il traguardo dei 4000 trapianti totali.

Di fatto abbatte il suo precedente record stabilito nel lontano 2005 di 166 trapianti di fegato eseguiti in un anno. Si stima infatti che per la fine del 2023 verrà superato il muro dei 180 trapianti di fegato in un anno, ovvero un trapianto ogni due giorni (con un incremento netto del 25% rispetto all’anno 2022). Nel dettaglio, a oggi sono 3993 i trapianti di fegato eseguiti presso l’ospedale Molinette di Torino. Si è trattato in 3806 casi di pazienti adulti e in 187 casi di pazienti pediatrici. Tra questi, 16 trapianti di fegato sono stati eseguiti da donatore vivente (12 casi adulti e 4 casi pediatrici) ed 8 trapianti sono stati eseguiti con tecnica ‘domino’. 

 In 144 casi si è trattato di trapianti di fegato eseguiti con organi “split”, ottenuti dividendo in due parti un fegato di un donatore cadavere. In 117 casi il fegato è stato trapiantato in combinazione con altri organi, principalmente il rene (96 casi), ma anche il polmone, il pancreas e il cuore. I riceventi che hanno beneficiato di questi trapianti sono stati non solo pazienti provenienti da tutte le 20 regioni italiane, ma anche pazienti provenienti da altri 29 Paesi del Mondo intero (Europa, Asia, Africa e le 2 Americhe). Si aggiungono nel computo totale almeno altri 12 trapianti supervisionati in regime di convenzione dal professor Salizzoni nel 1996 a Pisa e nel 2004 a Cagliari e, più recentemente, dal professor Romagnoli nel 2022 a Bari.

Anche i risultati di sopravvivenza pongono al primo posto in Italia il Centro di Torino (come recentemente certificato nel Report del Centro Nazionale Trapianti di Roma pubblicato nel luglio ultimo scorso). In particolare, considerando i primi trapianti di fegato eseguiti in riceventi adulti nel periodo 2014-2020, le sopravvivenze dei pazienti ad 1 e a 5 anni dal trapianto raggiungono gli straordinari valori di 95,5% ed 87,6% (migliorando rispettivamente di 3,6 e di 7,9 punti percentuali i risultati ottenuti nel periodo 2000-2013).

Stesso discorso vale per i trapianti eseguiti nei bambini, in cui il Centro di Torino primeggia con valori di sopravvivenza globale del 96% ad 1 e a 5 anni dal trapianto. Per celebrare il raggiungimento dello storico traguardo si terra’ domani, presso la Centrale Lavazza di Torino (via Ancona 11), sotto l’egida dell’Associazione Italiana Trapiantati di Fegato, un’intera giornata dedicata alla diffusione della cultura della donazione degli organi ed al confronto tra riconosciuti esperti del settore trapiantologico e un pubblico costituito non solo da addetti ai lavori.

AGI – Un nuovo studio condotto dall’Università di Bristol e dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro ha rivelato che consumare cibi ultraprocessati potrebbe essere collegato a un rischio più elevato di sviluppare tumori della parte superiore del tratto aerodigestivo, come bocca, gola ed esofago.

In molti studi, è emerso che i cibi ultraprocessati sono associati al rischio di cancro, e questo nuovo studio, pubblicato sulla rivista European Journal of Nutrition, ha cercato di capire se l’obesità, spesso collegata al consumo di questi cibi, fosse l’unico fattore di rischio. I ricercatori hanno analizzato dati su dieta e stile di vita di 450.111 adulti seguiti per circa 14 anni.

I risultati hanno mostrato che mangiare il 10% in più di cibi ultraprocessati è associato a un aumento del 23% nel rischio di tumori della testa e del collo e del 24% nel rischio di adenocarcinoma dell’esofago. Fernanda Morales-Berstein, autrice principale dello studio e dottoranda presso l’Università di Bristol, ha spiegato che i cibi ultraprocessati sono stati collegati all’eccesso di peso in molti studi, ma nel loro studio il legame con il cancro del tratto aerodigestivo sembrava essere spiegato solo in parte dal peso corporeo.

Gli autori suggeriscono che potrebbero esserci altri meccanismi in gioco, come gli additivi (emulsionanti, dolcificanti artificiali) e i contaminanti presenti negli imballaggi alimentari e nel processo di produzione. Tuttavia, hanno avvertito che i risultati potrebbero essere influenzati da certi tipi di pregiudizi e hanno notato un’associazione tra un maggior consumo di cibi ultraprocessati e un aumento del rischio di morti accidentali, che è altamente improbabile che sia causale.

George Davey Smith, professore di epidemiologia clinica presso l’Università di Bristol, ha sottolineato che, sebbene i cibi ultraprocessati siano associati a diversi problemi di salute, non è ancora chiaro se siano la causa o se fattori sottostanti come comportamenti legati alla salute e la posizione socioeconomica siano responsabili di tale associazione.

Inge Huybrechts, responsabile del team di esposizioni e interventi sullo stile di vita presso l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, ha aggiunto che sono necessari ulteriori studi a lungo termine per confermare questi risultati, considerando anche le abitudini alimentari contemporanee. Ulteriori ricerche sono necessarie per identificare altri meccanismi, come gli additivi alimentari e i contaminanti, che potrebbero spiegare i legami osservati.

Tuttavia, basandosi sul fatto che il grasso corporeo non spiega completamente il collegamento tra il consumo di cibi ultraprocessati e il rischio di tumori del tratto aerodigestivo superiore, Fernanda Morales-Berstein ha suggerito che concentrarsi solo sulla perdita di peso potrebbe non contribuire significativamente alla prevenzione di questi tipi di cancro.

L’associazione tra un maggiore consumo di questi cibi e un aumento del rischio di tumori del tratto aerodigestivo superiore supporta le raccomandazioni per la prevenzione del cancro, che suggeriscono di seguire una dieta sana, ricca di cereali integrali, verdure, frutta e legumi. 

 

AGI – Un nuovo studio condotto dall’Università di East Anglia ha rivelato che i sistemi di filtrazione dell’aria potrebbero non essere così efficaci nel ridurre il rischio di contrarre infezioni virali. Lo studio, condotto da Paul Hunter e dalla sua squadra presso la Norwich Medical School dell’UEA, ha esaminato varie tecnologie progettate per rendere più sicure le interazioni sociali negli spazi chiusi.

Queste tecnologie includono sistemi di filtrazione dell’aria, luci germicide e ionizzatori. I risultati della ricerca indicano che non c’è sufficiente evidenza a sostegno dell’efficacia di queste tecnologie nel mondo reale, in contesti come scuole o case di cura.

Hunter spiega: “Gli air cleaner sono progettati per filtrare inquinanti o contaminanti dall’aria che passa attraverso di essi. Tuttavia, non abbiamo trovato prove valide che suggeriscano che queste tecnologie possano rendere l’aria sicura da infezioni respiratorie o gastrointestinali”.

La ricerca ha coinvolto l’analisi di 32 studi condotti in contesti reali, come scuole o case di cura, esaminando sintomi o infezioni microbiche in persone esposte o meno a queste tecnologie di purificazione dell’aria. Finora, nessuno degli studi sul trattamento dell’aria avviati durante l’era Covid è stato pubblicato.

Julii Brainard, co-autrice dello studio, aggiunge: “Abbiamo esaminato varie tecnologie, inclusi filtri, luci germicide, ionizzatori per rimuovere in modo sicuro i virus o disattivarli nell’aria respirabile. In breve, non abbiamo trovato prove convincenti che queste tecnologie siano in grado di proteggere le persone nella vita reale”. Anche se la ricerca offre risultati deludenti, gli autori sottolineano l’importanza di avere una visione completa della situazione per i responsabili delle decisioni in materia di salute pubblica.

Brainard conclude: “Speriamo che gli studi condotti durante la pandemia di Covid vengano pubblicati presto in modo da poter valutare in modo più informato il valore del trattamento dell’aria in quel periodo”. 

AGI – Chi gioca a tennis ha un’aspettativa di vita di quasi dieci anni maggiore rispetto a chi non pratica sport. A dirlo sono diversi studi fra cui il Sydney Medical School Study, l’American Medical Association Study e il Copenaghen City Heart Study. Quest’ultima è una ricerca che ha avuto come campione una popolazione di 20mila persone fra i 20 e i 93 anni ed è durato 25 anni.

In base ai risultati, rispetto al gruppo di persone sedentarie, l’aumento dell’aspettativa di vita per i diversi sport vede il tennis al primo posto con +9,7 anni e a seguire: badminton +6,2, calcio +4,7, ciclismo +3,7, nuoto +3,4 e jogging +3,2. Il tennis e lo sport in generale però non allungano solo gli anni davanti a sé, ma migliorano anche la qualità della vita perché contribuiscono a prevenire le malattie metaboliche, come ad esempio il diabete, e mantengono vive le funzioni cognitive, grazie alle relazioni sociali che vengono coltivate.

Sul tema della prevenzione sanitaria attraverso lo sport, “Tennis and Friends salute e Sport”, la Asl Città di Torino Azienda Zero e Federazione Italiana Tennis e Padel promuovono un convegno dal titolo “Sport è Prevenzione: il Tennis allunga la vita”, oggi 18 novembre presso la Cupola Geodetica di Casa Tennis (piazza Castello), nell’ambito del calendario di appuntamenti in occasione delle Nitto ATP finals, in corso a Torino.

“Lo sport è uno strumento di prevenzione come dimostrano gli studi scientifici internazionali”, commenta Giorgio Meneschincheri, medico specialista in medicina preventiva, presidente della onlus Friends for health e docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. “La disciplina del Tennis in particolare attesta una preziosa valenza rispetto ad altri sport, in termini di longevità, aiuta a prevenire l’insorgenza di malattie cardiovascolari e metaboliche. Ha una funzione di riduzione della pressione arteriosa ed è la medicina migliore per il diabete“. 

“Inoltre, specie per i più fragili, consente di mantenere le relazioni sociali e allontanare così il rischio di isolamento, a sostegno della Salute mentale. Non dimentichiamo – aggiunge Meneschincheri – che l’attività fisica praticata dalla popolazione ha un impatto positivo anche sulla spesa sanitaria fino a un risparmio medio per gli Stati membri dell’Unione europea dello 0,6% sui costi destinati all’assistenza. Infatti secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) se la popolazione europea facesse più attività fisica si potrebbero prevenire oltre 10mila decessi ogni anno e si eviterebbero 11,5 milioni di nuovi casi di malattie croniche non trasmissibili entro il 2050, tra cui 3,8 milioni per patologie cardiovascolari e 3,5 milioni per depressione”.

“Eventi sportivi di grande successo come le Nitto ATP Finals che stiamo vivendo in queste ore, che dimostrano ormai oltre ogni evidenza lo straordinario valore sportivo, economico e sociale del tennis, hanno tra i loro effetti anche quello di stimolare la pratica sportiva, soprattutto tra i più giovani, che è la condizione essenziale per educare la popolazione a corretti stili di vita.

Ecco perché il boom del tennis, già di suo la disciplina che, studi internazionali alla mano, più incide sulla salute e la longevità delle persone, produrrà effetti benefici per i cittadini, per la sanità pubblica e, conseguentemente, anche un risparmio per le casse dello Stato”, afferma il presidente della Federazione Italiana Tennis e Padel, Angelo Binaghi.

Il direttore generale dell’ASL Citta’ di Torino e Commissario di Azienda Sanitaria Zero della Regione Piemonte, Carlo Picco, commenta il ruolo strategico dell’azienda nella gestione dei grandi eventi sottolineando che “la pianificazione per lo svolgimento delle manifestazioni deve essere integrata con il sistema dell’emergenza sanitaria territoriale, perché l’organizzazione dei soccorsi, in caso di manifestazioni pubbliche, necessita di una risposta organizzata, idonea e precisa, da rendersi mediante un coordinamento centrale e una sufficiente collocazione sul posto di personale addestrato, di mezzi e con la presenza di sistemi di comunicazione efficaci. Siamo fortemente impegnati a promuovere l’attività sportiva, abbiamo una struttura di Medicina dello Sport e dell’Esercizio Fisico e collaboriamo con l’istituto Medicina dello Sport”.  

AGI – Ogni anno, 1,3 milioni di vite vengono perse a causa dei tumori causati dal fumo di tabacco nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), secondo un nuovo studio finanziato da Cancer Research UK. Lo studio, condotto da ricercatori dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), dell’Università Queen Mary di Londra (QMUL) e del King’s College di Londra, ha analizzato i dati relativi a sette paesi, i quali rappresentano oltre la metà del carico globale di morti per cancro ogni anno.

Hanno concluso che il fumo, insieme ad altri tre fattori di rischio evitabilialcol, sovrappeso o obesità e infezioni da papillomavirus umano (HPV) – causa quasi 2 milioni di morti combinate. Il fumo di tabacco ha il maggior impatto, portando alla perdita di oltre 20,8 milioni di anni di vita, secondo lo studio. La ricerca ha inoltre esaminato gli anni di vita persi a causa del cancro, consentendo di valutare meglio l’impatto delle morti per cancro sulla società.

I ricercatori hanno concluso che i quattro fattori di rischio evitabili causano oltre 30 milioni di anni di vita persi ogni anno. Il controllo del tabacco è risultato essere il più critico, con 150 casi di cancro al giorno nel Regno Unito causati dal fumo. A livello globale, il cancro sta impattando sempre di più i paesi a basso e medio reddito. L’analisi di Cancer Research UK mostra che i nuovi casi di cancro potrebbero aumentare del 400%, da 0,6 milioni a 3,1 milioni all’anno nei paesi a basso reddito nei prossimi 50 anni.

I paesi ad alto reddito come il Regno Unito vedranno un aumento del 50% nello stesso periodo. Il direttore esecutivo del dipartimento di politica e informazione di Cancer Research UK Ian Walker, ha commentato: “Questi numeri sono sorprendenti e mostrano che con azioni su scala globale, milioni di vite potrebbero essere salvate da tumori evitabili. L’azione sul tabacco avrebbe il maggior impatto.”

Il rapporto evidenzia che, nonostante gli strumenti economici a disposizione per prevenire casi di cancro, il controllo del tabacco è costantemente sottofinanziato. Il cancro sta emergendo come una minaccia crescente nei paesi a basso e medio reddito, e l’incremento dei casi è preoccupante. Il manifesto di Cancer Research UK per la Cura e la Ricerca sul Cancro, che sarà presentato il 28 novembre, proporrà misure concrete per trasformare l’assistenza e la sopravvivenza al cancro nel Regno Unito e aiutare altri paesi a salvare più vite da questa malattia.

AGI – L’efficacia del vaccino vivo contro herpes zoster è massima nel primo anno successivo alla vaccinazione e diminuisce in modo sostanziale nel tempo: è quanto sostiene un nuovo studio pubblicato su The BMJ.

Ciò nonostante, il vaccino ha dimostrato di fornire una certa protezione contro l’herpes zoster e le sue complicazioni fino a dieci anni dopo la vaccinazione, anche nei pazienti con un sistema immunitario indebolito. Per efficacia del vaccino si intende la capacità effettiva che questo ha nel proteggere le comunità nel mondo reale.

L’herpes zoster, comunemente noto come fuoco di Sant’Antonio, è un’eruzione cutanea dolorosa causata dalla riattivazione del virus della varicella. È molto più comune tra le persone di età pari o superiore ai 60 anni e tra quelle con un sistema immunitario indebolito e può portare a complicazioni invalidanti.

Il vaccino zoster vivo è stato il primo ad essere stato sviluppato contro l’herpes zoster e oltre 50 milioni di persone lo hanno ricevuto in tutto il mondo. Attualmente non è raccomandato per coloro chi soffre di immunodeficienza e non è più disponibile negli Stati Uniti, ma l’uso è proseguito altrove, tra cui nel Regno Unito e in Australia.

Tuttavia, mancano stime dell’efficacia a lungo termine basate su dati reali. Per risolvere questo problema, i ricercatori hanno utilizzato i dati di una grande azienda sanitaria statunitense, la Kaiser Permanente Northern California, per determinare l’efficacia a lungo termine del vaccino zoster vivo contro l’infezione da herpes zoster, il ricovero in ospedale per herpes zoster, la nevralgia posterpetica, ossia il dolore persistente nell’area dell’eruzione cutanea e l’herpes zoster oftalmico, ovvero l’eruzione cutanea all’interno o intorno all’occhio.

I risultati si basano sui dati relativi a poco più di 1,5 milioni di adulti di età pari o superiore a 50 anni che avevano diritto al vaccino vivo contro lo zoster. Di questi, 507.444, circa il 34%, sono stati vaccinati durante il periodo di studio, dal 1° gennaio 2007 al 31 dicembre 2018.

Tra i 75.135 casi di herpes zoster, 4.982, circa il 7%, hanno sviluppato nevralgia posterpetica, 4.439, circa il 6%, hanno avuto un herpes zoster oftalmico e 556, circa lo 0,7%, sono stati ricoverati in ospedale per herpes zoster.

Per ciascun risultato, l’efficacia del vaccino è stata massima nel primo anno successivo alla vaccinazione ed è diminuita sostanzialmente nel tempo. L’efficacia del vaccino, al primo anno, è stata del 67% contro l’infezione da herpes zoster, dell’83% contro la nevralgia posterpetica, del 71% contro l’herpes zoster oftalmico e del 90% contro il ricovero in ospedale per herpes zoster.

L’efficacia del vaccino contro l’herpes zoster è diminuita al 50% nel secondo anno, poi è scesa al 27% nell’ottavo anno e quindi al 15% dopo 10 anni. L’efficacia del vaccino per l’herpes zoster oftalmico è stata simile.

Contro la nevralgia posterpetica e il ricovero ospedaliero, l’efficacia del vaccino che, all’inizio ha registrato un grado più alto, si è attenuata ma ha continuato a conferire una protezione sostanziale per diversi anni, con il 41% dopo 10 anni per la nevralgia posterpetica e il 53% da 5 a 8 anni per il ricovero ospedaliero.

L’efficacia del vaccino è risultata generalmente simile tra i sottogruppi definiti in base all’età, al sesso, alla razza o all’etnia, o allo stato di immunocompromissione al momento della vaccinazione. Si tratta di risultati osservazionali e gli autori sottolineano diverse difficoltà, tra cui l’incompleto accertamento dell’herpes zoster e dello stato di compromissione del sistema immunitario dei pazienti nel corso del tempo.

I risultati potrebbero, inoltre, non essere applicabili ad altri contesti a causa delle differenze nelle pratiche diagnostiche o nell’accesso alle cure. Tuttavia, si tratta di uno studio ben progettato, basato su dati sanitari di alta qualità, che ha impiegato metodi innovativi per esaminare la durata reale della protezione vaccinale e i risultati sono generalmente coerenti con quelli degli studi randomizzati e di altri studi osservazionali.

“Questa nuova e tempestiva ricerca contribuirà a migliorare i programmi di vaccinazione contro l’herpes zoster, fornendo nuove e preziose informazioni sulla necessità e la tempistica delle dosi di follow-up o di richiamo”, hanno dichiarato i ricercatori in un editoriale collegato. Inoltre, si aggiunge all’evidenza che il vaccino zoster vivo è efficace contro l’herpes zoster negli adulti immunocompromessi.

“Sono inoltre necessarie ulteriori ricerche per valutare la traiettoria dell’efficacia del vaccino contro l’herpes zoster e gli esiti gravi nel tempo in persone con malattie croniche come quelle del rene, del cuore e del sistema autoimmune”, hanno concluso gli autori.