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Alla vigilia della direzione nazionale, annunciata come la resa dei conti finale tra renziani e antirenziani, scoppia la battaglia sul sito Senzadime.it. Secondo il Corriere, il sito ispirato dai fedelissimi dell’ex presidente del Consiglio e creato da Alberico De Luca (che si professa elettore del Pd), ha lo scopo di "offrire uno strumento di trasparenza sulle scelte del Pd".

In sostanza è un elenco di quelli che sono a favore, quelli che sono contrari e quelli che non si sono ancora espressi su una ipotesi di alleanza tra il Pd e M5s. Prima con i nomi in chiaro, poi coperti da 'omissis'.

 

Spaccatura in vista

I franceschiniani parlano di una pagina inaccettabile e di 'liste di proscrizione' e paventano la spaccatura irreversibile del partito. Anche il segretario reggente, Maurizio Martina, punta il dito e chiede che "il limite non venga valicato". 

Pochi minuti dopo le dichiarazioni di Martina, dal sito — ancora attivo – svaniscono i nomi: "Alcuni esponenti del Partito Democratico hanno chiesto di chiudere questo sito che si limita a riportare opinioni espresse pubblicamente, come nelle migliori tradizioni anglosassoni, con i riferimenti e i link ai tweet e alle dichiarazioni" scrivo i promotori, "Era ispirato a un principio di trasparenza democratica nelle scelte fondamentali che connotano la vita nazionale. Non intendeva dividere il Partito, ma informare gli elettori. Su ogni nome adesso troverete un 'omissis', vista l’intenzione dei diretti interessati a non mostrare la propria linea politica in forma aggregata”.

Un'esibizione di forza

Gira però anche un documento voluto dal coordinatore della segreteria, Lorenzo Guerini, che raccoglie le firme dei renziani e chiede che la direzione non si trasformi in una “conta interna”. Tra i promotori anche i capigruppo di Camera e Senato Graziano Delrio e Andrea Marcucci. Si tratta, secondo La Stampa, di una 'prova muscolare'. I firmatari, spiegano i promotori, rappresentano la maggioranza assoluta della direzione, 120 su 209. Una mossa che viene definita “di pace”. 

In segreteria, giovedì, i promotori sono orientati a chiedere un voto sul mandato del reggente Maurizio Martina fino all'Assemblea nazionale, scrive Repubblica. E Orlando commenta su Facebook, riferendosi al documento di Guerini: "La conta promossa dai capigruppo per non fare la conta ancora non si era mai vista". Delrio ribatte: "Nessuna conta interna, ma un appello all'unità". E Dario Franceschini, nel commentare il sito senzadime.it, che raccoglie le liste di componenti della direzione favorevoli e contrari alla trattativa sul governo con il M5s, afferma su Twitter: "Quando in una comunità politica alla vigilia di una discussione seria che riguarda il partito e il Paese si arriva a questo, c'è qualcosa di profondo che non va".

Renzi mantiene la linea dell'Aventino

Renzi, nel pomeriggio, fa il punto nella sua Enews: "Personalmente credo che la linea che il PD ha tenuto, la linea del "tocca a loro", sia quella più giusta. Qualcuno dei nostri amici e compagni di partito – come Piero Fassino ieri sera a Porta a Porta – ha chiesto al PD di allearsi con il Movimento Cinque Stelle per un nuovo bipolarismo centrosinistra-centrodestra. A me sembra un errore".
"Chi ci ha votato, lo ha fatto sulla base di una proposta radicalmente alternativa al Movimento Cinque Stelle. Un'alleanza con i grillini tradirebbe il mandato degli elettori", aggiunge Renzi. "Non ci divide soltanto una campagna elettorale basata sugli insulti, sugli attacchi personali e sulle promesse irrealizzabili: ci divide un'idea di futuro, dal reddito di cittadinanza ai vaccini. E io che ho sempre combattuto la logica del partito-azienda di Berlusconi non credo che sia nel DNA del PD finire alleati con l'azienda-partito di Casaleggio. Rispetto chi vuol fare quell'accordo, ma credo di avere il dovere – prima ancora che il diritto – di illustrare le ragioni del mio radicale dissenso", conclude.

Ma per i martiniani è una "presa in giro"

"Ho invitato tutti gli amici del Pd all'unità anche in vista della direzione di domani. Lorenzo Guerini ha proposto questo documento (molto sobrio, nello stile che è proprio di Lorenzo) per evitare polemiche", prosegue l'ex premier, "Io l'ho firmato come molti altri parlamentari e membri di Direzione: no al Governo Di Maio o Salvini, sì a lavorare insieme sulle regole del gioco, no a polemiche inutili". Ma per i martiniani la frattura è troppo grave per essere sanata.

"Serve unità nella chiarezza. Perché chiedere unità dopo che hai delegittimato chi sta gestendo collegialmente questa fase è come prendere in giro ancora una volta tutti i tuoi" è, a quanto si apprende, a posizione degli esponenti del Pd vicini al segretario reggente in merito alla direzione che si svolgerà domani. E con la quale il Pd si gioca, forse, la sua stessa esistenza.

Ponte o balneare, il governo che si profila dopo i veti incrociati di grillini, Pd e leghisti avrà probabilmente, se mai nascerà, vita breve. Quale sia la differenza tra i due è, in fondo, solo questione stagionale o metereologica: il governo ponte può essere varato in qualsiasi momento dell’anno, quello balneare implica la bella stagione, quella delle ferie, in cui è meglio non andare alle urne.

Entrambi, insomma, servono a far decantare una situazione altrimenti troppo complessa. Diceva del resto Giolitti, che di crisi ministeriali se ne intendeva, che quando un problema è insolubile basta chiuderlo in un cassetto, e la soluzione la porterà il tempo.

 

Così deboli, così utili

Per entrambi vale la stessa definizione, data da Internazionale, secondo cui si tratta di esecutivi “privi di una solida base politica e destinati a durare per un periodo limitato di tempo, con il compito di espletare unicamente funzioni amministrative, in attesa che si risolva una crisi politica in atto”.

Ma questo non vuol dire che siano buone scuse per prendere tempo causa incapacità, o andare in vacanza invece di lavorare sotto la canicola. Spesso servono, per l’appunto, a far maturare le decisioni più difficili, se non quelle epocali.

Quando nacque il centrosinistra

Di governo ponte o balneare si può parlare benissimo nel caso del primo esecutivo guidato da Giovanni Leone: durò dal giugno al novembre 1963. Monocolore democristiano, aprì la strada alla lunga e fruttuosa stagione del Centrosinistra storico, formula destinata a durare cinque anni esatti, e che fu chiusa con un altro governo a durata, formula e guida identica: il secondo esecutivo di Giovanni Leone, dal giugno al novembre del 1968.

Un precedente che potrebbe piacere al Colle

Somiglia molto a ciò che il Quirinale pare avere in mente in queste ore (un ponte lungo che si estende fino all’inizio del prossimo anno) il quarto governo di Mariano Rumor, nato in una notte di luglio del 1973 e spentosi il 2 marzo dell’anno successivo, all’alba di una legislatura che si chiude con un nuovo esecutivo ponte, il quinto governo Moro (febbraio-aprile 1976). Lo stesso per il primo governo Cossiga, dall’agosto 1979 al marzo successivo.

Qualche volta dura una settimana

Il record comunque tocca a Giulio Andreotti: la prima volta che fu chiamato a Palazzo Chigi resistette dal 18 febbraio 26 febbraio 1972. Otto giorni, mai così poco, nemmeno l’intero mese più breve del calendario. Anche qui si aprì una stagione nuova nella storia della Repubblica; quella delle elezioni anticipate.  Andreottianamente si potrebbe commentare che, più che un ponte, fu un Ponte dei Morti.

“Distinguere il bene comune dai molteplici interessi di parte”. Nell’intervento alle celebrazioni del primo maggio questo passaggio del discorso di Mattarella è da leggere come un appello ai partiti a evitare di guardare al proprio orticello e pensare invece al Paese che solo così “può andare incontro con fiducia al proprio domani”.

Il monito sui divari sociali

Per il Capo dello Stato “i divari sociali” sono “un prezzo insostenibile” per l’Italia, “la crescita del lavoro deve essere centrale per ogni strategia di governo”. Il problema è che di fronte ai tanti appuntamenti internazionali che ci attendono (per esempio il G7 in Canada) e alle problematiche che si affacciano ogni giorno (a preoccupare il Capo dello Stato è soprattutto il riaffacciarsi delle spinte protezionistiche) occorrerebbe che le forze politiche si assumessero la responsabilità per trovare una soluzione nella formazione dell’esecutivo.

La politica bloccata

E al momento si registra una totale impasse: M5s (con Di Maio) rilancia il voto anticipato, la Lega (con Giorgetti) un governo centrodestra con i pentastellati. E si torna al punto di partenza, tanto che il presidente della Camera Fico evita di commentare voci di urne a breve e prematuri tavoli sulla legge elettorale e si affida proprio alla saggezza del presidente della Repubblica. Tocca a lui, tocca alla prima carica dello Stato tirato per la giacchetta da FI e Fdi che insistono sull’ipotesi di un esecutivo di minoranza, dalla Lega che minaccia la piazza in caso di asse Pd-M5s e dai grillini che vogliono un nuovo ricorso alle urne per i cittadini già da giugno.

I vicoli ciechi intorno al Quirinale

Mattarella ha preso tempo. In attesa innanzitutto della direzione del Pd. Ma ormai anche al Colle è sempre più evidente che le possibili strade da percorrere rischiano di trasformarsi in vicoli ciechi. Dei tre forni – Pd-M5s, Lega-M5s, centrodestra-M5s – il presidente della Repubblica non ne ha privilegiato neanche uno.

Una gestione trasparente della crisi politica, basata sui numeri. Sono rimbalzate voci in Parlamento dell’intenzione nei giorni scorsi di Salvini di staccarsi da Berlusconi, tam tam di una possibile convergenza dei renziani sul nome di Giorgetti grazie alla mediazione di Berlusconi. Ma il Capo dello Stato ha messo i partiti alla prova sui fatti e finora non è emersa alcuna luce.

Anche la strada di un incarico "al buio", di un governo allo sbaraglio, con numeri ballerini, non sembra percorribile. Non fu data questa possibilità nella passata legislatura neanche a Bersani che aveva numeri molto più ampi. Ecco perché si rafforza l’idea che un governo del Presidente, di transizione, di garanzia, con una figura esterna ai partiti, possa essere l’unica ‘exit strategy’. Due sono gli scogli: il primo è legato, oltre a chi deve guidarlo (e i nomi fin qui fatti, come Flick, non sembrano avere chanches); il secondo a chi lo vota.

Nel caso si andasse su questa prospettiva la prima carica dello Stato potrebbe chiedere ai partiti di assumersi la responsabilità di metterci la faccia. Per un esecutivo emergenziale che nasca con la ‘mission’ di trattare con l’Europa e di varare la legge di bilancio, scongiurando anche il temuto aumento dell’Iva. Lega e M5s se non dovessero trovare un’intesa in questi giorni, dovrebbero – questo l’auspicio dei vertici istituzionali – farlo partire ma per ora un loro via libera non c’è.

Il problema tempo

Il secondo ostacolo è sul tempo: quanto dovrebbe durare. La data di luglio come termine non viene considerata, a mali estremi i cittadini potrebbero tornare alle urne a ottobre. Ma in questo modo si rischia di regalare il Paese agli speculatori e di portare ‘Italia all’esercizio provvisorio. Da qui la spinta che potrebbe arrivare dal Colle – sempre se dovesse essere questa l’extrema ratio – affinché si arrivi perlomeno fino a marzo prossimo. Con un check magari a dicembre quando potrebbe essere più chiaro il quadro possibile.

Sei mesi in politica sono un’eternità e nel Movimento 5 stelle, nel Pd e nel centrodestra potrebbero cambiare gli equilibri interni e le figure di riferimento. Il partito del Nazareno per esempio è alle prese con una nuova contesa interna. Non che la direzione di giovedì possa riaprire il forno tra dem e pentastellati, ma potrebbe fare chiarezza su chi da la linea: Martina, dopo lo scontro di ieri con Renzi, oggi getta acqua sul fuoco, ribadisce di voler fare squadra ma i fedelissimi dell’ex premier già guardano oltre e pensano alla figura su cui puntare in futuro.

Al centro della discussione però dovrà esserci necessariamente la crisi politica, perché quando Martina, Franceschini e Orlando parlano di “rischio estinzione” si riferiscono all’eventualità di elezioni a breve. Il M5s, invece, sembra essere tornato al suo passato movimentista, con Di Maio che dopo essersi scontrato con Berlusconi e Renzi ha evocato il voto per uscire dall’impasse. Nel centrodestra, invece, Salvini sta sempre più conquistando posizioni e potere ma non intende staccarsi dal Cavaliere, anche perché così sarebbe intestatario di un 17% e non del 37%.

A causa del pantano attuale dunque la carta delle elezioni resta sul tavolo del Capo dello Stato. Il governo istituzionale potrebbe poi trasformarsi in elettorale, dopo aver risolto i nodi economici in agenda, con un accordo su alcuni punti ben precisi. Ma un esecutivo non nascerà con il solo fine di promuovere un nuovo sistema elettorale modificando il ‘Rosatellum’. Il Colle è preoccupato del rischio instabilità. Difficilmente un ‘governo elettorale’ troverebbe una sintesi tra i partiti.

Ancora qualche giorno, e magari anche un terzo giro di consultazioni, e il presidente della Repubblica quindi tirerà le somme. Di sicuro – assicurano al Colle – si proseguirà nella gestione trasparente della crisi. I partiti già hanno ‘tradotto’ il messaggio che arriverà: non sarà consentito alle forze politiche di poter far giochini o di lasciare il Paese in balia delle intemperie. La palla dunque passa a Mattarella che inviterà – come ha fatto martedì mattina – a “distinguere il bene comune dai molteplici interessi di parte”.

Prima o poi doveva accadere. A furia di evocare la ruspa, contro gli insediamenti nomadi abusivi o contro gli avversari politici, Matteo Salvini ha deciso di imparare a guidarne una. Così, dopo gli impegni elettorali precedenti al voto in Friuli Venezia Giulia e galvanizzato dalla schiacciante vittoria del suo candidato Massimiliano Fedriga, il leader leghista ha deciso di rilassarsi il 1 maggio prendendo "lezioni di ruspa", ovvero imparando in concreto a utilizzarla. A testimoniarlo è un video condiviso sulla sua pagina Facebook, al termine del quale tuona sorridente: "RUSPA"! mentre un addetto ai lavori gli spiega come manovrare il braccio escavatore.  

A esser pignoli, il mezzo in azione sembrerebbe essere una scavatrice, ma poco importa. Il messaggio, corredato dalla solita hashtag "andiamo a governare", è chiaro: dopo il verdetto degli elettori friulani e il naufragio della trattativa tra Pd e Cinque stelle, il centrodestra a trazione leghista vuole un incarico dal Quirinale per poi cercarsi i voti in Aula. Se il candidato sarà Salvini o il suo più moderato braccio destro Giancarlo Giorgetti, che dovrebbe essere assai più gradito ai dem e potrebbe aprire una breccia nei renziani che hanno avversato l'intesa con Di Maio, lo scopriremo nei prossimi giorni. Sempre che Mattarella​, ostile a qualsiasi incarico che non parta già con una maggioranza in Parlamento, sia aperto a tale prospettiva. E che il veto dello stesso Salvini nei confronti del Pd sia revocabile, qualora il Colle voglia tentare il tutto per tutto prima di valutare l'ipotesi di nuove elezioni.

La giacca di Sergio Mattarella ha ormai più strappi che tela: tutti gliela strattonano per chiedergli l'impossibile e il suo contrario. Il voto dopodomani, o in autunno, magari nel 2019 o tra due anni, oppure un incarico per un governo di minoranza ma senza pre-incarico e con la garanzia di non avere il terzo uomo alle calcagna. Insomma, se desse retta a tutti, il Presidente della Repubblica potrebbe anche essere preso da un capogiro. Invece l'uomo ha tra le sue doti la calma e, pur essendo molto preoccupato, non intende farsi prendere da una frenesia che fa perdere di vista gli obiettivi principali.

Questi, per il capo dello Stato, sono tutelare le istituzioni e garantire un governo utile a risolvere i problemi del Paese. Il primo obiettivo è arduo: il voto del 4 marzo ha restituito la fotografia di un'Italia divisa in tre, con i leader delle diverse forze politiche che fanno fatica a intavolare un confronto per superare la fase bellicosa della campagna elettorale. Lo si è visto nel fallimento dei due tentativi di dialogo tra centro-destra e Movimento 5 Stelle e tra quest'ultimo e il PD. Ora la strada è strettissima.

Luigi Di Maio ha chiesto che si voti ai primi di luglio, Silvio Berlusconi che si vada a un governo di minoranza formato dal centrodestra. Due richieste che il capo dello Stato sembra poco intenzionato ad accogliere. La prima perché far tornare il paese al voto dopo soli 4 mesi dalle elezioni darebbe all'esterno un segnale di fragilità di cui l'Italia non ha bisogno. La seconda per motivi analoghi: un governo senza un'ampia base parlamentare dovrebbe strappare ogni giorno i voti per far approvare i suoi provvedimenti, rischiando di cadere ad ogni legge.

Ecco perché il capo dello Stato non intende mettere fretta e tantomeno farsi mettere fretta: la situazione ha bisogno di riflessioni ponderate e non di strappi e fughe in avanti. Purtroppo l'opera pedagogica del capo dello Stato non dà tutti i frutti sperati e il rischio di tornare a elezioni in tempi brevi è molto concreto. A meno che una parte del Pd non sostenga un esecutivo di centro-destra o Matteo Salvini non abbandoni Silvio Berlusconi per Luigi Di Maio, le possibilità di avere un governo di legislatura sono al lumicino.

Non volendo e non potendo ormai far votare in estate, servirà dunque un governo che porti il paese alle elezioni anticipate negli ultimi mesi del 2018 o nella primavera 2019, quando si voterà anche per le elezioni europee. Molto probabilmente sarà un governo di tutti e di nessuno, che nascerà dalla mente del capo dello Stato, non ostacolato da alcuni partiti ma criticato da tutti. Il suo obiettivo sarà innanzitutto varare la legge di bilancio per evitare che dal prossimo anno aumenti l'IVA.

Nelle speranze di Mattarella c'è anche una riforma che renda la legge elettorale più utile a individuare una maggioranza dopo il voto. Quest'ultima sembra però un'impresa ardua, visto il clima politico conflittuale di queste settimane. In pochi giorni, comunque, il capo dello Stato farà sapere come intende proseguire per risolvere lo stallo, cercando di mantenere l'equilibrio mentre tutti lo tirano per la giacchetta.

Lo sconfitto in Friuli Venezia Giulia è il Movimento Cinque Stelle, ma salta il tappo delle tensioni nel Pd. Una combinazione che rischia di portare il Paese alle nuove consultazioni. Sarebbe la legislatura più breve ed inconcludente della Repubblica.  

Tutto comincia quando il Movimento, che in Friuli Venezia Giulia perde oltre i limiti dell’immaginabile e dimezza i consensi rispetto a 55 giorni fa, decide di rilanciare: Gigi Di Maio chiede a Matteo Salvini di fare fronte comune e imporre a Sergio Mattarella lo scioglimento anticipato delle Camere.

Quasi contemporaneamente il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, sbotta dopo l'intervista di ieri di Matteo Renzi, favorevole alla linea dell'opposizione senza se e senza ma.  "Chi perde si fa da parte", manda a dire Martina al predecessore, "per me è impossibile guidare il partito in queste condizioni". Risultato: nuovo colpo alla tenuta della legislatura. Anche se difficilmente si andrà a votare a giugno, bisognerebbe sciogliere entro lunedì. 

I numeri dicono tutto, anche che in pochi hanno votato

Primo dato della minitornata friulana: la bassa affluenza. Poco meno del 50 percento. Un elettore su due è rimasto a casa. I dati usciti dalle urne, invece, sono questi: Lega Nord 35%; Partito democratico 18,39%; Forza Italia 12,12%; Movimento 5 stelle 7,27%; Progetto Fvg per una Regione speciale Fedriga presidente 6,08%; Fratelli d'Italia – Alleanza nazionale 5,64%; Cittadini per Bolzonello presidente 4%; Autonomia Responsabile 3,83%; Patto per l'Autonomia 3,57%.

Al di là dei numeri, vuol dire che la Lega si rafforza e non di poco, anche perché il candidato presidente di tutto il centrodestra è il verde Massimiliano Fedriga, e questi a sua volta ha avuto un buon risultato personale con la lista a lui direttamente collegata. Forza Italia può sorridere: migliora la sua percentuale rispetto alle politiche del 5 marzo, anche se al Nordest è un junior partner degli alleati.

Il Pd evita la terribile figuraccia del Molise, ed ottiene un dato in linea con la media nazionale. Anzi, un po’ migliore. Comunque, ha perso la regione e la cosa non può fare piacere. Con il centrodestra il distacco poi è quasi abissale: una trentina di punti.

Salvini esulta, ma anche Forza Italia sorride

Si riapre la partita del governo? Certamente Matteo Salvini tenta di proiettare subito il dato del Friuli Venezia Giulia su scala nazionale, e su Facebook esulta così: "Dopo i molisani, anche donne e uomini del Friuli Venezia Giulia ringraziano il Pd per l’egregio lavoro svolto, e salutano Di Maio & Compagni. Grazie. Andiamo a governare, io sono pronto!". Evita, ed il particolare non è da poco, di sollevare la questione della leadership all’interno del centrodestra: tanto il leader è lui, e non può che trar vantaggio dal presentarsi sul tavolo delle trattative con i grillini con tutta la compagine unita.

Non a caso da Forza Italia Anna Maria Bernini sottolinea: "Il centrodestra ottiene una grandissima vittoria, riconquistando la Regione a Statuto speciale dopo una legislatura a guida Pd. Il voto registra un forte arretramento dei Cinque Stelle, a riprova che la coalizione di centrodestra, quando è unita, non ha avversari".

Il primo a spaccarsi è il Pd

Anche il Pd di osservanza renziana gongola, perché se i grillini perdono, perdono anche quelli del Pd che con i grillini vogliono fare un accordo. E Michele Anzaldi esorta impietoso: Di Maio “inizi con un'approfondita analisi del voto: i cittadini in queste settimane hanno visto il suo volto arrogante, arrivista e inconcludente, pronto a tutto pur di entrare a Palazzo Chigi".

Il progetto politico dei renziani è palese, e provoca la reazione di Martina. "Per il rispetto che ho della comunità del Partito Democratico porterò il mio punto di vista alla Direzione nazionale di giovedì, che evidentemente ha già un altro ordine del giorno rispetto alle ragioni della sua convocazione", è la sua amara constatazione. Poi aggiunge: "Servirà una discussione franca e senza equivoci perchè è impossibile guidare un partito in queste condizioni e per quanto mi riguarda la collegialità è sempre un valore, non un problema". E conclude: "Ritengo ciò che è accaduto in queste ore grave, nel metodo e nel merito. Così un Partito rischia solo l'estinzione".

Intanto il M5S, stretto nell’angolo dal risultato friulano, rilancia con il suo capo politico Di Maio: "E' evidente che i partiti resistono con tutte le forze" per mantenere "i loro sporchi interessi"; "Per me non c'e' altra soluzione. Bisogna tornare al voto il prima possibile", e "a Salvini dico: andiamo insieme a chiedere di andare a votare a giugno". Insomma, si riscopre almeno per un giorno la vocazione movimentista.

Urne alla fine di settembre, prima è difficile

Ma questo non vuol dire che il voto sarà immediato. Innanzitutto, Salvini deve rompere definitivamente gli indugi (ed i rapporti con Berlusconi, che una volta di più rischia di non potersi candidare e soprattutto ha bisogno di tempo per far riprendere energie a Forza Italia). Poi c'è il nodo delle tensioni interne del Pd: in ogni caso sarà impossibile prendere una decisione prima della direzione del partito, convocata per il 3 maggio, che è giovedì.

Una volta proceduto con la conta, ci vorrà una giornata almeno per chiarire il quadro e trarre le dovute conseguenze. Si arriva così a venerdì. Aggiungere, a questo punto, i necessari adempimenti istituzionali. Vale a dire: Mattarella dovrà prendere visione della situazione, probabilmente prendersi del tempo per riflettere e, in caso di scioglimento, sentire i presidenti di Camera e Senato perchè il loro parere è obbligatorio per dettato costituzionale.

Difficile che lunedì si avrà, salvo ulteriori accelerazioni, l'annuncio. La prima data possibile, a questo punto, sarebbe il 23 settembre. Il che implicherebbe, comunque, uno scioglimento a luglio ed una campagna elettorale agostana. Non il massimo per smuovere un'opinione pubblica che sta dando da tempo segni di stanchezza.

Il suo curriculum è di quelli di assoluto rilievo. Dentro c’è tutto per capire di che persona si tratta, qual è il suo profilo, tranne un elemento: come si è avvicinato al Movimento 5 stelle. Giacinto della Cananea infatti è l’uomo scelto da Luigi Di Maio per guidare il “comitato scientifico di analisi dei programmi”, incaricato di “individuare con metodo le convergenze possibili dei 20 punti M5s con le proposte di Lega e Pd”. Ruolo che gli ha riconosciuto nella lettera pubblicata domenica 29 sul Corriere della Sera.

 

Lo studio del professor Della Cananea ha individuato i punti in comune tra il nostro programma e il loro e oggi vorrei passare in rassegna i principali e lanciare un appello: realizziamoli per il bene superiore degli italiani! (Luigi Di Maio, lettera al Corriere)

Il suo percorso dice che, scrive il Sole 24 Ore è un “Classe 1965, laureato con lode in giurisprudenza alla Sapienza nel 1989, della Cananea è meno famoso del suo maestro: quel Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta, più volte evocato in questi giorni nella rosa dei possibili premier terzi da proporre ai partiti nel caso non si riuscisse a trovare un accordo. Di Cassese, quando era ministro per la Funzione pubblica nel governo Ciampi, della Cananea è stato consulente in materia di semplificazione amministrativa. Dal 1997 al 2003 è stato nel Cda di Cassa depositi e prestiti. Indubbio il profilo europeista, altra garanzia da esibire con Mattarella”.

Dal 2000 svolge poi attività di consulenza per regioni ed enti locali (come la Regione Toscana, la Provincia di Roma, il Comune di Pesaro), società pubbliche e gestori di servizi pubblici. Tra il 1993 e il 1994 è stato consulente dell’allora Ministro della funzione pubblica Sabino Cassese in tema di semplificazione amministrativa e tutela degli utenti dei servizi pubblici. "Già nel giugno 2017 Della Cananea aveva partecipato ad alcune iniziative del Movimento 5 Stelle, tra cui un convegno alla Camere Questioni e visioni di giustizia", scrive Formiche.net.

Ha fatto discutere invece un piccolo retroscena pubblicato su Il Tempo. "Chi c'è davvero alle sue spalle?", si chiede il giornale. La risposta di Franco Bechis è che della Cananea "è il meno noto di un trio" di strettissimi collaboratori di Sabino Cassese, composto da due "figli di" eccellenti: Giulio Napolitano, figlio di Giorgio, e Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di Sergio. I tre hanno condiviso tutto: lavoro, esperienze, idee e soprattutto humus culturale lontanissimo sia dal grillismo sia dai sovranisti e dalla nuova destra italiana. Basta sfogliare quel programma in dieci punti realizzato per Di Maio per capirlo.

 "Quelle paginette forgiate ad ogni uso e consumo – scrive Bechis – hanno addomesticato, plasmato, trasfigurato e rimesso all'onore del mondo che conta un testo ribelle e di rottura che andava di traverso alle cancellerie più importanti d'Europa. Oggi quel documento potrebbe avere l'imprimatur di Napolitano e Mattarella padre, tanto da apparire scritto da loro più che dalla congrega dei figli amministrativisti. È divenuto docile, rispettoso, rassicurante, generico quel che basta per adattarsi a qualsiasi abito sia suggerito per l'occasione". I grillini non hanno battuto ciglio, forse non se ne sono nemmeno accorti. Ma basterebbe dare un altro elemento a Salvini e Meloni per farli rabbrividire: "Giuliano Amato che un altro nume tutelare del trio".

Tocca a lui quindi stanare le convergenze programmatiche possibili: è un tecnico con cui i Cinque stelle tentano di dotarsi di una classe dirigente all’altezza dei compiti di governo. Caustico il commento di Aldo Grasso sul Corriere della Sera: “Di Maio, fatte le debite proporzioni, sembra Mike Bongiorno, riduce la politica parlamentare a quiz. Da una parte ha un team di esperti che gli preparano le domande, cioè il programma (la Casaleggio Ass. e l’Associazione Rousseau), dall’altra il notaio, il Signor No, chiamato a dirimere le questioni più spinose. Si vede che è un nuovo format politico: democrazia diretta, sì ma dall’alto. Che un accordo contrattuale tra partiti per il governo sia affidato a un «Signor No», è la cosa più esilarante finora apparsa sulla scena politica. In Cananea direbbero: da indemoniati".

“Renzi non è mai andato via, questo è evidente dal giorno in cui ha posticipato l’assemblea del partito. Da Fazio abbiamo visto il Renzi di sempre, che un po’ attacca, un po’ ironizza e un po’ si difende. È fermo, le ferite delle sconfitte non gli passano mai, è ancora al dicembre 2016, vuole ancora la rivincita…”. Il direttore di Huffington Post Lucia Annunziata ha commentato al Fatto Quotidiano in edicola il ritorno in televisione di Matteo Renzi e critica duramente temi e linguaggio usato dal leader del Partito democratico: “Non c’è evoluzione nel suo discorso, proprio non è ancora entrato nel clima”, ha spiegato. "Mi limito a constatare che siamo ancora lì alle stesse tematiche, è quello il problema".

Ma su una cosa ha ragione, spiega la giornalista, e riguarda i punti di contatto tra i rispettivi elettorati: “non sono pronti, per anni c’è stata una divisione forte e sanguinosa. Per l’elettorato del M5s Renzi e il Pd sono peggio di Berlusconi”. Quindi Renzi ha ragione? “Non vedo male il fatto che non si butti, sarebbe una finzione. Io in politica amo i processi chiari. Queste consultazioni lo sono state”.

A sorpresa Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico che si era detto pronto a strappare la tessera del Pd appena presa di fronte alla prospettiva di un governo con M5s, apre al dialogo con i grillini.

Può esserci, dice intervistato da Lucia Annunziata, "perché in politica bisogna sedersi con tutti, ma non per fare la ruota di scorta a un governo Di Maio". In politica ci si siede sempre al tavolo, ma con una proposta, ma non per fare un'alleanza con il movimento 5 Stelle. Allora facciamo tutti un passo indietro e facciamo noi la proposta di un governo istituzionale serio". 

Il problema di Di Maio e del Movimento 5 stelle, aggiunge, "è solo quello di arrivare al governo, "perché poi la linea la daranno solo Grillo e Casaleggio. C'è ancora tantissima propaganda nel M5s, è un partito che prima delle elezioni sosteneva il referendum sull'euro. Io non do credibilità a Di Maio che ha un comportamento ondivago e che cambia il programma proprio quando deve andare lui a Palazzo Chigi". Per Calenda M5s ha "una leadership carismatica che non è Di Maio ma Grillo ed è dall'esterno che arrivano delle svolte", 

Per spiegare il nuovo atteggiamento, Calenda dice: "E' chiaro che in tutti i programmi ci sono cose che possono essere messe insieme, ma la verità è che c'è una diversità fortissima tra M5s e Pd" e porta l'esempio di "due problemi" che sta affrontando, l'Ilva e il Tap. "La linea del M5s è di abbandonare il Tap e di chiudere l'Ilva. Il governo è fatto di queste scelte ed è fatto tutti i giorni di queste scelte: come si fa a stare insieme se la quotidianità del governo diventa un continuo conflitto? Il Paese non ha bisogno di questo. Bisogna dunque sedersi con tutti, e quindi anche con i 5 Stelle, ma con una proposta che non può essere quella di fare la ruota di scorta di un governo di Di Maio".

La ricetta di Calenda è quindi di "proporre al Movimento 5 Stelle un governo istituzionale, con obiettivi condivisi e che metta mano a cose che sono interesse di tutti. Serve un governo pieno ma si può fare un passaggio intermedio, visto che né Salvini né Di Maio hanno mai governato". 

Giornata di attesa quella di oggi nei palazzi della politica. Si aspetta infatti l'esito del voto in Friuli Venezia Giulia, indicato dal centrodestra come nodo cruciale. Si aspetta la decisione del Pd, dopo le parole di Matteo Renzi in risposta alla lettera appello di Luigi Di Maio e la controreplica del capo politico di M5s. Si aspetta che il dialogo tra Lega e M5s riparta, nonostante la contrarietà di Silvio Berlusconi, a fronte delle proposte di Matteo Salvini.

Scenari e loro variabili

Al Quirinale si cominciano a valutare le ricadute delle possibili variabili di ogni scenario. L'obiettivo resta quello di dare un governo al Paese, motivo per cui si resta in silenzio per evitare che i comodissimi segnali di confronto possano gelarsi in un fiat. Ma se anche il tentativo nato dall'ultima esplorazione dovesse fallire, al Colle si sta individuando il possibile percorso successivo. 

Rimane il no a ogni incarico al buio. Dal centrodestra è giunta la richiesta di una investitura della coalizione per cercare in Parlamento i voti necessari alla fiducia. Ma il Colle è contrario ad avventure alla cieca, che non darebbero garanzie né di successo né di tenuta. Non resterebbe che chiamare di nuovo i partiti al Quirinale, magari per un terzo giro di consultazioni, che rappresenterebbero in parte un appello e in parte una tirata d'orecchie, seppur pacata.

Elezioni a ottobre?

Se nessuno rispondesse positivamente all'invito alla responsabilità, il rischio di andare a elezioni in ottobre sarebbe molto concreto. Ma per Sergio Mattarella questa ipotesi ha due controindicazioni grandi come una casa: il rischio di esercizio provvisorio e il dubbio che a legge elettorale invariata si possa ripetere lo stallo di questi mesi. Per questo il Capo dello stato cercherà in tutti i modi di favorire un confronto su una modifica del Rosatellum e anche il varo della legge di bilancio in tempi rapidi, in modo da giungere a elezioni con i conti in sicurezza.

A Palazzo Chigi, in estate, potrebbe non esserci più Paolo Gentiloni ma un premier di transizione, istituzionale (su cui è partito già il toto-nomi) che accompagni questi due passaggi. Il tempo è poco e il clima politico non è dei più favorevoli, ma Mattarella proverà a evitare salti nel vuoto.