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AGI – Aumentare l’attività fisica può contribuire al trattamento del dolore cronico. Si tratta di una nuova analisi dei dati di oltre 10.000 adulti che mostra che le persone che praticavano attività fisica avevano una maggiore tolleranza al dolore rispetto a coloro che erano sedentari. Anders Årnes dell’Ospedale Universitario del Nord della Norvegia, Tromsø, e colleghi presentano questi risultati sulla rivista PLOS ONE.

Ricerche precedenti già avevano suggerito la possibilità che un’abitudine a praticare un livello più elevato di attività fisica potesse aiutare ad alleviare o prevenire il dolore cronico aumentando la tolleranza al dolore. Tuttavia, la maggior parte degli studi su questo argomento è stata di piccole dimensioni o si è concentrata su gruppi ristretti di persone. Per chiarire la relazione tra attività fisica e tolleranza al dolore, Årnes e colleghi hanno analizzato i dati di 10.732 adulti norvegesi che hanno partecipato a uno studio di grande portata sulla popolazione: lo Studio di Tromsø, condotto periodicamente in Norvegia.

I ricercatori hanno utilizzato i dati provenienti da due fasi dello Studio di Tromsø, una condotta dal 2007 al 2008 e l’altra dal 2015 al 2016. I dati includevano i livelli di attività fisica riportati dai partecipanti e la loro tolleranza al dolore, valutata mediante un test che coinvolgeva l’immersione della mano in acqua fredda. L’analisi statistica dei dati ha mostrato che i partecipanti che hanno dichiarato di essere fisicamente attivi in entrambe le fasi dello Studio di Tromsø avevano una maggiore tolleranza al dolore rispetto a coloro che hanno dichiarato uno stile di vita sedentario in entrambe le fasi.

I partecipanti con un livello complessivo di attività più elevato avevano una maggiore tolleranza al dolore e coloro che hanno aumentato l’attività fisica tra il 2015/2016 e il 2007/2008 hanno mostrato un livello generale di tolleranza al dolore più elevato. L’analisi non ha mostrato una relazione statisticamente significativa tra il livello di attività e le variazioni della tolleranza al dolore tra le due fasi dello studio. Tuttavia, suggerisce che rimanere fisicamente attivi, diventare attivi o aumentare l’attività fisica è correlato a una maggiore tolleranza al dolore.

Sulla base dei loro risultati, i ricercatori suggeriscono che aumentare l’attività fisica potrebbe essere una strategia potenziale per alleviare o prevenire il dolore cronico. 

AGI – I social network possono essere pericolosi per i giovani, in quanto possono avere “effetti estremamente dannosi” sulla loro salute mentale. L’allarme è di Vivek Murthy, che ricopre il ruolo di Surgeon general degli Stati Uniti, ossia  il massimo funzionario statunitense che si occupa di sanità pubblica

“Siamo nel bel mezzo di una crisi nazionale della salute mentale dei giovani e temo che i social media siano uno dei principali fattori di questa crisi – qualcosa che dobbiamo affrontare con urgenza”, ha detto. E in un rapporto definisce necessarie ulteriori ricerche per “comprendere meglio gli effetti dei social network” sui giovani, affermando allo stesso tempo che ci sono “prove considerevoli” che possono avere conseguenze negative.

Ad esempio, ha ricordato, alcuni studi hanno collegato l’uso dei siti di social network allo sviluppo di sintomi depressivi in quanto spingerebbero gli adolescenti a confrontarsi minando la loro autostima.

Le ragazze giovani possono essere ancora più vulnerabili. Secondo una ricerca citata da Vivek Murthy, l’uso di queste piattaforme le espone a un rischio maggiore rispetto ai ragazzi di subire cyber-bullismo o addirittura di sviluppare disturbi alimentari mentre tutti i giovani possono essere esposti a contenuti “pericolosi”, come atti violenti o sessuali.

Le aziende tecnologiche dovrebbero imporre un'”età minima” per l’iscrizione dei bambini ai loro social network e creare impostazioni predefinite che proteggano meglio la loro privacy.

Secondo il Pew Research Center, ben il 95% dei ragazzi statunitensi di età compresa tra i 13 e i 17 anni dichiara di utilizzare un social network, e un terzo lo fa “quasi costantemente”.

I social network, e in particolare il loro effetto sui giovani, sono fonte di preoccupazione negli Stati Uniti.

La scorsa settimana il Montana ha approvato una legge che vieta l’app TikTok a partire dall’anno prossimo, diventando il primo Stato americano a farlo.

Oltre alla questione dei dati e della disinformazione, i funzionari locali hanno accusato la piattaforma di avere effetti dannosi sulla salute mentale dei giovani. Anche se i rappresentanti democratici avevano ribattuto che questi rischi riguardavano anche altri social network. A marzo scorso, lo Utah ha approvato una legge che impone ai social network di ottenere il consenso dei genitori prima di concedere ai minori l’accesso alle loro piattaforme.

AGI – Uno studio condotto dalla Yale University fornisce nuove informazioni sull’infiammazione cardiaca post-vaccino, un effetto collaterale raro ma riscontrato soprattutto tra i giovani maschi che hanno ricevuto i vaccini a mRNA contro il Covid-19. L’infiammazione del muscolo cardiaco, nota come miocardite, eèun disturbo generalmente lieve che può causare cicatrici ma si risolve solitamente in pochi giorni. Tuttavia, gli esperti erano incerti su quali fossero le cause precise dell’infiammazione cardiaca post-vaccino.

I giovani maschi sono i più colpiti

Il rischio di miocardite era risultato maggiore tra i maschi adolescenti o nella prima età adulta che avevano ricevuto i vaccini a mRNA, progettati per indurre risposte immunitarie specifiche al virus SARS-CoV-2. Tuttavia, secondo i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), tra i maschi di età compresa tra 12 e 17 anni, circa 22-36 su 100.000 hanno manifestato miocardite entro 21 giorni dopo aver ricevuto una seconda dose di vaccino. Tra i maschi non vaccinati in questa fascia di età, l’incidenza di miocardite era compresa tra 50,1 e 64,9 casi su 100.000 dopo l’infezione con il virus Covid-19. 

Per il nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science Immunology, il team di ricerca di Yale ha condotto un’analisi dettagliata delle risposte del sistema immunitario in quei rari casi di miocardite tra gli individui vaccinati. Il team è stato guidato da Carrie Lucas, professore associato di immunobiologia, Akiko Iwasaki, Sterling Professor di immunobiologia, e Inci Yildirim, professore associato di pediatria ed epidemiologia.

Come ridurre i rischi

I ricercatori hanno scoperto che l’infiammazione del cuore non era causata dagli anticorpi creati dal vaccino, quanto da una risposta più generalizzata che coinvolge le cellule immunitarie e l’infiammazione. Ricerche precedenti avevano suggerito che l’aumento del tempo tra le vaccinazioni da quattro a otto settimane potrebbe ridurre il rischio di sviluppare miocardite. Lucas ha osservato che, secondo i risultati del CDC, il rischio di miocardite è significativamente maggiore negli individui non vaccinati che contraggono il virus Covid-19 rispetto a quelli che ricevono i vaccini. Ha sottolineato che la vaccinazione offre la migliore protezione dalla malattia correlata al Covid-19.

“Spero che questa nuova conoscenza consentirà di ottimizzare ulteriormente i vaccini a mRNA, che, oltre a offrire chiari benefici per la salute durante la pandemia, hanno un enorme potenziale per salvare vite umane in numerose applicazioni future”, ha affermato Anis Barmada, studente alla Yale School of Medicine, che è uno dei primi autori dell’articolo insieme a Jon Klein, anch’egli ricercatore di Yale.

AGI – Al Policlinico di Milano è stato raggiunto il traguardo dei 100 interventi chirurgici con il robot Versius, sviluppato da CMR Surgical. L’ospedale è una delle più grandi strutture sanitarie della Lombardia e al suo interno la piattaforma Versius è stata utilizzata con l’intento di sviluppare un programma multispecialistico che coinvolge la chirurgia toracica e la chirurgia generale.

Il robot, infatti, ad oggi è stato adoperato in 60 procedure di chirurgia toracica e 40 di chirurgia generale eseguendo procedure come la colecistectomia, la resezione anteriore bassa e la resezione polmonare. La 100esima procedura è stata una timectomia, ovvero la rimozione del timo, una ghiandola che risiede nell’area toracica, adiacente al muscolo cardiaco e che copre parzialmente l’arco aortico, una zona quindi particolarmente delicata dove è fondamentale la precisione.

Il vantaggio di utilizzare un robot in questo tipo di intervento è la sua facilità di raggiungere spazi di lavoro particolarmente limitati. L’utilizzo della chirurgia mininvasiva, inoltre, comporta diversi benefici come tempi di recupero più rapidi, meno cicatrici e un ridotto dolore post-operatorio. Grazie a un design piccolo e modulare, Versius è infatti adatto al layout di quasi tutte le sale operatorie e può essere spostato facilmente tra i reparti dell’ospedale. È fondamentale per i chirurghi avere la possibilità di muovere liberamente le braccia del robot anche in spazi ridotti, adattandosi quindi alle esigenze del chirurgo, alle necessità dello specifico intervento e all’anatomia di ogni paziente. 

“Il risultato raggiunto dimostra la nostra dedizione all’utilizzo delle tecnologie più avanzate, per offrire ai nostri pazienti trattamenti sempre più all’avanguardia e di massima qualità”, ha dichiarato Mario Nosotti, direttore della Struttura Complessa di Chirurgia Toracica e Trapianti di Polmone del Policlinico di Milano. “La flessibilità, la precisione e la capacità di eseguire le procedure più delicate in modo sicuro sono le principali ragioni per cui siamo entusiasti di utilizzare le piattaforme di chirurgia mininvasiva”, ha concluso Lorenzo Rosso, chirurgo della stessa Struttura, che insieme a Nosotti ha eseguito il centesimo intervento.

AGI – Il sovraccarico metabolico che si verifica nelle persone con peso in eccesso, potrebbe sopprimere la regolazione del sistema immunitario e indurre risposte infiammatorie, incrementando il rischio di sviluppare malattie autoimmuni. A questa conclusione giunge uno studio, pubblicato sulla rivista Science, condotto dagli scienziati dell’Università di Napoli Federico II e dell’Istituto per l”Endocrinologia e l’Oncologia Sperimentale, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IEOS).

ll team, guidato da Giuseppe Matarese, ha valutato la correlazione tra obesità e malattie autoimmuni, come sclerosi multipla e diabete di tipo 1. I ricercatori hanno scoperto che il sovraccarico metabolico può sopprimere l’immunoregolazione e allo stesso tempo indurre risposte infiammatorie. Questo meccanismo potrebbe spiegare il motivo per cui le persone con peso in eccesso tendono a essere più suscettibili a condizioni cliniche autoimmuni.

L’alterazione della dieta, dell’apporto calorico, o l’assunzione di farmaci che agiscono sul sovraccarico metabolico, sostengono gli autori, potrebbero modulare l’autoimmunità. “L’ipotesi che il digiuno influenzasse le risposte immunitarie – afferma Matarese – era stata screditata dagli studiosi, ma gli studi degli ultimi 20 anni hanno fornito prove a sostegno del potenziale terapeutico associato a cambiamenti comportamentali e strategie nutrizionali come dieta, restrizione calorica e diversi regimi di digiuno”.

“L’ipernutrizione – scrivono gli scienziati – favorisce l’attivazione cronica delle cellule immunitarie sia innate che adattative, con conseguente infiammazione sistemica, anche se di basso grado. Questi fenomeni si verificano attraverso l’impegno di percorsi intracellulari di rilevamento di nutrienti ed energia”.

L’obesità, precisano gli esperti, rappresenta un fattore di rischio per condizioni autoimmuni, come il diabete di tipo 1 e la sclerosi multipla. Questa malattia, in particolare, può essere riconducibile anche al fumo, all’esposizione alla radiazione solare senza le dovute precauzioni, bassi livelli di vitamina D, infezione da virus Epstein-Barr e un indice di massa corporea elevato.

Ricerche precedenti hanno stimato che il rischio di sviluppare sclerosi multipla in adolescenza risulta da 1,6 a 1,9 volte più elevato tra i soggetti obesi e coloro che acquisiscono troppo peso durante la giovane età. Tale associazione è stata confermata da diversi lavori e sembra evidente anche nei portatori di un particolare antigene, l’HLA–DRB1. Allo stesso modo, commentano gli esperti, un aumento di 100 grammi di peso alla nascita sembra correlato a un incremento dell’1,7 per cento nel rischio di incidenza del diabete di tipo 1.

“Il nostro studio – commentano gli autori – suggerisce che l’associazione tra obesità e autoimmunità dipenda in parte dal fatto che il tessuto adiposo tende ad aumentare le risposte autoinfiammatorie, ma allo stesso tempo il peso in eccesso stesso sembra avere caratteristiche autoimmuni”.

“Nei prossimi step – concludono gli scienziati – sarà interessante capire come i singoli nutrienti, quindi lipidi, carboidrati e proteine, possano influenzare l’autotolleranza immunologica e la finestra temporale in cui i trattamenti per l’autoimmunità associata all’obesità tendono a essere più efficienti”. 

AGI – Operata da bambina dai pionieri della cardiologia di Niguarda nel 1957, torna per secondo intervento cardiaco a 71 anni. È la storia di Augusta, una delle prime pazienti operate 65 anni fa per una grave cardiopatia congenita a Niguarda con una tecnica pionieristica.

“Era il 18 novembre del 1957 io non ero ancora nato ed il professor Angelo De Gasperis operava Augusta una bimba di 6 anni con trilogia di Fallot a Niguarda”, spiega Stefano Marianeschi, cardiochirurgo Responsabile della Cardiochirurgia Pediatrica. “De Gasperis fu il primo in Italia ad operare questa patologia congenita dal 1956, all’inizio con molti insuccessi, e poi con degli interventi palliativi fino a sviluppare una tecnica efficace”.

Augusta fu una delle fortunate che sopravvissero a quei tempi pioneristici. Fu operata con una toracotomia trasversale che apriva tutto il torace, in circolazione extracorporea femorale con ipotermia profonda. Ora, dopo 66 anni, la signora Augusta ha dovuto sostituire la valvola polmonare, che a causa dell’insufficienza le provocava affaticamento anche con un minimo sforzo, ed è tornata Niguarda.

La 71enne, spiegano dal Niguarda, negli ultimi anni si era sempre rivolta a cardiologi di altri ospedali che le consigliavano di non fare niente e lasciare le cose come stavano. Poi grazie ad un giro di telefonate è arrivata all’attenzione della dottoressa Colli della Mangiagalli, che l’ha subito inviata a Niguarda. L’operazione condotta dal cardiochirurgo Marianeschi è andata a buon fine. “In questi giorni verrà dimessa – sottolinea lo specialista – e la bimba di 6 anni ritratta nella foto in bianco e nero con il professor De Gasperis, che a quei tempi finì sul giornale, ora è ancora con noi all’età di 71 anni, felice di aver superato anche questo scoglio”. 

AGI – Una nuova stimolazione cerebrale sembra migliorare la capacita’ delle persone di ricordare, imitando il modo in cui il nostro cervello crea i ricordi. Secondo una nuova ricerca, pubblicata su Technology Review, questa sorta di “protesi di memoria”, che implica l’inserimento di un elettrodo nel cervello, sembra funzionare anche nelle persone affette da disturbi della memoria, ed è ancora più efficace nelle persone con una memoria scarsa. In futuro, versioni più avanzate della protesi di memoria potrebbero aiutare le persone con perdita di memoria dovuta a lesioni cerebrali o all’invecchiamento o a malattie degenerative come l’Alzheimer.

L’idea è quella di usare gli elettrodi cerebrali per comprendere i modelli di attività elettrica che si verificano durante l’elaborazione dei ricordi e poi usare questi stessi elettrodi per generare modelli simili di attività. Per testare l’efficacia dei due modelli della protesi di memoria, gli scienziati della Wake Forest University School of Medicine nel North Carolina, guidati da Rob Hampson, hanno testato due versioni della protesi della memoria su 24 persone che avevano impiantato elettrodi per studiare la loro epilessia, alcuni dei quali avevano anche lesioni cerebrali.

La prima versione, che il team chiama modello di decodifica della memoria (Mdm), imita i modelli di attività elettrica nell’ippocampo che si verificano naturalmente quando ogni volontario forma con successo i ricordi. Il modello Mdm prende una media di questi schemi su ogni individuo e quindi emette questo schema di stimolazione elettrica. Il secondo tipo, chiamato multi-input, multi-output (o Mimo), imita più da vicino il funzionamento dell’ippocampo.

In un ippocampo sano, l’attività elettrica scorre da uno strato all’altro prima di diffondersi ad altre regioni del cervello. Il modello Mimo si basa sull’apprendimento dei modelli di input e output elettrici che corrispondono alla codifica della memoria e quindi sulla loro imitazione. Per testare il funzionamento di ciascuno dei modelli, Hampson e i suoi colleghi hanno chiesto ai volontari di partecipare a test di memoria.

Nei test, a ogni persona è stata mostrata un’immagine sullo schermo di un computer. Dopo un certo ritardo, la stessa immagine è stata presentata di nuovo, insieme a una selezione di altre. La persona doveva scegliere quale fosse l’immagine che era già stata mostrata. Ogni volontario ha completato da 100 a 150 di questi brevi compiti, progettati per testare la memoria a breve termine di una persona. Tra i 15 e i 90 minuti dopo, ogni persona è stata sottoposta a un secondo test, questa volta mostrando una serie di tre immagini e chiedendo di scegliere quale fosse la più familiare. Questo test indica la memoria a lungo termine di una persona.

I volontari hanno svolto entrambi i cicli di test della memoria due volte: una volta per registrare dall’ippocampo e una volta per stimolare quei modelli registrati associati a ricordi archiviati con successo. Le registrazioni erano uniche, dice Hampson: “Finora abbiamo scoperto che è diverso per ogni persona”. Un leggero impulso di elettricità sembra migliorare la capacita’ delle persone anziane di ricordare elenchi di parole, anche un mese dopo.

Il team ha scoperto che la sua protesi di memoria migliorava le prestazioni dei volontari nei test di memoria: i loro punteggi erano significativamente più alti se avevano ricevuto il modello corretto di stimolazione quando si presentavano per la prima volta le immagini. Ciò suggerisce che la protesi della memoria può aiutare a codificare i ricordi nel cervello, affermano i ricercatori. “Stiamo assistendo a miglioramenti che vanno dall’11% al 54%”, afferma Hampson. 

AGI – Un Istituto scientifico di estrazione privata, italiano, tra i primi in classifica al mondo, e subito dietro uno interamente pubblico. Sono entrambi di Milano e si tratta dell’istituto Europeo di Oncologia (IEO) e dell’Istituto Nazionale dei Tumori (Int). Si sono posizionati rispettivamente all’11 e 13 posto nella Classifica World’s Best Specialized Hospitals 2023 stilata da Newsweek e dalla società di ricerche Statista relativa ai 300 migliori ospedali oncologici o reparti di oncologia al mondo. Lo rende noto ‘Sanità 33’, media specializzatop in medicina.

La graduatoria si affianca alla classifica dei 300 migliori ospedali “generalisti” del mondo, sempre a cura di Newsweek e Statista, dove si è classificato al 38 posto il Policlinico Gemelli di Roma, primo tra gli ospedali italiani.

In questa classifica l’Italia ha fatto benino: nella top 100 mondiale sono 5 i nostri ospedali e 13 sono nella top 250. Ma nelle graduatorie che riguardano gli ospedali secondo specialità le cose cambiano, l’Europa e l’Italia si piazzano meglio. Undici le discipline valutate, in cui si misurano le strutture ed i reparti di 28 paesi del mondo: cardiologia, cardiochirurgia, endocrinologia, neurologia, neurochirurgia, ortopedia, gastroenterologia, urologia pediatria, pneumologia ed oncologia. Quest’anno le strutture valutate sono state 300 di oncologia e cardiologia, 200 per pediatria, 150 di cardiochirurgia ed endocrinologia, 125 per le altre branche.

La performance italiana

Nel caso dell’oncologia su 300 valutazioni la parte del leone la fa Milano con l’Istituto Europeo di Oncologia creato da Umberto Veronesi al 12 posto, l’Istituto Nazionale dei Tumori al 17 posto e l’Istituto Clinico Humanitas al 25. Seguono il Policlinico Gemelli (38 ), l’Ospedale Niguarda di Milano (41 ), l’Istituto Pascale di Napoli (46 ), le Molinette di Torino (60 posto), il Reparto di oncologia dell’AO di Padova (64 ), l’UO di Oncologia del San Raffaele di Milano (78 ), l’Irccs di Candiolo (Torino): in tutto dieci strutture nei primi 100 posti.

La Germania ha nove strutture nei primi 100 posti e la Charitè di Berlino è al 13 posto, la Francia ne ha sette, la parte del leone la fanno gli Stati Uniti con 32 centri e occupando due dei primi 3 posti in classifica, il primo con il MD Anderson Cancer Center di Houston ed il secondo Memorial Sloan Kettering Cancer Center.  Al terzo posto la prima struttura europea, l’istituto Gustave Roussy di Parigi.

L’indagine

La classifica World’s Best Specialized Hospitals 2023, è il risultato di un sondaggio globale a cui hanno partecipato oltre 40.000 tra medici, operatori sanitari e dirigenti ospedalieri nel periodo di luglio-agosto 2022. Ai partecipanti è stato chiesto di raccomandare gli ospedali in base al proprio campo di competenza e di scegliere poi un’area di competenza secondaria opzionale in cui sono anche esperti (ad esempio, grazie alla frequente collaborazione con altri settori medici).

Per la prima volta, in questa edizione il sondaggio ha tenuto conto anche degli esiti riportati direttamente dai pazienti (Patient Reported Outcome Measures, PROMs) in ambito ospedaliero, aggiungendo quindi il punteggio PROMs al modello di punteggio generale utile per la classifica.

“La valutazione si basa su una trentina di indicatori quantitativi che già il Ministero della Salute valuta con precisi algoritmi; da qualche anno il nostro Istituto si colloca come primo in base a indicatori di ricerca e assistenziali”, afferma Giovanni Apolone, Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. 

AGI – Cugino “più piccante” e “frizzante” dello yogourt, con la consistenza cremosa di uno yogurt, il kefir – come lo stesso yogurt – contiene poco o niente lattosio, “quindi può essere adatto a persone che soffrono d’intolleranza ai latticini”.

“C’è da migliaia d’anni”, scrive il Washington Post, è fatto con latte di mucca o di capra e colture vive chiamate “grani di kefir”, che sono grumi di microbi gelatinosi composti da batteri e lieviti. Il latte viene versato sui chicchi, che possono essere riutilizzati all’infinito perché “i grani di kefir fermentano lo zucchero naturale nel latte, il lattosio, e 24 ore dopo si ha la bevanda a base di latte”.

Tuttavia le proprietà nutritive del kefir sono simili a quelle dello yogurt per le proteine e per il calcio, anche se le “quantità di nutrienti contenute variano leggermente a seconda della marca”, precisa il giornale. In ogni caso, il kefir “è un’ottima aggiunta alla dieta, perché ha un contenuto di batteri probiotici più elevato e diversificato”, sottolinea la nutrizionista di Consumer Reports Amy Keating, per la quale il kefir ha una buona quantità e varietà di microbi sani e proprio la diversità “fa sì che i probiotici si riproducano nell’intestino” con risultati benefici in generale per la salute di tutto il corpo, perché “i probiotici aiutano ad neutralizzare il cibo, sintetizzare le vitamine, impedire ai batteri che causano malattie di prendere il sopravvento e possono persino rafforzare l’immunità”.

I probiotici, infatti, “producono composti bioattivi, come gli acidi grassi a catena corta che hanno effetti antinfiammatori che possono aiutare problemi sistemici come la gestione del colesterolo e la sintesi dei neurotrasmettitori”, afferma Sotiria Everett, medico di famiglia allo Stony Brook Medicine di New York.

In un recente studio della Stanford University i ricercatori hanno inoltre capito che una dieta a base di alimenti fermentati “aumenta la diversità del microbioma e diminuisce i marcatori di infiammazione nel corpo”.

AGI – Il tasso di insorgenza della celiachia in Italia è uno dei più alti al mondo, con circa un bambino su 60 colpito dalla condizione, ma la sottodiagnosi della malattia rappresenta ancora un problema notevole. Lo evidenzia uno studio, pubblicato sulla rivista Digestive and Liver Disease, condotto dagli scienziati della Società Italiana di Gastroenterologia ed Epatologia Pediatrica (Sigenp), e dell’Unità Operativa di Gastroenterologia Pediatrica e Fibrosi Cistica dell’Università di Messina.

Il gruppo di ricerca, guidato da Claudio Romano e Carlo Catassi, ha presentato i risultati del lavoro durante una conferenza stampa, a Roma, presso la sede del Ministero della Salute. I ricercatori hanno considerato i dati di circa 9000 alunni delle scuole elementari di Verona, Milano, Roma, Padova, Salerno, Ancona, Bari e Reggio Calabria. La celiachia, spiegano gli esperti, se non diagnosticata precocemente, puo’ portare a complicanze tardive anche gravi, come osteoporosi, infertilità o tumori.

“Malgrado il crescente interesse verso questa condizione nell’ambito medico e generale – osserva Romano, presidente della Sigenp – i casi di celiachia non diagnosticati restano troppo numerosi“. Nel corso dello screening gli scienziati hanno raccolto campioni di sangue per valutare la presenza di anticorpi e la predisposizione genetica alla celiachia.

I bimbi con positività genetica, circa il 42 per cento della coorte iniziale, sono stati poi sottoposti a uno screening di secondo livello per accertamenti successivi. Il lavoro, il più ampio mai condotto in Italia, rivela che sul territorio nazionale circa un bambino su 60 sviluppa la celiachia, e in molti casi la problematica non viene diagnosticata.

“Solo il 40 per cento dei casi ottiene una diagnosi di celiachia su basi cliniche – riporta Catassi – i medici prestano molta attenzione al minimo sospetto di celiachia, ma spesso i genitori non rilevano sintomi particolari e non ritengono necessaria la visita dal pediatra o dal medico specialista“.

Sintomi e numeri

Tra i primi campanelli di allarme, gli esperti sottolineano la familiarità, la presenza di patologie autoimmuni, la diarrea, la stitichezza, l’anemia, i dolori addominali frequenti, la nausea o la stanchezza cronica.

La patologia si può manifestare a ogni età, anche se generalmente insorge durante lo svezzamento, quando il bambino inizia a introdurre il glutine nella propria alimentazione. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 2 ai 10 anni.

Secondo quanto emerge dall’indagine, inoltre, le bambine sembrano più soggette alla problematica rispetto alle controparti maschili con un rapporto di due casi a uno.

Per quanto riguarda la distribuzione geografica, gli scienziati hanno scoperto che l’Italia rappresenta uno dei paesi più colpiti, insieme a Svezia, Finlandia, India e Nord Africa. Giappone e Filippine costituiscono invece le due realtà in cui il tasso di insorgenza della celiachia risulta più basso.

“Questa differenza – spiega Simona Gatti, della Clinica Pediatrica dell’Università Politecnica delle Marche di Ancona – potrebbe dipendere dall’alimentazione ricca di riso“.

I fattori di sviluppo

Da ultimo, gli autori riportano i fattori che contribuiscono allo sviluppo della malattia, sottolineando che il rischio di sviluppare la celiachia dipende per il 40 per cento dalla predisposizione genetica, per il 40 per cento dall’alimentazione, mentre il restante 20 per cento, secondo una stima orientativa del team, può essere attribuito a fattori ancora sconosciuti.

“Alla luce di questi risultati – concludono gli esperti – sarà necessario individuare strategie di intervento per tenere sotto controllo il fenomeno. Le indicazioni emerse dal nostro studio sottolineano la necessita’ di uno screening nazionale della celiachia, dato che la sotto-diagnosi rappresenta un problema ancora importante”.