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Il chiarimento tra Salvini e Berlusconi c'è stato ieri sera. Una telefonata dopo i contrasti emersi per i differenti schemi illustrati al Colle. Di Maio ha avuto gioco facile nel considerare il centrodestra diviso, presentatosi con i tre leader delle forze politiche al cospetto del presidente della Repubblica.

Da qui l'invito del segretario del Carroccio ad evitare ulteriori divisioni e ad andare insieme al prossimo giro delle consultazioni. Un rapido giro di colloqui con i suoi e il Cavaliere ha detto sì. Permettendo a Salvini di compattare la coalizione e di poter avvalersi di quel 37% emerso alle elezioni, a fronte del 32% raggiunto dal Movimento 5 stelle.

La partita ricomincia

Ora inizia un'altra partita, ha spiegato l'ex presidente del Consiglio che, riferiscono fonti azzurre, ha avuto garanzie da parte dell'alleato affinché Forza Italia non venga considerata una forza marginale all'interno di un eventuale patto di governo con i pentastellati.

Salvini ha indossato quindi i panni del mediatore per tenere uniti FI, Lega e Fdi. Aveva messo in conto la risposta dei vertici del Movimento ma la sua premessa è sempre la stessa: si parte dal perimetro del centrodestra. Per quanto riguarda un possibile incarico il ragionamento è che senza una maggioranza certa non se ne fa niente.

L'intenzione del Cavaliere è quella di chiedere un patto a Salvini, anche in prospettiva futura, con l'auspicio che ora tenga il punto. Sullo sfondo c'è il tema del partito unico. Gradito da sempre al governatore della Liguria Toti, sponsorizzato anche da Fratelli d'Italia e non escluso affatto dal Carroccio che ha parlato nei giorni scorsi non di un'Opa ostile ma "amichevole".

I dubbi che vengono da Sud

Per FI il tema è separato dalla partita del governo, anche perché l'ala del Sud non è affatto convinta del progetto, ma un eventuale approdo di questo tipo sarà sul tavolo se l'asse FI-Lega resisterà ai duri attacchi al Cavaliere da parte di Di Maio. "Berlusconi ha accettato la leadership di Salvini", sottolinea un 'big' del Carroccio.

Sarà quindi quest'ultimo a trattare anche se prima del nuovo incontro con Mattarella la linea potrebbe essere concordata con un vertice del centrodestra da tenersi a metà settimana. E si vedrà quale sarà il punto di caduta, visto che per ora FI non accetta di avere una presenza 'annacquata' in una possibile composizione governativa.

Non è tempo per l'Aventino

Allo stesso tempo però nel partito azzurro c'è poca voglia di opposizione. Molti 'big' azzurri hanno consigliato al Cavaliere di abbandonare la tesi di un eventuale Aventino. "Rischieremmo la scomparsa, ora non ce lo possiamo permettere. Non è più il tempo della traversata nel deserto", osserva un parlamentare di FI.

Salvini non accetta veti da parte di nessuno, ha chiesto più volte ad ognuna delle parti in campo un passo indietro, mira a ripetere lo schema che ha portato all'elezione dei presidenti di Camera e Senato. Ma il quadro resta complicato e se dovesse permanere l'impasse la strada del voto anticipato tornerebbe ad affacciarsi, anche se non è certamente la prospettiva a cui pensano i vertici istituzionali. 

Ogni tanto i due forni tornano a sfornare pane. Accade con una certa regolarità, per la verità, da quando Giulio Andreotti – al quale si devono molte frasi entrate nel modo di parlare (e di agire) della politica italiana – coniò l'espressione negli anni '60.

Ora è il forzista Antonio Tajani a citare la politica dei due forni puntando il dito contro i grilini rei, a suo dire, di ammiccare un po' al Pd e un po' alla Lega. Esattamente come faceva la Democrazia Cristiana con socialisti e missini. E da parte sua al vicepresidente della commissione Ue ha fatto eco Gianni Cuperlo per il quale le proposte di Di Maio “assomigliano molto all’antica filosofia dei due forni.

Ma cosa diavolo sono questi due forni?

Va chiarito, come scrive la Treccani, che l'espressione è recente, e non è in sé e per sé cristallizzata, in quanto nella pubblicistica politica ricorrono anche riferimenti concorrenti ai due forni o alla teoria dei due forni. Giulio Andreotti, quando si ritrovò a commentare, a distanza di anni, la fase storico-politica degli anni Sessanta, caratterizzata dalla centralità della Dc, scrisse che egli fu artefice dell'idea che in quel momento il suo partito, per acquistare il pane (cioè fare la politica più congeniale ai propri interessi alleandosi con altre forze), dovesse servirsi di uno dei due forni che aveva a disposizione, a seconda delle opportunità: il forno di sinistra (socialisti), il forno di destra (liberali, eventualmente anche i missini).

Va precisato che politici e media tirano in ballo i "due forni" (nelle varianti suddette) anche in relazione a situazioni diverse da quelle originariamente designate, sotto metafora, da Giulio Andreotti. In sostanza, però, quando si parla dei "due forni" a proposito del comportamento politico di qualcuno (singolo o forza politica), si intende in realtà ingentilire eufemisticamente un atteggiamento trasformistico, opportunistico.

Andreotti, ricorda Repubblica, in un’intervista spiegò di avere inventato i “due forni” durante la crisi politica che portò alle elezioni anticipate del 1987. Ma altri giornalisti e storici fanno risalire l’idea, il concetto, alla fine degli anni '50, ai primi anni '60, quelli dell’avvento del centrosinistra. Quando Andreotti incarnava la destra della Dc e i due fornai erano il Partito socialista italiano di Pietro Nenni e il Partito liberale italiano di Giovanni Malagodi. E all’occorrenza anche gli esponenti del Movimento sociale italiano. 

La teoria, comunque, Andreotti la mise in atto con il suo governo del 1972, dove, dopo la fine del centrosinistra, tornarono al governo i liberali assenti dal 1962. Un esecutivo che strizzava anche l’occhio ai missini di Almirante cresciuti alla politiche. Alla fine degli anni '70, dopo l’assassinio di Aldo Moro, il quadro era completamente mutato: a offrire pane alla Dc c’erano sempre i socialisti, ma di Bettino Craxi, e i comunisti di Enrico Berlinguer, sempre con l’obiettivo di salvaguardare la centralità della Dc.

Forni recenti

Di recente sono stati anche Silvio Berlusconi e Matteo Renzi ad andare alla ricerca di pane da chi lo offriva a minor prezzo e di miglior qualità. Il primo stringeva alleanze con Matteo Salvini e nello stesso tempo studiava un futuro governo con il Pd. Il secondo stringeva con Berlusconi il Patto del Nazareno per fare le riforme, mentre attingeva ai voti degli uomini di Angelino Alfano per tenere in piedi il govertno.

 

È il momento della svolta? A leggere i titoli dei siti sì, a leggere gli articoli dei quotidiani non tanto. Sergio Mattarella rimanda tutti, e fissa la data degli esami di riparazione per giovedì prossimo, e se qualcuno manda a intendere che i compiti già sono fatti, e la soluzione della crisi vicina, a guardar bene si capisce che di grande ottimismo si tratta.

La legge elettorale impone mediazione, scrive il Corriere

Il M5S? Ancora legato all’idea dei due forni. La Lega? Giura fedeltà ai grillini, ma non può non tenere conto degli antichi affetti, leggi Silvio Berlusconi. Il quale fa notare, tra una riga e l’altra, che i tempi sono cambiati, e che una legge proporzionale richiede ed impone la mediazione della politica. Nessuno può fare da solo, nessun partito è un’isola. Lo ha detto ieri lo stesso Presidente della Repubblica, rileva il Corriere della Sera: “Qualcuno sostiene che le posizioni registrate ieri non siano tanto lontane. Non è vero, e lo dimostra quanto verbalizzato al Quirinale”.

Insomma, al momento di tirare fuori le carte, si scopre che quella magica in mano ancora non ce l’ha nessuno. Vero: Salvini dice che lui tra M5S e Pd sceglie il primo, anche se Berlusconi ora fa l’occhiolino al secondo. E lascia intendere che ci potrebbe essere uno smottamento all’interno di Forza Italia. Ma il nodo che non lascia scorrere il filo dei rapporti tra Salvini e Di Maio, e cioè chi farà il premier non è ancora stato sciolto.

E lo stesso leader leghista premette alla scelta di campo filogrillina, che la premiership affidata al suo interlocutore privilegiato “sarebbe cosa difficile”. Del resto, se ieri non ha sentito Giorgia Meloni né lo stesso Berlusconi, pare che i suoi contatti con Di Maio siano stati altrettanto nulli. Tanto che, perfidamente, l’ex cavaliere gli manda a dire che se vuole fare il vice di un altro “Si accomodi pure”. Come dire: non hai voluto essere il mio secondo, ma ti tocca essere i secondo di un altro. Che poi è quel Di Maio che non ha abbandonato le speranze di poter giocare il Partito Democratico contro la riottosità leghista, e con fare suadente si “rivolge a tutto il Pd” (Renzi compreso, anche se ieri ha fatto scattare la prima vera fronda contro Martina) per vedere cosa si può fare. Anche se esiste una terza via: il governo lampo per fare la legge elettorale e tutti a casa. Sarà, ma Mattarella una via del genere non la digerirebbe, pare.

Per Repubblica l'intesa Salvini-Di Maio è più vicina

No, titola La Repubblica, “Berlusconi è all’angolo” e l’intesa Salvini-Di Maio “più vicina”.  Questo perché “il veto pronunciato al Colle da Berlusconi ai populisti mette i due in condizione di stringere”. Ma “il Carroccio sospetta che Silvio cerchi i Dem” mentre “anche i grillini cercano l’intesa con i democratici”. Se c’è un patto tra i due vincitori delle elezioni, sembra essere un patto ancora poco saldo. Anche perché, sintetizza ancora La Repubblica, ci sono “quattro posizioni emerse dalle consultazioni e quindi ci vuole un secondo giro”. È l’emergere di un fatto inoppugnabile: “Al termine di una giornata povera di novità e ricca di veti è apparso chiaro che ancora una volta il Quirinale è tornato a porsi come baricentro della crisi”, anche se “lo stile di Mattarella non è lo stile di Napolitano”. Come dire: nessun preincarico, ma “dieci giorni per trovare una soluzione”. La trovino, i partiti, non il Colle.

La Stampa sottolinea che M5s e Lega hanno capito che bisogna trovare accordi

Tranciante, a riguardo, il giudizio de La Stampa: “La sensazione, confermata dallo stesso presidente Mattarella, è che alla fine di questo primo passaggio istituzionale, soprattutto i due vincitori del 4 marzo, 5 stelle e Lega, dopo essersi autoproclamati per un mese, in nome della volontà popolare, alla guida dei rispettivi governi immaginari, hanno preso atto che un governo non può nascere senza maggioranza, e la maggioranza va costruita con accordi politici e capacità di allearsi, trovando un comune terreno d’azione. Così, se non altro, Di Maio e Salvini hanno smesso di presentarsi come due arruffati capipopolo, accettando in pieno di rispettare le ‘regole costituzionali’, che l’interlocutore sul Colle gli aveva appena, garbatamente, ma fermamente, ricordato”.

A questo punto non c’è bisogno di aggiungere molto altro. Se non che Gentiloni, Presidente del Consiglio dimissionario ma ancora in carica per il disbrigo degli affari correnti, fa sapere sommessamente che lui il documento di programmazione economica e finanziaria, oggi detto Def, lo farà slittare di due settimane. Come dire: attendiamo tempi migliori, in cui ognuno sarà pronto a prendersi le proprie autentiche responsabilità. I conti con l’Europa sono una cosa cui Mattarella tiene particolarmente, e lo ha ribadito ieri anche a Di Maio e Salvini. 

 

 

Basta auto blu, al Quirinale si va a piedi. A rilanciare la tendenza è stato Roberto Fico, il giorno dell'elezione a presidente della Camera, e poi ieri, quando è tornato al Colle per le consultazioni. "Stiamo facendo allenamento, abbiamo migliorato un po' i tempi", aveva detto ieri Fico scherzando con i cronisti che lo 'scortavano' lungo la ripida salita di via della Dataria e poi sulla scalinata che porta alla piazza del Quirinale. Poche ore dopo anche Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, si era presentata a piedi all'appuntamento con il Capo dello Stato insieme al capogruppo alla Camera, Fabio Rampelli.

Stamattina hanno seguito il loro esempio la delegazione del Partito democratico, quella della Lega e nel pomeriggio quella del Movimento 5 stelle, accolta quest'ultima dagli applausi e dalle grida di incoraggiamento di alcuni sostenitori appostati sotto il palazzo della Consulta. Ha fatto eccezione solo Forza Italia: Silvio Berlusconi, Anna Maria Bernini e Maria Stella Gelmini hanno preferito prendere posto in un'auto, la stessa con cui hanno lasciato il Quirinale per tornare a palazzo Grazioli alla fine dell'incontro.

Matteo Salvini dopo il colloquio con Mattarella si è invece concesso una passeggiata fino a via delle Botteghe Oscure. Un tragitto di poco meno di un chilometro e mezzo coperto sotto un assalto di cronisti, cameraman e fotografi che ha suscitato l'attenzione dei tanti turisti a spasso per il centro di Roma e l'ira degli automobilisti e degli agenti della sua scorta che a più riprese hanno cercato di placcare i cronisti più 'agguerriti' in cerca di una dichiarazione.

Meno concitato il rientro a via del Nazareno della delegazione del Partito democratico. Matteo Orfini, presidente del partito ha stroncato sul nascere le curiosità dei giornalisti ricordando loro che è inopportuno rilasciare dichiarazioni dopo un incontro con il Presidente della Repubblica, specie dopo il lungo intervento fatto dal segretario reggente, Maurizio Martina, all'uscita dello Studio alla Vetrata.

Orfini per tornare nella sede del Pd ha percorso un pezzo di strada insieme al capogruppo alla Camera, Graziano Delrio (che ha poi salutato all'altezza della fontana di Trevi), Martina ha preso un'altra strada, verso via Nazionale. Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, è invece salito su una macchina per tornare in ufficio. E chissà se anche al secondo giro di consultazioni la tendenza sarà la stessa.

 

Nel Carroccio la tesi è che sia Berlusconi a rompere, ad uscire dalla partita. Evocando una convergenza con il Pd magari per un governo istituzionale e chiudendo a M5s. L'auspicio è che torni indietro sui suoi passi perché altrimenti, questa l'osservazione di diversi 'big' del partito di via Bellerio, sarebbe difficile per Salvini mediare e ricomporre il quadro partendo dal perimetro del centrodestra.

"I voti a Fico sono arrivati anche ad FI", sottolineano le stesse fonti. "Berlusconi adotta una tattica sbagliata, M5s ha avuto il 32%", mette in chiaro Giorgetti. Il Cavaliere si è presentato  al cospetto del Capo dello Stato Mattarella nelle vesti di 'stabilizzatore', con l'intenzione di ergersi a garante rispetto ai vincoli europei e i conti pubblici, assicurando piena responsabilità.

Ma l'ex premier di fronte al 'niet' di Di Maio a dialogare con FI ha deciso di ergere un muro. Il sospetto sotto traccia in realtà è che il leader della Lega e il candidato premier dei pentastellati abbiano in tasca un accordo per un esecutivo. Con la mossa di marginalizzare FI, logorarla, metterla all'angolo, contando su un gruppo di parlamentari azzurri. Un esecutivo a tempo da far partire dopo le elezioni in Friuli e Molise che preveda un taglio dei vitalizi per gli ex parlamentari e una legge elettorale ad hoc o come piano B le elezioni anticipate.

Se è così, ragionano nel partito azzurro, meglio che siano M5s e Lega a fare un governo, meglio essere all'opposizione e rimanere credibili di fronte all'Europa. La richiesta del Cavaliere è sempre la stessa: legittimità totale, nessuna partecipazione a un ingresso in un governo da una porta di servizio. Ma di fronte all'operazione di Di Maio di alzare continuamente il tiro la strategia è non lasciare al partito di via Bellerio la possibilità di tutelare il Cavaliere. "Non siamo disponibili a subire umiliazioni", mette in chiaro Tajani.

I mediatori sono al lavoro. "Il centrodestra non si dividerà", assicura il presidente del Parlamento europeo che sottolinea come Salvini non possa fare il secondo di Di Maio. Del resto Salvini ha più volte rimarcato come non possa essere l'ex vicepresidente della Camera ad andare a palazzo Chigi. La capogruppo FI al Senato, Bernini, rilancia il "metodo" utilizzato per le nomine dei vertici istituzionali, ripropone il confronto sul programma, ma l'ex presidente del Consiglio, riferiscono fonti azzurre, considera pressoché chiusa la partita se non cambiano le condizioni in campo. Con Di Maio che non riconosce la coalizione del centrodestra.

"E' l'antico gioco dei secondi che per far ei primi mirano a spaccare", osserva La Russa. Ma l'ex premier mantiene la barra dritta: se sono queste le basi, questo il ragionamento, meglio giocare a carte scoperte ed avere nella peggiore delle ipotesi un governo ostile. L'ex premier, viene riferito, non ha gradito per esempio che qualcuno, anche all'interno della Lega, abbia evocato una legge sul conflitto d'interessi. Da qui l'intenzione di 'smascherare' i piani di Di Maio ma anche quelli di Salvini. Il leader del Carroccio però più volte ha rimarcato l'obiettivo di tenere unita la coalizione. "E' da questo punto che bisogna ripartire", sottolineano le 'colombe' che puntano ad evitare strappi tra Salvini e Berlusconi. Al momento non c'è un orientamento di andare insieme al secondo giro di consultazioni al Quirinale ma si capirà nei prossimi giorni se i due schemi presentati al Colle (con Berlusconi che guarda al Pd mentre la Lega a M5s) possano trovare un punto di sintesi.

È trascorso un mese dalle Elezioni Politiche del 4 marzo. E se si dovesse tornare alle urne? L’81% degli italiani confermerebbe oggi il voto espresso 30 giorni fa. Il 9% farebbe una scelta diversa, 1 cittadino su 10 dovrebbe pensarci…

L’Istituto Demopolis, diretto da Pietro Vento, ha misurato il peso dei partiti a un mese dalle Elezioni Politiche. Se si votasse oggi per la Camera, il Movimento 5 Stelle otterrebbe il 35%, guadagnando oltre 2 punti; medesimo trend per la Lega che, con il 20%, diverrebbe secondo partito. In questo scenario – secondo l’analisi del Barometro Politico Demopolis – si indebolirebbero il PD, con un punto in meno, al 17,8% e Forza Italia, in calo di un punto e mezzo al 12,5%. Stabile il consenso per Fratelli d’Italia al 4,5; a rischio sarebbe, con il 3%, l’ingresso in Parlamento della sinistra di LeU. Sparirebbero, di fatto, le altre forze politiche minori. 

Nota informativa – L’indagine è stata condotta dall’Istituto Demopolis, diretto da Pietro Vento, dal 2 al 3 aprile 2018 su un campione stratificato di 1.500 intervistati, rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne. Approfondimenti e metodologia su: www.demopolis.it

Non è il bis del contratto con gli italiani di Silvio Berlusconi firmato in diretta tv nel salotto di Porta a Porta nel lontano 2001. Anzi, secondo quanto viene raccontato, ieri Luigi Di Maio ha tenuto a fare le dovute differenze davanti ai deputati e senatori riuniti a Montecitorio in assemblea: "Niente a che vedere con certi contratti firmati davanti agli italiani in passato…" ha ironizzato il candidato premier M5s senza citare direttamente Berlusconi che – come ha ribadito ancora una volta – non sarà mai legittimato dal Movimento. Il capo politico 5 stelle, più seriamente, ha spiegato ai neoeletti pentastellati che l'obiettivo è quello di un contratto alla tedesca da scrivere con le altre forze politiche.

O meglio con quelle che decideranno di sedersi al tavolo dei 5 stelle, a patto che non ci sia Forza Italia con il Cavaliere e nemmeno Matteo Renzi per il Pd. Di Maio ha parlato a lungo ai suoi nell'assemblea di ieri durata quasi 4 ore (25 tra interventi e domande alle quali il candidato premier M5s ha risposto senza sottrarsi) e lo ha ribadito oggi, nero su bianco, in un lungo post sul Blog delle stelle: non si tratta di alleanze, inciuci o accordi tra forze politiche ha precisato. E ha spiegato così la sua proposta: "Proponiamo di scrivere insieme questo contratto di governo alla Lega o al Partito Democratico". 

Punti programmatici chiari, come si fa in Germania

L'obiettivo è di individuare quei temi su cui sia possibile trovare delle convergenze anche se al momento dal Pd sono arrivate solo risposte negative. "Punti programmatici come si fa in Germania" spiegano in ambienti M5s lasciando intendere che non si tratta di fare un elenco scarno di 10 o 20 punti ma di stilare un vero e proprio programma articolato – "in Germania sono migliaia di pagine, noi ne faremo di meno…" viene sottolineato – nel quale scrivere che cosa si vuole fare e soprattutto come, con quali ricette.

E per fare questo lavoro, Di Maio ha detto di più: la volontà dichiarata è di incontrare il Pd o la Lega – questi gli unici interlocutori indicati – il più presto possibile "per vedere chi ci sta" , ascoltare anche le loro proposte e poi trovare una sintesi organica che possa dar vita ad un programma di lungo respiro. Inoltre, sempre secondo quanto viene riferito, M5s partendo dai suoi punti chiave di programma sarebbe pronto ad accogliere tutti i temi che "servano per risolvere i problemi del paese". Tutto andrebbe sottoscritto e firmato e qualora gli altri partiti non lo rispettassero, viene spiegato in ambienti M5s, sarebbero i 5 stelle ad abbandonare il tavolo.

Le inchieste sul voto di scambio in Sicilia non raffreddano i rapporti con la Lega

Ma a fronte della chiusura del Pd, la corsia preferenziale con il Carroccio resta in piedi. Nonostante l'inchiesta sul voto di scambio in Sicilia che ha toccato esponenti del Carroccio compreso il deputato neo eletto alla Camera, Alessandro Pagano, per il quale la procura di Termini Imerese ha chiesto l'autorizzazione ad utilizzare le intercettazioni emerse nei suoi confronti. Qualche pentastellato eletto in Sicilia – uno dei gruppi più numerosi alla Camera, oltre 50 i deputati – sostiene che non è un problema perché "si tratta di un singolo, un deputato, mica stiamo parlando di Giorgetti o di Salvini". E quindi, questo il ragionamento in casa 5 stelle, non si fa saltare una possibile intesa di governo per questo.

Anche sul fronte degli umori dell'elettorato si registrano diverse sfumature: la base pentastellata è ancora divisa tra chi non vuole assolutamente dialogare con il Pd e chi con la Lega. Ma il timore che un esecutivo grillo-leghista possa avere reazioni negative sul consenso degli elettori al sud viene ormai escluso da molti meridionali che, così raccontano, hanno avuto un feedback opposto. "Non perdete tempo e andate a governare, va bene con la Lega, ma andate a governare" sarebbe stato l'incoraggiamento di molti elettori 5 stelle del Mezzogiorno.

Anche se al contrario, sempre secondo quanto riferito, qualche deputato del nord nel corso dell'assemblea di ieri avrebbe espresso preoccupazione per un'intesa con il Carroccio citando la questione banche venete. Ma dall'altra parte c'è chi vede come fumo negli occhi la possibilità di un governo con il Pd, anche senza Renzi.

Tutti d'accordo invece sul fatto che i 5 stelle non debbano dialogare nè governare con Forza Italia, con o senza Berlusconi. Intanto, domani la delegazione M5s salirà al Quirinale: insieme ai capigruppo Giulia Grillo e Danilo Toninelli – forse a piedi anche loro come già oggi il presidente della Camera, Roberto Fico – Di Maio illustrerà questo metodo che, per usare le sue parole, vuole "mettere al centro i temi, cioè le soluzioni per risolvere i problemi del paese".

La Lega non tradirà Silvio Berlusconi e gli altri alleati del centrodestra. E se i 5 stelle dovessero continuare a porre veti, così da impedire la nascita di un governo, allora l'unica strada sarà il ritorno alle urne. A spiegare la linea della Lega è il braccio destro di Matteo Salvini, il capogruppo alla Camera Giancarlo Giorgetti. "Salvini lo ha ribadito più volte: la Lega manterrà in modo coerente e leale l'alleanza, non avrebbe senso un tradimento", garantisce il capogruppo leghista.

Quanto ai 5 stelle, "Di Maio ha detto che per fare un governo bisogna fare un accordo alla tedesca, serio, su un programma per cinque anni. Poi ha detto al Pd 'se volete fare un accordo con me dovete tradire Renzi' e a noi 'se volete venire con noi tradite Berlusconi'. Ma l'accordo alla tedesca non si fa così. Siamo disposti a discutere su un programma ma chiediamo che tutti facciano altrettanto", sottolinea Giorgetti, che specifica:

"Fin quando i 5 Stelle non riconoscono che il centrodestra è un'alleanza non si può fare nulla. Noi pensiamo che se questa politica dei veti dei 5 Stelle va avanti, l'unica soluzione è tornare al voto ma intanto magari i problemi dell'Italia peggiorano". Intanto Salvini sta studiando gli ultimi tasselli della strategia, in vista del colloquio che giovedì 5 alle 12 avrà con il Capo dello Stato nello studio alla Vetrata.

Fratelli d'Italia ha indicato Salvini come premier

Il segretario leghista sarà accompagnato proprio da Giorgetti e dall'altro capogruppo Gian Marco Centinaio. La posizione della Lega in vista di questo primo giro di colloqui per la formazione del governo è chiara: la coalizione di centrodestra è quella che ha preso più voti e da qui si riparte, con candidato premier il leader del primo partito dell'alleanza, ovvero lo stesso Salvini. E proprio oggi il segretario ha incassato il primo via libera ufficiale da parte di FdI: la delegazione guidata da Giorgia Meloni, dopo le consultazioni, ha infatti riferito di aver fatto il nome di Salvini quale premier per il centrodestra.

Non è un mistero però che, davanti alla dura realtà dei numeri (che il centrodestra in Parlamento al momento non ha), gli scenari che circolano sono almeno due. Il primo prevede un governo con il Movimento 5 stelle, un esecutivo politico allargato il più possibile alla coalizione di centrodestra, e quindi anche a FI e FdI, guardando a una durata di 5 anni. 

Il secondo scenario prevede invece il ritorno al voto, possibilmente in autunno, con modifica della legge elettorale e inserimento del premio di maggioranza alla lista. In ballo ci sono tantissime variabili che non dipendono ovviamente solo dai leghisti. E non a caso Salvini nei giorni scorsi, in un'intervista al Corriere, ha affermato che c'è un 50% di possibilità che nasca un governo, 50% che si torni al voto.

La partita è ancora aperta, richiede tempi ancora lunghi, molto probabilmente oltre la data fissata per le elezioni regionali in Friuli, 29 aprile, forse anche oltre il 10 giugno, quando si voterà per i sindaci di circa 760 Comuni, tra cui Ancona, Siracusa, Catania, Messina, Vicenza e Brescia. E che fare qualsiasi previsione al momento sia impossibilo lo conferma anche Giorgetti, che lascia aperte molte strade: "Siamo in una fase politica nuova, il successo di due leader come Salvini e Di Maio ci ha fatto entrare in una fase nuova. Una fase di gestazione e travaglio può dare anche esiti imprevedibili".

Salvini però vorrebbe un governo con il M5s

Stando a quanto viene riferito, Salvini sarebbe determinato a procedere per la via del governo con il M5s. La trattativa con i pentastellati è affidata a Giorgetti, eminenza grigia della Lega, sopravvissuto a tutte le ere geologiche del partito. La proposta leghista, su cui si lavora, è un esecutivo che preveda un 'passo a latò sia di Salvini – che già si è detto, pubblicamente, disponibile – sia di Luigi Di Maio. L'idea è ritagliare per entrambi i leader un posto da vicepremier associato a ministeri con deleghe importanti, come l'Interno e gli Esteri. In questa ottica, la premiership andrebbe a una figura 'terza' gradita a tutti e che non sia un tecnico.

Si tratta di una ipotesi che oggi ha subito un brusco arretramento, con i 5 stelle che hanno confermato l'apertura al dialogo con Lega ma tenendo una porta aperta anche al Pd e confermando il diktat sulla premiership a Di Maio e il veto su Forza Italia. Posizione che ha costretto Salvini a ribadire che il suo partito non è disposto a "subire veti o imposizioni". L'altro scenario è, appunto, quello del voto a ottobre. Per questa ipotesi, propenderebbe una parte dei leghisti più prudenti. E comunque sarebbe comunque una sorta di 'piano B' in caso di fallimento definitivo della trattativa coi 5 stelle.

L'ipotesi che Gentiloni continui fino a ottobre, poi elezioni

L'idea sarebbe di proseguire con il governo Gentiloni fino a ottobre, comunque il tempo necessario per modificare la legge elettorale introducendo un premio di maggioranza alla lista. Un'eventualità che, secondo alcuni leghisti, converrebbe al leader di via Bellerio, schiaccerebbe FI e lo consacrerebbe alla guida del centrodestra. In questo caso, i 'vincitori' delle elezioni del 4 marzo inoltrerebbero al governo Gentiloni quantomeno la richiesta di concordare le nomine ai vertici in scadenza delle aziende pubbliche.

Non è dei politologi il sorriso più attendibile dopo la visita della famiglia reale borbonica al presidente americano. Piuttosto è quello esibito da Carlo e consorte con Donald Trump nelle foto assieme postate sul sito della Real Casa, su media e social network. Un re che non ha ereditato un regno ma una ipoteca storica pesante: il diritto di pretenderlo, serbato a costo della perdita dei beni da Francesco II, avo di Carlo e l’ultimo che sul trono delle Due Sicilie sedette, prima di esserne scalzato da una guerra non dichiarata, da un plebiscito combinato e da un’unificazione condotta più come un’annessione.

Carlo di Borbone, con il titolo di duca di Castro (lo stesso che volle darsi, nel sesto anno di esilio romano, Francesco II sciogliendo il Ministero), non ha mai avanzato la pretesa di riportare indietro l’orologio storico. Sono anni che opera invece a intercettare la revisione della storia, ormai politicamente trasversale, e a sviluppare un ruolo di autorità morale nei confini dell’ex Regno delle Due Sicilie. Per iniziativa del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, di cui è gran maestro, il duca di Castro svolge opera di filantropia e interventi sociali nel campo della scuola, della salute, dell’assistenza alla povertà.

'Il lato B' della storia

Rivendica allo stesso tempo quella riscrittura della storia compilata dai vincitori e che dell’epopea risorgimentale vide solo il 'lato A', quello di Garibaldi sul cavallo bianco e dei giovani prodi immolatisi per l’ideale dell’unità d’Italia. I massacri dei “briganti” (nella realtà, spesso, insorgenti contadini e lealisti borbonici) e di innocenti civilli, le spoliazioni finanziarie e industriali del Sud, il trasferimento di ricchezze al Nord, l’alimento a mafia e camorra nelle prime incerte fasi del Regno d’Italia sono stati oggetto di sempre più numerosi e attenti studi. Anche su quelli, non comprendendo i riflessi politici che avrebbero prodotto, si fecero un sorriso i politologi: sugli scritti e le opere di Angelo Manna (poi deputato del Msi), di Nicola Zitara (che veniva dal socialismo del Psiup) e prima ancora sui libri di Carlo Alianello (che ispirarono anche lo sceneggiato televisivo “L’eredità della priora”).

Leggi anche su Vanity Fair: I Borbone da Trump, la nobiltà festeggia e i social anche

In scarsa considerazione furono presi pure gli artisti, da Carlo d’Angiò a Eugenio Bennato, e modesto rumore fecero i saggi giornalistici del piemontese Lorenzo Del Boca su una materia molto più sviluppata nella ricerca certosina di Gigi Di Fiore. Quando Pasquale Squitieri, ispirato non solo da questi materiali, ma dalle ricerche dello storico Franco Molfese portò a cinema “Li chiamarono… briganti” (1999), ricostruzione emozionale ma assai filologica dell'insorgente Carmine Crocco, al film furono praticamente inibite le sale.

Il movimento neoborbonico, negli anni Novanta, era ancora liquidato come folklore nostalgico, per cui nessuno se la prese se lo scrittore Riccardo Pazzaglia (rinomato per Arbore, ma che fece tanto di più) mise le parole all’Inno Reale musicato nel Settecento da Giovanni Paisiello. Qualche congiuntura, o forse una maturazione che prima non poteva giungere, regalò molto successo al saggio d'esordio di Pino Aprile “Terroni” (2010), mentre il Sud – borbonico o meno – riacquisiva la consapevolezza trasversale di un’azione concreta dopo i tanti studi, che avevano scavato rigo su rigo la breccia di cui la politica non s'era accorta o aveva sottovalutato. Neanche quando sugli spalti dello Stadio San Paolo si fischiava all’inno di Mameli nelle partite della Nazionale o fu interdetto il bianco vessillo borbonico. Né quando alcuni sindaci hanno cominciato a smantellare la toponomastica risorgimentale sostituendola con nomi dinastici Borbone.

I confini del M5S

Molti sorrisi e indifferenza si sono spenti il 4 marzo scorso, quando i colori dei collegi vinti dal Movimento 5 Stelle hanno riprodotto, in giallo, gli antichi confini delle Due Sicilie. Non in nome di un’ideologia – non c’è – ma raccogliendo un premio che il Mezzogiorno offriva a chi se lo prendeva.

Quattro giorni dopo, l'8 marzo, perché la visita a Trump non sappia d’improvvisata, la campanella che apre le contrattazioni a Wall Street la scuoteva la duchessa di Castro, Camilla, come ambasciatrice alle Nazioni Unite della Women for Peace Association. E il duca di Castro, intervistato dalla 'Voce di New York', commentava con laconica ma densa frase i risultati elettorali: “E’ probabile che questo voto sia un segno, da parte dei popoli del Sud, al tempo stesso di insofferenza e di volontà di cambiamento”.

Nessun endorsement, per carità. Nessuna voglia di un intervento diretto. Però l'atteggiamento che pertiene ai re: rappresentare super partes l’identità di tutti: “La nostra Casa Reale è radicata nel Meridione. Esprime la grande cultura, politica e amministrativa dei Borbone, che per lunghi tratti di storia sono stati sinonimo di amministrazione efficiente, buon governo, mecenatismo, innovazione e opere di bene”. Ora,  “è innegabile che ormai si è creato un gap nella distribuzione del benessere e della ricchezza in Italia, che penalizza il Meridione. È anche evidente che, senza il rilancio del Sud, è tutta l’Italia a essere penalizzata e a rischiare di non agganciare la ripresa. Colmare i ritardi è fondamentale”.

Sarebbe piaciuto all’ex stratega di Trump, Steve Bannon, l’incontro in Florida con Carlo di Borbone. Perché la gente delle ex Due Sicilie è differente dai francesi: non cacciò il re (tantomeno lo avrebbe decapitato). Gli fu tolto. Nel proclama dell’Immacolata del 1860, Francesco II prometteva ai meridionali “tempi più felici”. Non si sono ancora visti. Ma era già quella una promessa contro la politica. Il monarca non parlava alle cancellerie ma "ai popoli". Gettando semi che qualcuno coglie o, forse, coglierà. 

Gli ex parlamentari scrivono ai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico ed Elisabetta Casellati, per avviare un confronto sul tema dell'abolizione dei vitalizi, mettendo tuttavia in guardia i vertici delle istituzioni sul rischio incostituzionalità di un intervento che andrebbe ad agire su diritti acquisiti. Nella lettera, inoltre, gli ex parlamentari sottolineano che un colpo di spugna tout court sarebbe un "atto punitivo". In vista delle decisioni che il Movimento 5 stelle si appresta ad assumere sul fronte vitalizi e costi della politica, l'Associazione degli ex parlamentari ha scritto a Fico e Casellati chiedendo un incontro e suggerendo anche degli spunti di riflessione all'Ufficio di presidenza, organo competente in materia, come ad esempio inserire il tema dei vitalizi all'interno del dibattito sul bilancio interno.  

"L'Associazione degli ex-parlamentari della Repubblica condivide l'esigenza di contenimento dei costi della politica razionalizzando le spese delle Camere senza tagliare i costi della democrazia", si legge nella lettera. Quindi, "l'Associazione degli ex-parlamentari chiede di essere ascoltata per esporre il proprio punto di vista sugli annunciati provvedimenti in materia di vitalizi". Gli ex parlamentari elencano quindi, nella lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato, una serie di "temi del confronto".

Innanzitutto, "la necessità di un coordinamento tra Camera e Senato per giungere a decisioni comuni, evitando quanto è accaduto nella scorsa legislatura con la delibera sul contributo di solidarietà adottata dall'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati". In secondo luogo, l'Associazione suggerisce che "le eventuali misure riguardanti i vitalizi" vengano inserite "nella sede del dibattito d'aula sul bilancio interno, in considerazione del fatto che all'origine delle disposizioni in materia previdenziale per i parlamentari vi fu una decisione d'aula (seduta del 20 maggio 1954) e perché la discussione avvenga con il massimo di trasparenza, e coinvolga tutti i gruppi presenti in Parlamento".

"Chiediamo il rispetto per la legalità costituzionale"

In terzo luogo, gli ex parlamentari chiedono il "rispetto della legalità costituzionale. A questo riguardo si ricorda che l'unica forma di intervento sui trattamenti previdenziali in essere ammessa dalla Corte costituzionale in varie sentenze, è quella del contributo di solidarietà, a fini di solidarietà interna al sistema previdenziale, nel rispetto dei principi di legittimo affidamento, di ragionevolezza, di proporzionalità e di non reiterabilità. Nessuna legge approvata dal Parlamento di modifica della disciplina previdenziale ha mai messo in discussione retroattivamente diritti già maturati dai cittadini. Infatti, le riforme delle pensioni che si sono susseguite negli anni, da quella Dini del 1995 a quella Fornero del 2011 tutte hanno fatto salvi i diritti dei cittadini maturati prima della loro entrata in vigore.

Anche i regolamenti vigenti di Camera e Senato in materia previdenziale hanno rispettato questo principio prevedendo l'applicabilità delle nuove norme soltanto a chi è diventato parlamentare dopo il 1 gennaio 2012 e lo stesso Collegio di Appello della Camera dei deputati con sentenza n. 2 del 24 febbraio 2014 ha stabilito che proprio per rispetto di detto principio la misura del sistema contributivo introdotto dal regolamento del 2012 è 'adottata esclusivamente de futuro". Ne consegue che "pretendere di farlo per gli ex-parlamentari avrebbe soltanto un significato punitivo, di delegittimazione e umiliazione della funzione parlamentare che è libera e indipendente".

Per gli ex parlamentari "uscire dai binari della legalità costituzionale significa creare, inoltre, un pericoloso precedente che mette a rischio lo Stato di diritto e apre la strada al taglio delle pensioni in essere degli italiani". E ancora, per l'Associazione "quanto al ricalcolo dei vitalizi in essere con metodo contributivo ipotizzato da alcuni non si può non tener conto dei tanti problemi attuativi seri e complessi: il metodo di calcolo contributivo è stato introdotto in Italia a partire dal 1 gennaio 1996. È del tutto evidente che per i vitalizi erogati prima di quella data non si potrebbe procedere al metodo di ricalcolo contributivo. Nel sistema contributivo oggi in vigore non è prevista, come è noto, alcuna forma di tassazione dei contributi previdenziali nè è previsto alcun contributo aggiuntivo per avere titolo alla reversibilità. L'applicazione retroattiva del metodo contributivo ai vitalizi degli ex parlamentari obbligherebbe alla restituzione delle tasse, da loro pagate, sui contributi previdenziali (valutate, per il periodo 2001-2011, in oltre 154 milioni di euro tra Senato e Camera) e del contributo del 2,5% per la reversibilità".

Dopo altre perplessità ed eccezioni riguardanti il ricalcolo dei vitalizi con metodo contributivo, gli ex parlamentari osservano che "i problemi attuativi sopra indicati genererebbero, a nostro parere, oneri finanziari consistenti a carico delle Camere che vanno attentamente quantificati al fine di verificare l'esistenza di problemi di copertura". Inoltre, nella lettera si mette in guardia dalle "ricadute finanziarie delle inevitabili richieste di danni da parte di quanti, in base alle regole vigenti in passato, hanno rinunciato alla propria carriera professionale per mettersi al servizio del Paese. Per ultimo, non certo per ordine di importanza, si pone il tema della tutela giurisdizionale riconosciuta dalla Costituzione a tutti i cittadini quando ritengano lesi i loro diritti". Infine, gli ex parlamentari chiedono che ogni decisione in materia non sia adotatta "prima che siano costituiti gli organi di giurisdizione interna". e che sia garantita la "terzietà di questi organi. Riteniamo necessario garantire, come avviene per il personale dipendente delle Camere, la presenza negli organi di giurisdizione interna di rappresentanti dell'Associazione degli ex parlamentari della Repubblica", conclude la lettera, firmata dal presidente dell'Associazione, Antonello Falomi.