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L’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ha dato, il 20 novembre, il suo via libera al referendum abrogativo sulla legge elettorale in vigore, il Rosatellum ter.

Ma com’è nato questo referendum e cosa prevede? A che punto siamo del suo iter dopo l’approvazione della Cassazione? Andiamo a vedere i dettagli.

Il referendum voluto dalla Lega

L’iniziativa politica per modificare la legge elettorale è stata della Lega e in particolare del senatore Roberto Calderoli, che ha battezzato Popolarellum il sistema elettorale che nascerebbe da un’eventuale vittoria dei “sì” al referendum.

Per avanzare la richiesta di referendum, la Lega, a cui si è unito il resto del centrodestra, non ha raccolto 500 mila firme ma ha sfruttato un’altra delle possibilità previste dall’articolo 75 della Costituzione: la richiesta di almeno cinque Consigli regionali.

Al momento del deposito del quesito referendario in Cassazione, il 30 settembre, i Consigli regionali che hanno fatto richiesta erano otto: Veneto, Sardegna, Lombardia, Friuli, Piemonte, Abruzzo, Liguria e Basilicata. Tutte queste regioni sono governate da alleanze di centrodestra, con Lega, Forza Italie e Fratelli d’Italia.

Che cosa cambierebbe con il Popolarellum

Se il referendum abrogativo voluto dalla Lega dovesse avere successo, verrebbe eliminata la quota proporzionale prevista dall’attuale legge elettorale, il Rosatellum ter.

Il Rosatellum prevede, in sintesi, che alla Camera e al Senato i tre ottavi dei parlamentari vengano eletti in collegi uninominali con il sistema maggioritario, in cui insomma vince chi prende anche solo un voto più degli altri. I rimanenti cinque ottavi sono invece eletti con sistema proporzionale con sbarramento al 3 per cento.

Come abbiamo spiegato nel nostro progetto Traccia il Governo, la legge elettorale con cui si è votato alle ultime elezioni era il Rosatellum bis, mentre adesso è in vigore – per le futuro consultazioni – il Rosatellum ter, in quanto dopo il taglio del numero dei parlamentari si sono resi necessari degli aggiustamenti.

Eliminando la quota – prevalente – di proporzionale, il sistema diverrebbe un maggioritario puro a turno unico, simile a quello in vigore nel Regno Unito. In concreto significherebbe che nel singolo collegio viene eletto chi prende anche un solo voto più degli altri candidati. Se ad esempio quattro partiti ottenessero il 19,9 per cento dei voti in tutti i collegi e il quinto partito il 20,4 per cento, quest’ultimo si accaparrerebbe il 100 per cento dei seggi.

Che passaggi mancano?

La Cassazione è incaricata di verificare la regolarità e la legittimità dei quesiti referendari, mentre spetta alla Corte Costituzionale valutare la loro legittimità costituzionale.

Questi ultimi vengono infatti valutati successivamente dalla Corte Costituzionale. Dunque, ottenuto il via libera dalla Corte di Cassazione, il referendum proposto dalla Lega dovrà ora superare l’esame della Consulta.

Questo è il passaggio più insidioso, considerando i dubbi di costituzionalità che hanno avanzato diversi esperti, in quanto il sistema che si creerebbe in caso di vittoria dei “sì” al referendum non sarebbe immediatamente applicabile. Servirebbero infatti degli ulteriori interventi legislativi per definire i collegi e via dicendo, e la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha in passato stabilito che il Paese non possa restare senza una legge elettorale applicabile. Se infatti il governo cadesse improvvisamente, non si saprebbe con quale legge elettorale andare al voto.

Se, come sostiene ad esempio il padre del Popolarellum Roberto Calderoli, questi dubbi di costituzionalità verranno superati e il referendum otterrà il via libera dalla Consulta, a quel punto verrà fissata una data per la consultazione.

Quando si terrà eventualmente il voto, perché il referendum venga approvato, in base all’art. 75 Cost., sarà necessario che l’affluenza superi  il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto e sarà poi necessario, ovviamente, che i “sì” alla riforma siano di più dei “no”.

Conclusione

Il referendum abrogativo che elimina la quota proporzionale della legge elettorale attualmente in vigore, il Rosatellum ter, è stato voluto dalla Lega. La richiesta è venuta da otto consigli regionali guidati dal centrodestra.

Il 20 novembre la Cassazione ha dato il suo via libera ai quesiti referendari e ora toccherà alla Corte Costituzionale valutare se ci siano profili di incostituzionalità. Se anche la Consulta darà parere positivo, si potrà tenere il referendum. Perché il quesito venga approvato sarà necessario superare il quorum e avere una maggioranza di “sì”.

Se tutte queste condizioni si verificassero, la nuova legge elettorale in Italia – detta Popolarellum dal suo ideatore, Roberto Calderoli – sarebbe un maggioritario puro a turno unico. Un sistema simile a quello che vige nel Regno Unito.

Se avete delle frasi o dei discorsi che volete sottoporre al nostro fact-checking, scrivete a dir@agi.it

Mentre la città dormiva, questa notte, la marea è tornata a inondare Venezia toccando i 115 centimetri. Il bollettino del centro maree, sempre più frequente, scandisce le giornate dei cittadini che, in questi giorni, non hanno mai messo da parte gli stivali per affrontare l’acqua alta. Un fenomeno che non darà tregua nemmeno nel weekend.

Il Comune di Venezia, attraverso il suo organo di controllo, ha fatto sapere che il livello dell’acqua in città si manterrà ancora per diverso tempo al di sopra di valori elevati.

Il prossimo picco è atteso a fine mattinata, alle 11.55. Numeri simili a quelli della notte, anche se in leggero miglioramento, tra i 105 e i 110 cm. Le scuole, vista l’emergenza, sono rimaste chiuse anche nella oggi. Intanto il sindaco della città lagunare, Brugnaro, ha fornito una prima stima dei danni. “Intorno al miliardo di euro”, ha detto parlando al Messaggero. 

Per domenica la situazione potrebbe anche peggiorare. Il picco previsto, ultimo aggiornamento alle 6.30 di questa mattina, afferma che si raggiungeranno i 140 cm alle 11.20. Un’altra giornata difficile per negozianti e uffici che lavorano per poter riaprire il prima possibile. 

Due visite istituzionali

Intanto, per constatare la situazione tra le calli allagate e i campi inondati, è arrivato il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese. La visita sarà l’occasione – riferisce un comunicato del Viminale – “per testimoniare la solidarietà e la vicinanza agli amministratori e alla popolazione e ringraziare i vigili del fuoco, le forze di polizia e tutto il personale impegnato senza sosta nella attività di soccorso e di tutela della incolumità dei cittadini veneziani, nonché di salvaguardia del patrimonio artistico e culturale della città lagunare​”.

Anche Maria Elisabetta Alberti Casellati è giunta a Venezia accolta dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, dal sindaco Brugnaro e dal prefetto della città. Il presidente del Senato ha deciso di recarsi a Venezia a seguito dell’emergenza maltempo per testimoniare la sua solidarietà alla popolazione e agli amministratori di Venezia. Visiterà la basilica di San Marco e la sua cripta. Il programma prevede anche una visita al conservatorio Benedetto Marcello.

Da Roma, invece, ha parlato Pier Paolo Baretta, sottosegretario al ministero dell’Economia e delle Finanze, che ha assicurato in un’intervista al Corriere della Sera che i fondi per Venezia sono già stati stanziati, aggiungendo che arriveranno a breve altri provvedimenti per l’emergenza, e “sicuramente verranno sospesi i tributi a Venezia e nell’area circostante”.

In Veneto il tempo migliora

Una buona notizia però arriva dalla Regione che, in relazione al bollettino di criticità emesso nella giornata di ieri, ha declassato per la giornata di sabato 16 novembre, il livello di allerta per rischio idraulico. Da rosso (allarme) ad arancione (pre-allarme). Una nuova fase notevolmente perturbata però è attesa dalla sera di oggi al pomeriggio di domani, segno di una situazione in continua evoluzione.

 

 

C‘è acqua sulla cometa interstellare Borisov.  Si tratta di una scoperta molto importante che documenta la presenza di acqua nel nostro Sistema Solare proveniente dall’esterno di esso. La Cometa Borisov infatti è il secondo oggetto documentato che proviene dallo spazio esterno al nostro Sistema Solare e ora si scopre essere ricca d’acqua. A scoprirlo un gruppo di ricercatori guidato da Adam McKay, un astronomo del Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland, che ha riportato la scoperta il 28 ottobre sul server di prestampa arXiv. 

“C’è acqua, è bello, è fantastico”, afferma Olivier Hainaut, astronomo all’Osservatorio europeo meridionale di Garching, in Germania. La scoperta non è sorprendente, dice, perché la maggior parte delle comete contiene molta acqua. Ma confermare la sua presenza in una cometa interstellare è un passo importante verso la comprensione di come l’acqua potrebbe viaggiare tra le stelle.

Gli astronomi seguono avidamente  la Cometa Borisov sin dalla sua scoperta il 30 agosto perché la sua traiettoria mostra che proviene dallo spazio profondo, non dal sistema solare esterno, come fanno la maggior parte delle comete. Borisov si sarebbe formata attorno a una stella distante e sconosciuta. Miliardi di anni fa qualcosa doveva averla espulso dall’orbita e averla mandato qui. È il secondo oggetto interstellare mai scoperto, dopo Oumuamua del 2017.

La Cometa Borisov sorvolerà il Sole all’inizio di dicembre. Mentre si avvicina, il calore del Sole riscalda la cometa e fa schizzare il suo nucleo ghiacciato di gas e polvere. Gli astronomi si aspettano di vedere più segni di acqua e altre molecole che ne escono nelle prossime settimane.

Una fusione tra Fca e Psa (il proprietario dei marchi Peugeot e Citroen) creerebbe un ‘gigante’ da 50 miliardi di dollari (45 miliardi di euro). Il gruppo Fiat-Chrysler aveva avuto colloqui con la Renault in primavera, ma le trattative si interruppero bruscamente all’inizio di giugno. L’amministratore delegato di Peugeot, Carlos Tavares, aveva affermato qualche settimana prima di prima di essere “aperto a qualsiasi opportunità che potesse presentarsi”, anche se allora non erano in corso discussioni. “Tutto è aperto, si può sognare di tutto”, aveva detto a marzo al Motor Show di Ginevra.

Lo scorso anno, Psa ha realizzato un fatturato di 74 miliardi di euro e Fca 110 miliardi. Sul mercato azionario, il gruppo francese capitalizza 22 miliardi di euro rispetto ai 18 miliardi dell’italo-americano. Insieme le due case vendono nel mondo 8,7 milioni di auto. Un numero che collocherebbe il nuovo gruppo al quarto posto dopo Volkswagen, che vende 10,8 milioni di auto, così come Nissan-Mitsubishi, Toyota, 10,6 milioni. Superando invece General Motors che immatricola 8,4 milioni di veicoli.

Non solo, Fca aumenterebbe il suo business europeo grazie ai 2,5 milioni di veicoli venditi da Peugeot che si sommerebbero al milione di Fiat Chrysler. Nel Vecchio Continente il neo gruppo se la batterebbe con Volkswagen che ha una share di mercato del 24%.La fusione dei due gruppi riunirebbe i marchi Alfa Romeo, Chrysler, Citroen, Dodge, DS, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot e Vauxhall.

Il dialogo e il “no comment” tra i due colossi

La notizia dei colloqui in corso è stata riferita dal Wall Street Journal. Secondo una fonte vicina al dossier, citata dal giornale americano, una possibilità che le due parti stanno discutendo è una fusione a parti uguali. Nel nuovo colosso automobilistico, l’amministratore delegato di Peugeot, Carlos Tavares, diventerebbe il ceo mentre John Elkann, presidente della Fca, assumerebbe lo stesso ruolo nella nuova società.

Sempre secondo la fonte, i colloqui sono allo stato ancora ‘fluidi’ e potrebbero essere prese in considerazione altre opzioni. In questa fase non vi sarebbe alcuna garanzia che un accordo finale sia raggiunto. “Non commentiamo le voci di mercato”. Così all’Afp un portavoce della casa automobilistica francese ha risposto alle prime voci sul dialogo tra Fca e Psa Group, il proprietario dei marchi Peugeot e Citroen. Un “No comment” arrivato anche da parte di Fca.

Il corteggiamento a Ginevra

L’idea di una fusione tra Psa e Fca non è nuova. Al salone dell’auto di Ginevra, dello scorso marzo, i due leader dei gruppi automobilistici si erano si erano incontrati e, nonostante stesse prendendo forma un progetto di fusione con Renault, i rapporti erano rimasti cordiali. Secondo il quotidiano economico francese Les Echos, all’epoca una “fonte francese” aveva rilasciato al giornale un messaggio premonitore. “Se si facesse qualcosa (tra Psa e Fiat, ndr) ciò avverrebbe in uno spirito amichevole e in una logica win-win”.

A Ginevra però i due gruppi avevano mantenuto molta discrezione. Carlos Tavares aveva, ad esempio risposto alla stampa che gli chiedeva di un possibile avvicinamento a Fiat: “Si puo’ sognare di tutto” Il “corteggiamento” tra il gruppo del leone e Fca è ripreso quest’estate come sostiene Le Figaro che, sul proprio sito, scrive che “nella seconda meta’ di agosto” ci sarebbero state delle “discussioni” tra John Elkann, consigliato da Alain Minc, Louis Gallois e Carlos Tavares, che però sono finite con un nulla di fatto perché il gruppo italo-americano “considerava troppo alto il prezzo dell’operazione”.

L’11 settembre scorso, Robert Peugeot – l’ad della holding della famiglia Peugeot, che controlla Psa – ha dichiarato sul canale Bfm Business che “non ci sono attualmente discussioni di fusione-acquisizione” con Fca. Il discorso sembrava essere chiuso. Invece – ricorda Le Figaro – “John Elkann è tornato al tavolo del negoziato qualche giorno fa” con l’idea che un’alleanza Fca-Renault creerebbe più valore ma che una fusione con Psa sarebbe più facilmente realizzabile. 

La reazione dei sindacati

“Non sono a conoscenza di questi contatti: una cosa è certa, il fatto che Fca cerchi partner internazionali per realizzare joint venture è positivo. L’importante è che Fca continui a valorizzare gli stabilimenti e le produzioni italiane”. Così il leader della Uilm, Rocco Palombella, commenta le indiscrezioni sulla fusione. “Soprattutto – aggiunge – i partner a cui si rivolge debbono aver un vantaggio dal punto di vista dell’elettrico che è il valore aggiunto di cui Fca ha bisogno”.

“Qualsiasi alleanza deve essere utile a crescere nei mercati asiatici, ad avere tecnologie e risorse per la transizione all’elettrico”. Lo afferma all’Agi il segretario generale della Fim Cisl, Marco Bentivogli. “Difficile commentare delle indiscrezioni ma pare ci sia qualcosa di più, non è la prima volta che Elkann e Tavares si parlano. A Wall Street, Fca sale subito con +8%. Sia il gruppo Fca che Psa hanno bisogno di alleanze. Sarebbe un clamoroso smacco per il governo francese che ha perso l’occasione di creare un campione europeo dell auto con Fca e Renault”.

“L’importante è tutelare l’occupazione in Italia”. Questo è invece il commento di Michele De Palma, membro della segreteria nazionale Fiom per l’auto. “Visto che stiamo parlando di una questione che riguarda due multinazionali e anche due Paesi è indispensabile che non rivediamo quello che è successo con la vicenda Renault, ma che il governo e la presidenza del Consiglio tutelino la capacità di ricerca e sviluppo che abbiamo nel nostro Paese perché da questo dipende tutto il mondo della componentistica dell’Italia, in un momento di grande trasformazione del settore dell’automotive. Abbiamo un interesse comune nel nostro Paese ed è legata al fatto che c’e’ una capacita installata di produrre 1,5 milioni di veicoli in Italia: qualsiasi ipotesi di accordo o fusione o joint venture deve partire dalla piena occupazione e produzione degli stabilimenti italiani”.

Il precedente tentativo con Renault

Prima di arrivare alla proposta di fusione con PSA, a inizio giugno, Fiat-Chrysler aveva ritirato la propria offerta di fusione con il gruppo Renault, presentata il 26 maggio scorso. In questo modo, il gruppo Italo-americano aveva rifiutato l’invito dello Stato francese (che detiene il 15,1% di Renault) di attendere ulteriormente prima che il governo prendesse una decisione sulla fusione.

A sei mesi di distanza dal fallimento del matrimonio con Renault, appare ora come premonitore un titolo dell’edizione francese di Forbes che, il 30 maggio scorso, si chiedeva se Psa fosse davvero esclusa dalla partita delle fusioni. 

Bruno Le Maire, il ministro delle finanze d’oltralpe aveva detto, a fine maggio, che la fusione rappresentava una “reale opportunita’”. Ma il rifiuto di Fiat rispediva al mittente anche quattro pesanti condizioni, poste dall’esecutivo di Parigi. Tra queste figurava il mantenimento di posti di lavoro e siti produttivi in Francia, ma anche la partecipazione del soggetto nato dalla eventuale fusione, al consorzio franco-tedesco dei costruttori di batterie elettriche, presentato poche settimane prima.

Per il perfezionamento della fusione serviva anche l’accordo esplicito di Nissan, l’alleato di Renault. Il costruttore giapponese non aveva mostrato ostilità verso l’ipotesi di fusione ma non aveva mancato di sottolineare che questa avrebbe modificato “in maniera significativa la struttura”.

Anche per questo, il governo francese si era impegnato a chiedere che la fusione avvenisse all’interno del “quadro dell’alleanza tra Renault e Nissan”, oltre ad una governance equilibrata tra Fiat-Chrysler e il resto del gruppo.

Se fosse andata in porto, la fusione tra Renault et Fiat avrebbe dato origine un gruppo del valore borsistico di oltre 30 miliardi di euro e una capacita’ produttiva annua di più di 8,7 milioni di veicoli. Sommando ad essi, quelli prodotti dall’alleato giapponese di Renault, si sarebbe arrivati alla soglia di 16 milioni di veicoli all’anno.

Ben oltre i 10,6 milioni prodotti ogni anno rispettivamente dai concorrenti Volkswagen e Toyota. Il progetto di fusione con il costruttore franco-giapponese era in linea con le dichiarazioni fatte, a inizio 2019, dal Ceo di Fca, Mike Manley che aveva detto che la soci sarebbe stata favorevole a diversi accordi. 

Le abitudini degli italiani per quanto riguarda matrimoni e divorzi sono spesso oggetto di attenzione, tanto da parte del mondo della politica quanto di quello della cultura, con film, libri e saggi dedicati all’argomento. Il rapporto annuale Istat 2019, da ultimo, fornisce alcuni dati interessanti in proposito. Andiamo a vedere i dettagli.

Matrimoni

Nel 2018 risultano sposati 14,19 milioni di uomini e 14,36 milioni di donne, rispettivamente il 48,3 e il 46,3 per cento della popolazione. Rispetto al 2011 c’è stato un significativo calo: otto anni fa gli sposati erano 14,47 milioni (il 49,4 per cento del totale) e le sposate 14,48 milioni (il 47,2 per cento del totale).

La diminuzione si fa ancora più marcata se prendiamo come anno di confronto il 1991. Gli uomini sposati erano infatti 14,2 milioni, meno che nel 2011, ma in rapporto alla popolazione maschile rappresentavano il 51,5 per cento (allora la popolazione residente in Italia era di 56,8 milioni di persone, nel 2019 di 60,4 milioni: 3 milioni e mezzo abbondanti in più). Le donne sposate erano poi 14,46 milioni, di nuovo meno che nel 2011 in numero assoluto, ma in percentuale di più: il 49,5 per cento.

Nell’arco di ventisette anni i coniugati sono insomma calati di alcuni punti percentuali, da poco più della metà della popolazione a rappresentarne circa il 47 per cento.

Anche il rapporto tra sposati e non sposati sta cambiando. Nel 1991 i coniugati – uomini e donne – erano 28,66 milioni circa e i celibi/nubili erano circa 23,52 milioni: cinque milioni abbondanti di differenza a vantaggio degli sposati. Nel 2011 questa differenza si era ridotta a quattro milioni e mezzo scarsi e nel 2018 si arriva a meno di tre milioni di sposati in più rispetto ai celibi/nubili.

Divorzi

Guardiamo ora ai dati sui divorzi, possibili in Italia solo dal 1970, in base alla legge 898/1970, poi sopravvissuta al referendum abrogativo del 1974 grazie alla vittoria dei “No”. Nel 2018 gli uomini divorziati erano poco più di 681 mila e le donne  poco più di 990 mila. Rispetto al 2011 sono aumentati (erano circa 524 mila gli uomini e 839 mila le donne) e ancora più netto è l’aumento se guardiamo ai dati del 1991.

Allora i divorziati erano poco più di 150 mila e le divorziate circa 225 mila: nel giro di 27 anni il loro numero è insomma più che quadruplicato.

L’impatto del “divorzio breve”?

Il “divorzio breve” è stato introdotto in Italia con la legge 55/2015, a partire dal 26 maggio di quell’anno. La legge, in sintesi, permette di divorziare dopo sei mesi di separazione (che deve essere pronunciata dal giudice) se questa è consensuale, e dopo un anno se non è consensuale. In precedenza invece erano necessari tre anni di separazione.

Nel 2015, scrive l’Istat nel suo report su “Matrimoni, separazioni e divorzi”, «l’introduzione del “divorzio breve” fa registrare un consistente aumento del numero di divorzi, che ammontano a 82.469 (+57% sul 2014). Più contenuto è l’aumento delle separazioni, pari a 91.706 (+2,7% rispetto al 2014)».

Non sono stati pubblicati report successivi sull’argomento e non siamo quindi in grado di valutare se il consistente aumento del 2015 dipenda dall’improvvisa riduzione dei tempi – i giudici hanno potuto immediatamente pronunciare sentenza di divorzio per casi che normalmente avrebbero dovuto proseguire per altri anni – e sia dunque eccezionale, o se invece prefiguri un cambio strutturale della situazione.

Tra il 2008 e il 2014, comunque, il numero di divorzi all’anno è rimasto sostanzialmente stabile: 54.351 nel 2008, 54.160 nel 2010, 51.319 nel 2012 e 52.355 nel 2014.

Conclusione

Il numero dei coniugati è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi trent’anni, poco superiore ai 14 milioni. Ma complice l’aumento della popolazione la loro incidenza statistica è andata calando da poco più del 50 per cento a circa il 47 per cento della popolazione.

Si è inoltre sempre più ridotta la distanza tra il numero di coniugati e quello dei celibi/nubili: se nel 1991 era superiore ai 5 milioni, nel 2018 è inferiore ai 3 milioni. Il numero dei divorziati è significativamente cresciuto nello stesso periodo, quadruplicando tra il 1991 e il 2018.

Negli ultimi anni per cui ci sono dai consultabili – in particolare tra 2008 e 2014 – il numero dei divorzi è rimasto sostanzialmente stabile. Il picco del 2015 potrebbe essere dovuto a un effetto una tantum dell’introduzione del divorzio breve (ma dovremo attendere altri dati sugli anni successivi per poterlo affermare con certezza).

Se così fosse, l’aumento significativo del numero dei divorziati dipenderebbe più da un effetto “accumulo” – semplificando: ogni anno circa 50 mila nuovi divorziati si sommano a quelli già esistenti, dunque se nell’anno di partenza sono 100 mila già due anni dopo sono duplicati – che non da un aumento dei divorzi ogni anno.

 

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In Europa soffia un’aria più pulita rispetto al passato. Tuttavia, l’inquinamento atmosferico persiste, soprattutto nelle città, danneggiando salute ed economia. In Italia, anche se in miglioramento, il problema è più grave rispetto al resto del continente. A sostenerlo è l’ultima analisi dell’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) sulla qualità dell’aria, basata su dati registrati nel 2017 da più di 4000 stazioni di monitoraggio.

Ridurre l’inquinamento atmosferico significa evitare morti premature ma anche migliorare la produttività economica e arginare gli effetti dei cambiamenti climatici. L’ultimo rapporto dell’AEA rivela un’Europa meno interessata dallo smog. Descrive un continente dove diminuiscono i decessi indotti dai gas inquinanti. L’Italia, nonostante sia in linea con questi miglioramenti, mantiene però i suoi tristi primati.

Complessivamente, nel Vecchio Continente lo smog è responsabile di 372 mila decessi all’anno, in calo rispetto ai 391 mila del 2015. Il particolato fine ha causato circa 17.000 decessi prematuri in meno nel 2016 rispetto al 2015. Eppure, la cattiva qualità dell’aria continua a danneggiare la salute degli europei, soprattutto nelle aree urbane, attraverso particolato (PM), biossido di azoto (NO2) e ozono (O3). La gravità dell’impatto delle esposizioni prolungate a questi inquinanti varia dall’indebolimento del sistema respiratorio fino alla morte prematura.

Le ultime rilevazioni vedono le concentrazioni di polveri sottili (PM2,5) più elevate in Italia e in sei paesi dell’est (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Slovacchia). Tra le città del continente, Torino contende a Parigi e Londra il primato per inquinamento da NO2 e Padova è prima per concentrazione media di PM2,5 e PM10.

La situazione non migliora nelle aree rurali nazionali, con superamenti dei limiti giornalieri di particolato registrati in sedici delle 27 centraline che hanno rilevato valori oltre i limiti europei. Due milioni di italiani vivono in aree, soprattutto la Pianura Padana, dove le concentrazioni per i tre inquinanti principali sono ancora troppo elevate. 

Quali sono le fonti principali degli inquinanti? Principalmente i trasporti stradali, le centrali elettriche, l’industria, l’agricoltura e le scorrette abitudini domestiche. Si tratta di fonti che rivestono un ruolo chiave anche nelle emissioni di gas a effetto serra e nella perdita della biodiversità.

La situazione dell’Italia

Quale è l’istantanea che le centraline antismog hanno scattato in Italia? Come nel quadro generale europeo, i dati indicano un miglioramento anche per l’Italia rispetto al 2015, quando l’AEA stimava i decessi prematuri per biossido di azoto (NO2) a 20mila unità contro le 14.600 del 2016. Nonostante questo, la Penisola mantiene i suoi (preoccupanti) record.

È il primo paese del continente per morti premature da biossido di azoto (NO2) e ozono (O3): rispettivamente 14.600 e 3.000 all’anno. Ma anche al secondo posto – dopo la Germania – per numero di decessi “prematuri” causati dal particolato fine (PM 2,5): 58.600 i morti nel 2016. Inoltre, lo Stivale, per quanto riguarda gli altri gas tossici, rientra nel gruppo di stati che sfiorano sistematicamente i limiti di legge consentiti.

Il forum Ue sull’aria pulita

La Commissione europea sta organizzando il secondo forum dell’UE sull’aria pulita, che si terrà a Bratislava il 28 novembre. Sul tavolo verranno discusse strategie per definire sviluppo e attuazione di politiche europee, nazionali e locali per arginare il problema dell’inquinamento atmosferico.

Il Forum si concentrerà sui meccanismi di finanziamento per l’energia, l’agricoltura e l’aria pulita.
Oltre a danneggiare la salute e a ridurre l’aspettativa di vita, la cattiva qualità dell’aria provoca infatti anche perdite economiche, ad esempio inducendo un aumento nell’assistenza sanitaria, riducendo i rendimenti dell’agricoltura e della silvicoltura ma impattando negativamente sulla produttività della manodopera.

Inoltre, l’inquinamento atmosferico influenza l’ecosistema, inducendo acidificazione, eutrofizzazione e aumento delle concentrazioni di ozono nel terreno. Un problema, questo, che riguarda una quota significativa delle aree agricole in particolare dell’Europa meridionale, centrale e orientale.

Il ruolo di normative e misure locali

“L’Europa ha ora un’opportunità unica: fissare un’agenda ambiziosa che affronti le cause sistemiche delle pressioni ambientali e dell’inquinamento atmosferico. Stiamo facendo progressi, ma è tempo di accelerare i cambiamenti nei nostri sistemi di energia, cibo e mobilità per metterci su una traiettoria di sostenibilità e di un ambiente sano”, ha ricordato Direttore Esecutivo dell’EAE Hans Bruyninckx.

Nonostante il persistere dell’inquinamento, i nuovi dati dell’AEA confermano che normative vincolanti e misure locali migliorano la qualità dell’aria con effetti positivi sulla salute. Se è vero che le differenze meteorologiche tra gli anni possono influenzare i livelli di inquinamento e il loro impatto, la riduzione attuale è coerente con la precedente stima dell’AEA secondo cui il numero di decessi prematuri causati annualmente dal PM2,5 in Europa si è ridotto di circa mezzo milione dal 1990.  

“La relazione dell’Agenzia europea dell’ambiente sulla qualità dell’aria in Europa è un importante e tempestivo promemoria del fatto che l’inquinamento atmosferico continua ad avere un impatto sulla maggior parte delle regioni del l’Unione europea e colpisce la vita della maggior parte dei cittadini. È semplicemente inaccettabile che qualcuno di noi debba preoccuparsi se il semplice atto di respirare sia sicuro o meno. Dobbiamo quindi impegnarci ancora di più per garantire che gli standard di qualità dell’aria dell’UE siano rispettati ovunque”, ha dichiarato Karmenu Vella, commissario europeo per l’Ambiente, gli affari marittimi e la pesca.

Un nuovo protagonista si affaccia sul mercato europeo degli smartphone. Viene (ma che sorpresa!) dalla Cina e punta (ma che sorpresa!) alla fetta più appetibile: quella dei giovani e dei giovanissimi.

Si chiama Realme ed è uno spin-off di un altro produttore piuttosto recente sulla scena italiana ed europea: Oppo. Lo sbarco di Realme in Europa è stato  il 15 ottobre con il lancio a Madrid del suo modello di punta: l’X2 Pro, che ambisce a mettersi in competizione con gli smartphone di fascia medio-alta di marchi come Huawei e Samsung, che nell’ecosistema Android hanno posizioni molto forti e consolidate, ma anche con gli OnePlus serie 7t appena presentati.

Nonostante il rallentamento delle vendite e le cassandre che annunciano la saturazione del mercato, fino al secondo trimestre del 2019, il mercato degli smartphone ha mostrato di essere ancora vivo. Huawei e Samsung hanno rilevato una crescita su base annua rispettivamente del 7,1 e del 4,6%. L’azienda sud coreana resta in prima posizione in termini di quote di mercato (21,3%), seguita da Huawei (15,8%) e nell’ultimo rapporto Counterpoint si comincia a parlare di  Realme che ha spedito 4,7 milioni di dispositivi contro gli 0,5 milioni dello stesso trimestre del 2018, con un incremento di 848 punti percentuale, entrando per la prima volta nella top 10.

Il mercato europeo, uno dei più complessi, ha una distribuzione per grandi volumi, con il 35% della quota saldamente in mano a Samsung; il 19% a Huawei; il 15% ad Apple, il 7% a Xiaomi e il 2% a OnePlus. In Italia, semplificando (e molto) si può dire che in Italia il 30% del mercato degli smartphone appartiene a Samsung, un altro 30% a Huawei e il 20% ad Apple. Il restante 10% è in mano a protagonisti con quote marginali comeOnePlus, Oppo, la franco-cinese Wiko e Xiaomi.

Marginali, certo, ma pronte a esplodere. E per questo aziende come OnePlus preparano da anni il terreno mettendo a punto prodotti top di gamma quali il 7T (nelle sue tre versioni) in grado di muovere guerra al P30 Pro di Huawei e all’S10 di Samsung. O il Reno 2 di Oppo, che potrebbe affiancare modelli di fascia medio-alta come le varie varianti Lite della serie P e Mate di Huawei.

Come si colloca Realme in questo scenario? Per comprendere la strategia dell’azienda, forse si dovrebbe pensare a Honor, una costola di Huawei, nata come spin-off e diventata brand indipendente e di un certo peso in Italia. In sostanza il duo Oppo-Realme replicherà la combinata Huawei-Honor che ha funzionato alla grande fino al giorno in cui Trump ha twittato la sua dichiarazione di guerra. “Realme è nata con l’obiettivo di soddisfare le esigenze dei giovani consumatori” dice ad Agi Levi Lee, il direttore per Europa di Realme, “In realtà non vogliamo che i giovani utenti sacrifichino la loro ricerca estetica e prestazioni eccellenti per il prezzo, quindi ‘Osiamo saltare’ come afferma il nostro slogan, in modo da poter raggiungere il nostro obiettivo principale: offrire loro un prodotto di fascia alta con tecnologia e grande design”.

Nata appena un anno fa, nel 2018, Realme ha iniziato il suo percorso in India, uno dei mercati con la crescita più rapida e imponente, dove ha raggiunto il traguardo delle vendite di 1 milione di telefoni cellulari in 3 giorni, passando dall’1,2 di quota mercato del secondo trimestre del 2018 al 7,7 dello stesso periodo del 2019. “Sappiamo di essere molto felici di operare in 20 paesi e di sbarcare in Europa” aggiunge Lee, che dice di aver scelto la Spagna come porto di approdo “perché è un mercato molto aperto all’innovazione e una cultura molto accogliente che si allinea molto bene con il nostro motto”. “Inoltre” aggiunge, “il mercato spagnolo è cresciuto e ha raggiunto un punto in cui pensiamo che i nostri prodotti saranno accolti molto bene tra i consumatori”.

“L’Europa è un mercato così importante per noi” dice ancora Lee, che “il lancio di Realme X2 Pro avverrà simultaneamente in Europa e in Asia per la prima volta, diventando una pietra miliare per l’azienda e rafforzando l’importanza del mercato europeo per il marchio”. Stessa premessa vale per l’Italia:

“È uno dei più grandi mercati in Europa e anche uno dei mercati chiave per l’Europa. Realme fornirà i migliori prodotti a un prezzo accessibile per i consumatori italiani e siamo certi che i nostri prodotti diventeranno popolari tra i giovani in Italia”.

Ma che telefoni ha presentato a Madrid?

L’X2 Pro, innanzitutto, il top di gamma che monta un processore Sanpdragon 855+ e una batteria da 4.000 mAh che grazie alla tecnologia da 50 W sarà possibile ricaricare in 35 minuti e un display con refresh a 90HZ. Il comparto fotografico è dotato di una quad camera da 64MP con zoom ibrido da 20X, grandangolo di 115 gradi,  teleobiettivo e obiettivo per ritratti. Sarà in vendita solo online a 399, 449 e 499 euro a seconda della versione (6 GB ram e 64 GB di memoria; 8GB e 128 GB e 12 GB e 256 GB).

L’X2 è pensato per gli amanti dei selfie grazie all’obiettivo da 32 MP con nightscape per gli scatti in notturna. Monta un processore Snapdragon 730G e una batteria da 4.000 con tecnología da 30W. La fotocamera principale ha un obiettivo 64MP in combinazione con un obiettivo ultra grandangolare, un micro obiettivo da 4 cm e un obiettivo vertical. realme X2 è il punto di partenza di una nuova era della Quad Camera. Sarà in vendita solo online a 299 euro nelle versione con 8 GB di ram e 128 GB di memoria.

5 Pro è invece pensato per i giovanissimi: una fotocamera da 48MP, una piattaforma mobile Snapdragon 712 AIE che dà il meglio di sé nei giochi e nell’intrattenimento. Include anche un nuovo gel che consente una migliore dispersione di calore quando si svolgono operazioni pesanti, ad esempio giochi di grande portata. La ricarica da 30W riduce il riscaldamento sia del caricatore, sia del dispositivo. Sarà in vendita solo online a 199 euro nella versione con 4 GB di ram e 128 GB di memoria e a 249 euro in quella con 8 GB di ram e 128 GB di memoria. 

“Kaczynski ha vinto perché ha permesso alla Polonia di non sentirsi il vicino povero dell’Europa, ma di essere un Paese che conta”. In un’intervista a Il Messaggero, Anna Maria Anders la nuova ambasciatrice della Polonia, a Roma da appena quattro settimane, dice che dopo la conquista del 44% dei suffragi della maggioranza assoluta Jaroslaw Kaczynski “è il politico migliore in Polonia ed è una persona rispettata da tutti ed è l’unico in grado di dirigere il Paese”. “È come Trump: o lo ami o lo odi”.

Anders, tuttavia, non si nasconde che “le riforme promesse sono difficili da realizzare” ma il premier ha “già dimostrato che ciò che gli altri credevano impossibile in realtà non lo era”. Kacyinski ha di fatto conquistato gli elettori attraverso un modello di welfare centrato sul beneficio diretto dei cittadini (si chiama 500+, una specie di bonus bebé per ogni figlio nato dopo il primo) e questo fa dire all’ambasciatrice che “c’è gente con 4 bambini che riceve 2.000 zloty al mese e poi li fa rientrare nell’economia del Paese. La maggioranza ora dice che sta meglio di 4 anni fa”.

Sui rapporti con l’Europa, Andres dice che ora “non vogliamo scontri” e che il rapporto “non cambierà molto” perché al tempo stesso “è importante la nostra sovranità ma anche lavorare con l’Europa” spezzando una lancia in favore di Ursula Von Der Leyen, la nuova commissaria eurpoea, “persona preparata e seria che ci ascolterà, senza criticarci prima” come ha fatto Juncker ma “soprattutto Timmermans, che è venuto da noi prima delle europee a fare campagna elettorale per l’opposizione”. E Anders sottolinea: “le nostre idee diventano popolari”.

Konstanty Gebert, scrittore ed editorialista di Gazeta Wyborcza, il primo giornale polacco, dice invece in un colloquio con il Corriere delle Sera che il Pis di Kacyinski “è un partito paragonabile a Forza Italia sotto Berlusconi. Non è protofascista, ma rappresenta il potere, un po’ come la Democrazia Cristiana degli anni ’60 e ’70 in Italia. Le lotte intestine sono simili. Solo che qui non si parla di correnti, ma di baronie”.

“Il colpo di genio comunque è stato il programma 500+”, secondo lo scrittore, per il quale il 500+ “non è un programma di assistenza sociale, e qui sta la genialità” perché “ll contributo non tiene conto del reddito. È dovuto a chiunque, quindi riceverlo non è umiliante”. Dunque, “per la prima volta decine di migliaia di famiglie hanno potuto disporre di un introito extra con cui decidere se comprare un frigorifero o concedersi una vacanza al mare. Accusando la gente di essersi svenduta per 500 zloty, l’opposizione liberale ha sbagliato o non ha capito quel che è successo”.

Quanto agli scandali “l’opinione pubblica si è assuefatta. Ce n’è uno al giorno”. Il problema semmai riguarda la magistratura: “Diciamo che il governo non controlla ancora tutti gli organi giudiziari”, spiega lo scrittore ed editorialista, “ma il partito di Jaroslaw Kaczynski procede in quella direzione”. “Per esempio – prosegue – il testo per la riforma della Corte costituzionale è stato cambiato sette volte in 4 anni: la Cassazione può annullare le sentenze emesse negli ultimi 20 anni anche se passate in giudicato”. 

L’editing genetico può rappresentare una soluzione sicura per impedire che alle mucche da latte nascano le corna. Queste, in estrema sintesi, le conclusioni di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università della California di Davis, pubblicato sulla rivista Nature Biotechnology. Negli ultimi due anni i ricercatori hanno studiato sei vitelli nati da una mucca geneticamente modificata per impedire la crescita delle corna. Questo metodo viene oggi proposto come alternativa alla “decornizzazione”, una pratica comune negli allevamenti che ha lo scopo di proteggere il bestiame e gli allevatori dalle corna delle mucche.

Tuttavia si tratta di una procedura considerata dolorosa per gli animali. Da qui il bisogno di cercare alternative. I risultati del nuovo studio mostrano che, come previsto, nessuna progenie della mucca geneticamente modificata ha sviluppato le corna e dagli esami è emerso che tutti gli animali erano sani.

I ricercatori hanno anche sequenziato il genoma dei sei vitelli e dei loro genitori alla ricerca di eventuali modifiche inaspettate. I dati sono stati condivisi con la Food and drug administration degli Stati Uniti che ha poi scoperto una piccola “conseguenza” dell’editing genetico, poi condivisa con i ricercatori dell’Università della California.

“Il nostro studio ha scoperto che due vitelli hanno ereditato l’allele naturale senza corna e che quattro vitelli hanno inoltre ereditato un frammento di DNA batterico, noto come plasmide”, riferisce Alison Van Eenennaam, tra gli autori dello studio. L’integrazione dei plasmidi può essere affrontata mediante screening e selezione degli animali. In questo caso, selezionando i due vitelli che hanno ereditato solo l’allele naturale.

Si tratta di una procedura utilizzata anche nelle piante quando viene utilizzato l’editing genetico. I ricercatori hanno però precisato che il plasmide non danneggia gli animali. Solo che questa integrazione ha reso tecnicamente i vitelli geneticamente modificati, quindi Ogm, perché contenevano Dna estraneo di un’altra specie, in questo caso un plasmide batterico.

“Abbiamo dimostrato che è possibile produrre vitelli sani senza corna con la sola modifica prevista”, sottolinea Van Eenennaam. “I nostri dati indicano la necessità di controllare l’integrazione dei plasmidi quando vengono utilizzati nel processo di modifica”, conclude. Gli scienziati non hanno osservato altre alterazioni genomiche indesiderate e tutti gli animali sono rimasti sani durante il periodo di studio. Né la mucca gm e né i vitelli, sono entrati nella catena alimentare secondo quanto previsto dall’Fda.

Spesso si sente dire: “La politica si decide a tavola”. O anche: più facile trovare accordi a pancia piena. Per stare agli anni nostri, dal Patto della crostata del ‘97 sulla Bicamerale, al quello dell’arancino 20 anni dopo, per arrIvare ai gastro-post di Matteo Salvini, gran parte della storia della Seconda Repubblica è scandita, diciamo così, da accordi a sfondo alimentare. La cronaca recente, sui social, trova spesso nel gergo culinario gli hashtag di maggiore successo.

Se in ballo c’è però il dialogo interreligioso e le feste patronali, il discorso di complica un po’. Sì perché a Bologna, in vista della festa di San Petronio, la Curia con il Vescovo, monsignor Zuppi, ha annunciato in settimana la preparazione di pochi chilogrammi di tortellini senza maiale, per chi non può mangiarne per diversi motivi. È stato uno dei tormentoni di questa settimana, analizzati da KPI6 per Agi*.

 

Sui social è stata una lunga giornata, quella del primo ottobre. Sebbene nel 32% dei contenuti dell’audience su Twitter il focus ha riguardato gli aspetti culinari, con molta ironia, pochi riferimenti all’accoglienza, all’inclusione sociale e a quella religiosa. Solamente nel 12% dei tweet si è parlato di Chiesa e appena nel 9% di religioni. In compenso, sono stati tantissimi i meme e i contenuti che nulla hanno avuto a che fare con politiche sull’immigrazione e la religione.

Anche il ‘sentiment’ – relatIvamente contenuto quello negativo (49%) – conferma quanto la discussione sui tortellini sia stata interpretata in chiave ironica e scherzosa, nonostante alcuni politici non l’abbiano pensata così: Salvini e la Lega, ad esempio, hanno parlato di attacco alla tradizione.

 

La ricetta della discordia regala l’83% dei retweet a Salvini

Tra le Tweet dei politici durante la settimana in questione*, Matteo Salvini ha scritto il 53% dei commenti, ottenendo l’83% dei retweet su questo argomento, ai quali va sommato un altro il 20% proveniente dall’account della Lega: tortellini, nonni, nonne, e padretèrno, in sintesi. Potere al Popolo si è contrapposto al leader leghista elogiando un’iniziativa utile “per dare risposte concrete ai bisogni delle persone”.

Ben più tranchant Guido Crosetto: “La Chiesa ci è maestra nel cercare di non dividere. Tanto più su sciocchezze”. 

 

Calenda ammette: “Sul neoliberismo ho sbagliato”

Schietto, diretto e mai banale Carlo Calenda. La settimana di monitoring si chiude con l’autocritica dell’ex ministro dello Sviluppo economico e gli effetti su Twitter:

“Una delle più grandi cazzate che abbiamo raccontato è che non si salvano i posti di lavoro, ma si salva il lavoro. Poi quando ho avuto davanti l’operaio dell’Embraco ho capito che era una gran cacchiata”.

Carlo Calenda su Twitter

 

Tasse e manovra: il centrodestra spopola

Le principali forze di opposizioni (Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia) hanno scritto quasi il triplo dei contenuti su Twitter con oggetto la manovra, il Def, l’Iva e le tasse. Ai temi economici Forza Italia ha sempre dedicato molta attenzione, e in questa occasione si è rivelato persino il partito con il maggior numero di contenuti (45%), distribuiti omogeneamente durante la settimana, posizionandosi sopra tutte le altre forze politiche. A seguire la Lega (20%).

 

 

Renato Brunetta è il top user per quantità di tweet pubblicati (31%), “picconatore” della manovra in totale disaccordo con l’impostazione di finanza pubblica del Governo.

Ancora una volta su Twitter Matteo Renzi ha performato molto bene: è stato suo il contenuto con più condivisioni, assieme a quello di Matteo Borghi (Lega). Sulle tasse si è concentrata la gran parte delle conversazioni e Silvio Berlusconi ne ha approfittato per rilanciare l’alleanza, ottenendo il miglior tasso di engagement (27%): “Con gli altri partiti di centro-destra faremo opposizione comune”.

 

Curioso notare come solo Matteo Orfini del Partito democratico sia riuscito a contendere l’attenzione degli utenti con argomenti che non hanno riguardato l’economia, ma in questo caso lo #IusCulturae (la proposta di legge Polverini che prevede la cittadinanza italiana per i minori stranieri nati in Italia che vi abbiano risieduto legalmente senza interruzioni fino al compimento del corso della scuola primaria) e la contrapposizione con il Movimento 5 Stelle sul taglio dei parlamentari: Ancora una volta sono Salvini e Renzi i politici più menzionati dall’audience: gli utenti vogliono stabilire conversazioni, porre domande o critiche rivolgendosi direttamente agli account dei due leader.

I politici più spesso in causa questa settimana, hanno in comune una ‘sentiment analysis’ negatIva, in particolare Giorgia Meloni.

Approfondendo l’analisi si nota che molti utenti condividono le posizioni di Meloni, rispondono con emoji e commenti ostili nei confronti della manovra. Perciò nel suo caso, si rileva un sentiment negativo che partendo dai tweet della leader di Fratelli d’Italia, ha l’obiettivo la contestazione dell’esecutivo e della manovra.

 

Tra i più menzionati troviamo Luigi Marattin, ex Pd ora a Italia VIva, molto presente sia nei talk show televisivi, che sui social. Questa settimana alcune sue dichiarazioni hanno fatto discutere; in particolare “serve più Deficit”, che era anche una delle posizione espresse da Lega e M5s nel precedente Governo.

*L’analisi ha preso in esame le discussioni su Twitter nella settimana 27 settembre – 3 ottobre.