Ultime News
Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterEmail this to someone

Ennesimo orrore nell'Iraq insanguinato dalla furia omicida di Isis. Un stazione tv locale, al-Mawsleya, ha immortalato il momento in cui a Mosul, ormai prossima a essere liberata dalla presenza di Daesh, una donna kamikaze aderente all'Isis, con in braccio un bambino di pochi anni, usato per mimetizzarsi meglio, passa tra alcuni soldati iracheni tentando di innescare l'ordigno celato sotto l'hijab.

Ma qualcosa va storto e nelle immagini prese dalla tv, scrive il britannico Daily Telegraph, quando la donna stringe con il detonatore nella mano destra, nel manico della borsa che stringe, la bomba non esplode e quindi supera indenne il punto con i soldati. Non soddisfatta, la donna, sempre con l'innocente bambino in mano, prosegue oltre il posto di blocco e continua a provare e riprovare a far deflagrare la bomba. All'ennesima tentativo riesce nel suo intento e l'ordigno esplode, uccidendo lei, il piccolo e due soldati, oltre a ferire alcuni civili.

Non è certo l'attentato più sanguinoso e l'uso di donne kamikaze da parte dell'Isis non è una novità. Se ne sono contati oltre 20 casi. Ma questa è la prima volta che la terrorista usa un bambino per passare inosservata

I medici dell'ospedale londinese Great Hormond Street non staccheranno le macchine che tengono in vita il piccolo Charlie Gand. La comunicazione ai genitori, come riferisce la Bbc, è stata fatta dallo stesso ospedale "alla luce dei nuovi elementi" emersi su un possibile nuovo trattamento sperimentale del bimbo malato sulla base delle ricerche effettuate da due ospedali internazionali. "Elementi che ci sono stati comunicati nelle ultime 24 ore e che crediamo che sia giusto studiare".

La sorte di Charlie nelle mani del giudice

Adesso sarà il giudice Nicholas Francis, responsabile della sezione minori dell'Alta Corte di Giustizia che esaminerà il caso lunedì alle 14 locali (le 15 in Italia) a decidere se approvare la decisione dell'ospedale. Lo stesso giudice che l'11 aprile scorso aveva sancito il diritto dei medici a staccare la spina. Sono stati i medici del Great Hormond Street a chiedere un nuovo parere alla Corte di Fleet Street dopo che 7 esperti della rara malattia che ha colpito sin dalla nascita Charlie hanno scritto una lettera ai colleghi londinesi ponendo alla loro attenzione i risultati di ricerche non ancora pubblicate sulle riviste scientifiche sulla malattia del piccolo di 11 mesi. 

I due metodi sperimentali

Uno dei due trattamenti è italiano e l'altro americano. Ieri l'associazione 'Mitocon' che raccoglie i familiari di bambini colpiti da malattie mitocondriali aveva raccolto l'appello della mamma di Charlie: "Connie Yates ci ha chiesto aiuto: 'Stanno per staccare le macchine a Charlie' ha detto" – si legge in un post sulla pagina Facebook dell'associazione – "vi preghiamo, fermatevi. lo statement scientifico è pronto".

E oggi un ospedale di New York si è offerto di spedire un farmaco sperimentale a Londra per aiutare il piccolo Charlie e di ospitare il bambino, nel caso si potessero superare gli ostacoli legali per il suo trasferimento. Lo riferisce il Guardian che spiega come i farmaco in questione sia ancora in attesa dell'approvazione della Food and Drug Administration (Fda).econdo l'Independent l'ospedale ha presentato una nuova istanza all'Alta Corte di Giustizia di Fleet Street, che aveva autorizzato i medici a staccare la spina, per ottenere nuove linea guida su come occuparsi del caso.

L'intervento del Papa e di Trump

E' probabile che il Great Hormond Street Hospital di Londra abbia deciso di rivalutare il caso del piccolo Charlie, dopo l'intervento di Papa Francesco e del presidente Usa, Donald Trump. I medici dopo due sentenze, una della Corte Suprema britannica e della Corte dei Diritti dell'Uomo Ue, avevano ottenuto infatti il diritto di staccare la spina al bimbo, contro la volontà dei genitori.

"Soltanto altri sedici casi al mondo"

"I dottori sostengono che Charlie non può sentire, muoversi, piangere o deglutire e che i suoi polmoni funzionano solo grazie alla macchina a cui è attaccato", si leggeva sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, "il piccolo avrebbe anche subito danni cerebrali irreversibili. A loro giudizio, il trattamento sperimentale americano cui i genitori vorrebbero sottoporlo non avrebbe migliorato le sue condizioni. Ma appena a metà giugno fa la madre aveva pubblicato su Facebook una foto di Charlie con gli occhi aperti: 'Un’immagine vale più di mille parole', aveva scritto. 

Il calvario giudiziario dei genitori era cominciato a marzo, quando la coppia si era rivolta a un tribunale per tentare di fermare la mano dei medici, i quali ritenevano di aver esaurito tutte le opzioni di trattamento disponibili".

"Il piccolo era nato apparentemente in buona salute lo scorso 4 agosto. Ma dopo otto settimane aveva cominciato a perdere forze e peso. Portato in ospedale, gli era stata diagnosticata la sindrome di deperimento mitocondriale, che provoca il progressivo indebolimento dei muscoli", continua l'articolo del 'Corriere', "ci sono soltanto sedici casi al mondo, ma purtroppo entrambi i genitori sono portatori del difetto genetico e quindi Charlie è venuto al mondo segnato dal destino. Da allora il bambino è in terapia intensiva, intubato, e secondo i medici non ha speranze di sopravvivere: per cui meglio staccare tutto per evitargli ulteriori sofferenze".

Un ospedale di New York si è offerto di spedire un farmaco sperimentale a Londra per aiutare il piccolo Charlie e di ospitare il bambino, nel caso si potessero superare gli ostacoli legali per il suo trasferimento. Lo riferisce il Guardian che spiega come i farmaco in questione sia ancora in attesa dell'approvazione della Food and Drug Administration (Fda).

"Siamo disposti ad accogliere Charlie e a valutarne lo stato, a condizione che vengano attivate misure per trasferirlo in modo sicuro nella nostra struttura, in assenza di ostacoli legali e dopo aver ricevuto l'approvazione d'emergenza dalla Fda per un trattamento sperimentale", hanno spiegato in un comunicato congiunto il New York Presbyterian Hospital e la divisione medica della Columbia University. "In alternativa – prosegue il comunicato – se sarà approvato dalla Fda, possiamo organizzare la spedizione del farmaco all'ospedale Great Ormond Street e offrire una consulenza al personale medico, se sono disposti a somministrarlo". 

Secondo i medici britannici e i tribunali che hanno esaminato la vicenda non esistono concrete possibilità di miglioramento o di prolungamento della vita di Charlie e anche le terapie sperimentali non offrono alcun tipo di certezza. Non è servita dunque la montagna di denaro raccolta dal Charlie's Army (l'esercito di Charlie): 83mila persone hanno partecipato per pagare al bimbo il trasferimento negli Usa e le costosissime cure sperimentali, raccogliendo 1,3 milioni di sterline

Le ragioni del verdetto di Strasburgo

"Una speranza era stata alimentata nei giorni scorsi proprio dai giudici europei che avevano imposto misure preventive per continuare a tenere in vita Charlie in attesa che la corte di Strasburgo si pronunciasse in via definitiva", spiega La Stampa, "nel loro ricorso i genitori del bimbo avevano sostenuto che l’ospedale di Londra aveva bloccato l’accesso a un trattamento per mantenere in vita il piccolo violando cosi il diritto alla vita e anche quello alla libertà di movimento".

"La corte europea alla fine ha però respinto la loro istanza – prosegue il quotidiano torinese – tenendo conto 'del considerevole margine di manovra che gli Stati hanno nella sfera dell’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni morali ed etiche'. È stato affermato quindi che non spetta al tribunale di Strasburgo il compito di sostituirsi alle competenti autorità nazionali. Inoltre i giudici hanno rilevato che 'le decisioni dei tribunali nazionali sono state meticolose e accurate e riesaminate in tre gradi di giudizio con ragionamenti chiari ed estesi che hanno corroborato sufficientemente le conclusioni a cui sono giunti i giudici". 

"Soltanto altri sedici casi al mondo"

"I dottori sostengono che Charlie non può sentire, muoversi, piangere o deglutire e che i suoi polmoni funzionano solo grazie alla macchina a cui è attaccato", si leggeva sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, "il piccolo avrebbe anche subito danni cerebrali irreversibili. A loro giudizio, il trattamento sperimentale americano cui i genitori vorrebbero sottoporlo non avrebbe migliorato le sue condizioni. Ma appena a metà giugno fa la madre aveva pubblicato su Facebook una foto di Charlie con gli occhi aperti: 'Un’immagine vale più di mille parole', aveva scritto. 

Il calvario giudiziario dei genitori era cominciato a marzo, quando la coppia si era rivolta a un tribunale per tentare di fermare la mano dei medici, i quali ritenevano di aver esaurito tutte le opzioni di trattamento disponibili".

"Il piccolo era nato apparentemente in buona salute lo scorso 4 agosto. Ma dopo otto settimane aveva cominciato a perdere forze e peso. Portato in ospedale, gli era stata diagnosticata la sindrome di deperimento mitocondriale, che provoca il progressivo indebolimento dei muscoli", continua l'articolo del 'Corriere', "ci sono soltanto sedici casi al mondo, ma purtroppo entrambi i genitori sono portatori del difetto genetico e quindi Charlie è venuto al mondo segnato dal destino. Da allora il bambino è in terapia intensiva, intubato, e secondo i medici non ha speranze di sopravvivere: per cui meglio staccare tutto per evitargli ulteriori sofferenze".

Once Upon a Place. C'era una volta un luogo. Aman Mojadidi, artista americano di origine afgane, ha trovato un modo originale per recuperare tre vecchie cabine telefoniche a New York e, allo stesso tempo, sensibilizzare sul tema dei migranti e delle migrazioni. Dotate ancora di telefono, e ricostruite in ogni particolare, le cabine non servono per chiamare o mettersi in contatto con un familiare o un amico. Quando si alza la cornetta c'è già qualcuno, dall'altra parte, che attende. Una voce, una storia. Quella di qualcuno che, in passato, è partito dal proprio paese alla volta degli Stati Uniti per provare a cambiare la sua vita. E ci è riuscito. 

L'installazione, che rimarrà attiva fino al 5 settembre a Duffy Square, comprende 70 storie. Da quella più breve, appena due minuti, a quella più lunga, quindici minuti. I protagonisti sono stati intervistati da Mojadidi, sia in inglese che nella loro lingua madre, in moltissimi luoghi della città. Alcuni veri e propri simboli per gli immigrati come il Bronx Museum of the Arts o lo Yemen Café & Restaurant a Brooklyn.

Testimonianze arrivate da tutti e cinque i continenti: dall'Australia alla Cina, dalla Repubblica Dominicana all'Irlanda, dalla Giordania alle Filippine, dalla Spagna al Tibet. Tutte con lo stesso focus: l'immigrazione come svolta di vita. Poco importa se frutto di una scelta o di una necessità. Un vero crocevia del mondo e una rappresentazione perfetta di quello che, ancora oggi, è l'America.

"Sono rimasto affascinato dalla rimozione delle cabine telefoniche" ha detto Mojadidi al New York Times  "e dalla progressiva morte di un fenomeno a me caro. Prima della diffusione degli smartphone ho usato spesso quelle cabine e ho immaginato un modo per recuperare quelle storie che, negli anni, sono state raccontate da quei telefoni". Un modo efficace per combattere tutti gli stereotipi che oggi si sentono sull'immigrazione. Anche a causa delle restrizioni volute da Trump. 

I visitatori, inoltre, possono scorrere le pagine della rubriche telefoniche per conoscere più a fondo i narratori e il loro viaggio. Ma non solo. Hanno anche la possibilità, se lo desiderano, di lasciare una traccia e contribuire così alla condivisione di esperienze. Personali e non. "Once upon a place…". Un luogo che sembra provenire da un altro tempo ma che, invece, è tremendamente ancorato alla realtà.

Kilian Jornet Burgada ha 29 anni, è spagnolo, della Catalogna, ed è l’uomo delle imprese quasi impossibili. Colui che per due volte in una settimana ha raggiunto il punto più alto della terra: l’Everest. Lo ha fatto il 22 e il 27 maggio 2017.  Tra le sue ultime imprese – si legge sul Financial Times – si deve aggiungere anche quella del 20 maggio 2017, quando ha provato a correre sul monte Everest, per raggiungere più velocemente la cima. Non è la prima volta che lo fa, ha già superato i limiti di velocità su alcune delle montagne più alte del mondo, come il Kilimanjaro, il Monte Bianco e il Cervino.

“E’ come se ci fosse un’aura intorno a lui”, racconta il corridore americano Sage Canaday. “Molti lo considerano una leggenda”. "Lui oltrepassa i limiti", dice Ian Corless, titolare del Talk Ultra e una delle voci più importanti dello sport. "Una vita trascorsa in montagna lo ha reso un atleta unico. Ha unito la corsa allo sci e all’arrampicata”.

Le scalate passo dopo passo

Il 22 maggio Jornet è partito dal campo base vicino al monastero di Rongbuk, sul lato settentrionale della montagna, a 5.100 metri. In genere l'arrampicata richiede almeno quattro giorni, anche per chi usa ossigeno e l’aiuto delle funi fisse. Il 29enne ha iniziato ad un ritmo molto veloce, ma purtroppo, arrivato a 7.700 metri, i crampi e i forti dolori di stomaco lo hanno costretto a rallentare. Ha comunque continuato la scalata, raggiungendo la cima in sole 26 ore. La seconda volta, invece, Jornet è partito dal campo base avanzato, a 6.400 metri, alle due di notte del 27 maggio, lottando soprattutto contro il forte vento ed è arrivato in cima (8.848 metri) dopo 17 ore, alle 21.

"Sono molto felice – racconta lo stesso Jornet – per aver raggiunto la cima un’altra volta. Oggi mi sentivo bene, anche se il vento soffiava molto forte ed era difficile salire velocemente. Credo che arrivare in cima all’Everest due volte nella stessa settimana senza ossigeno supplementare apra nuovi orizzonti per l’alpinismo e sono molto contento di esserci riuscito.”

Chi l’ha fatto prima di lui

L’impresa di Burgada è stata notevole, ma bisogna ricordare che già nel 1996, Hans Kammerlander salì in cima all’Everest senza ossigeno supplementare in 16 ore e 45 minuti, partendo come Jornet dal campo base avanzato. Inoltre, sempre in quell’occasione, Kammerlander effettuò la prima discesa in sci. Stando ai dati del sito 8000ers, nel 2007 anche Pemba Dorje Sherpa salì da nord due volte nella stessa settimana e senza ossigeno: raggiunse la cima l’8 maggio e poi di nuovo il 15.

Kilian, l’uomo che odia le città

La montagna è il suo habitat naturale e Jornet non ha difficoltà a nasconderlo. In un’intervista al Financial Times dichiara di odiare le città e di trascorrerci solo pochi giorni l’anno. Ha vissuto per un periodo a Chamonix in Francia ma “era troppo grande e c’erano troppe persone”, racconta Kilian. Non a caso, dopo essersi sposato, ha deciso di vivere con sua moglie in una zona molto isolata della Norvegia.

La scalata dell’Everest è stata l'ultima tappa di un progetto che l’atleta ha iniziato cinque anni fa e che ha chiamato ‘Summit of My Life’. La corsa lo ha appassionato da quando aveva 18 anni e in poco tempo è riuscito a vincere tutte le gare più difficili e competitive del mondo. “Non mi piace fare le stesse gare più volte, dice Burgada, amo sfidare soprattutto me stesso”.

L’amore per la montagna è nata quando era bambino “è da quel momento che è iniziata la mia preparazione per l’Everest”, confessa l’atleta. Il padre era una guida di montagna e si occupava di un rifugio per gli escursionisti vicino al villaggio di Lles de Cerdanya, ad un'altitudine di 1.470 metri. "Ho fatto la mia prima escursione di sette ore quando avevo 18 mesi”. Jornet dice che trascorre circa 1.200 ore all'anno a correre in montagna (una media di oltre tre ore al giorno), per un totale di circa 600.000 metri di ascesa. Ma non è solo l'intenso allenamento che lo rende così bravo."Ho dei buoni geni”, spiega al Financial Times. “Non avrei mai potuto giocare in Nba, ma una volta ho fatto un test che misurava la capacità di un uomo di trasportare ossigeno, un fattore importante per chi decide di correre, e il mio risultato è stato molto alto”.

L'Italia ha ottenuto a Tallinn un sostegno formale per l'insostenibile situazione degli arrivi di migranti dal Mediterraneo centrale, ma non c'è stata nessuna apertura da parte degli altri Paesi Ue sulla ripartizione degli arrivi con altri porti mediterranei. Come ha sottolineato Marco Minniti al termine della discussione al Consiglio informale dei ministri dell'Interno sotto la guida della presidenza estone, "le questioni poste dall'Italia hanno avuto un rilievo. Il lavoro da fare è impegnativo e complicato ma sul piano di azione della Commissione, e in particolare il sostegno alla Libia, il codice di condotta per le Ong e i rimpatri, il sostegno è stato quasi unanime".

Anche se "la regionalizzazione della missione Triton non era all'ordine del giorno di questa riunione", ha spiegato Minniti, "è però evidente che ci sono posizioni contrastanti: noi manteniamo il nostro punto di vista, altri mantengono il loro: ne discuteremo nella sede formale di Frontex con la necessaria fermezza". Minniti nel suo intervento ha particolarmente insistito sulla necessità di aumentare l'impegno Ue e dei singoli paesi in Libia, sottolineando l'ampio divario con l'investimento (3 miliardi) fatto l'anno scorso per bloccare la rotta balcanica. "Gli investimenti in Libia sono insufficienti", ha osservato, "ho riscontrato la disponibilità dei singoli Stati ad aumentarli". 

"La maggior parte dei migranti in Italia non sono rifugiati"

Nella dichiarazione diffusa dalla presidenza al termine della mattinata, fatto straordinario per un Consiglio informale, si sottolinea la "grande preoccupazione" suscitata nei Paesi Ue dalla situazione nel Mediterraneo centrale e dalla pressione sull'Italia. E si sottolinea il sostegno su Libia, codice di condotta per le Ong e rafforzamento della politica di rimpatri. Su quest'ultimo punto ha in particolare insistito al termine della giornata il commissario Ue all'immigrazione Dimitris Avramopoulos. "La maggior parte dei migranti in Italia – ha detto – non ha diritto alla protezione internazionale. Devono essere rimpatriati: per l'Italia è piu' importante".

Anche il presidente di turno Anders Anvelt, ministro degli Interni estone, ha ricordato che "la sola opzione per gli irregolari è il rimpatrio". L'incremento degli sforzi per i rimpatri "non riguarda chi ha bisogno di protezione internazionale ma chi approfitta della situazione di instabilità della Libia, che non riesce a intervenire, per partire". Quanto ai tempi per rendere il sostegno all'Italia operativo, Anvelt ha parlato di "pochi giorni": già la prossima settimana le riunioni tecniche dei rappresentanti dei 28 dovrebbero portare a misure concrete. 

Nella dichiarazione c'è invece solo un accenno alla "riunione convocata dall'Agenzia per i confini e la guardia costiera europea (Frontex, ndr) per discutere dell'operazione Triton". Ma prima della discussione, a Tallin alcuni paesi avevano bocciato la proposta italiana. In particolare, il ministro tedesco, Thomas de Maiziere, aveva detto di non sostenere l'idea di regionalizzare le operazioni di salvataggio: il rischio, per Berlino, è di attirare più migranti e di creare divisioni fra i Paesi. Il tema è anche legato a quello della riforma delle regole di Dublino del diritto di asilo che al momento penalizza l'Italia affidando l'esame delle domande solo al Paese di primo ingresso.

La comunità mondiale dei sikh è in rivolta contro una parte di quella italiana, che ha chiesto al supremo clero religioso di Akal Takht, nel Punjab indiano, l'autorizzazione affinché i propri membri possano portare un 'kirpan', il coltello tradizionale, fatto di materiale flessibile, in grado di chiudersi automaticamente nel momento in cui viene a contatto con qualcuno.

La polemica tra i sikh ha origine nella sentenza con cui nel maggio scorso la Corte di Cassazione dichiarò illegale il "kirpan" portato in luoghi pubblici e affermando la supremazia della legge italiana rispetto ai dettami delle religioni. "Le interferenze dei governi nei nostri affari sono inaccettabili", ha affermato Mukhbir Singh, presidente dell'organizzazione mondiale dei sikh, mentre Ranjit Singh Masuta, fondatore e presidente di Gurdwara Sahib, luogo di culto nella svizzera Langenthal, avverte: "I sikh non prenderanno ordini da alcun governo".

I sikh hanno investito della loro rabbia anche il governo indiano, che con l'Italia ha già un conto in sospeso sui marò accusati di aver ucciso due pescatori. Al primo ministro, Narendra Modi, e al ministro degli Esteri, Sushma Swaraj, è stato chiesto di intervenire su Roma.

Violenze di ogni genere, detenzioni illegali, stupri e torture. È quanto denunciano di subire in Libia migranti e rifugiati secondo il nuovo rapporto "L'inferno al di là del mare", diffuso da Oxfam, Borderline Sicilia, MEDU (Medici per i Diritti Umani) in occasione del vertice dei Ministri degli Interni europei di Tallinn e della conferenza "Solidarietà e Sicurezza" convocata per a Roma dal Ministero degli Esteri, assieme all'Alto Commissario per la Politica estera Ue Federica Mogherini e ai Ministri degli Esteri dei Paesi africani di transito dei flussi migratori. Due appuntamenti che avranno, entrambi tra gli obiettivi principali la "chiusura" della frontiera sud della Libia e il rafforzamento della cooperazione europea con il paese nord- africano.

Sullo sfondo – denuncia Oxfam – centinaia di persone – arrivate in Sicilia negli ultimi 12 mesi – che raccontano di essere state picchiate, soggette ad abusi, vendute e arrestate illegalmente dalle milizie locali, dai trafficanti di esseri umani e dalle bande armate che "controllano" gran parte del territorio di un Paese finito nel caos dopo l'intervento militare franco-inglese che portò al rovesciamento di Muammar Gheddafi. Uomini, donne e bambini che fuggono da guerra, persecuzioni e povertà con la speranza di una vita migliore in Europa per poi finire in un autentico inferno.

"Non ti senti più un essere umano"

Con questa frase si potrebbe riassumere gran parte delle testimonianze raccolte. Una fotografia in cui l'84% delle persone intervistate ha dichiarato di avere subito trattamenti inumani tra cui violenze brutali e tortura, il 74% ha dichiarato di aver e assistito all'omicidio o alla tortura di un compagno di viaggio, l'80% di aver subito la privazione di acqua e cibo e il 70% di essere stato imprigionato in luoghi di detenzione ufficiali o non ufficiali. 

"Sono stato arrestato da una banda armata mentre stavo camminando per la strada a Tripoli", racconta H.R, 30 anni, marocchina, "mi hanno portato in una prigione sotterranea e mi hanno detto di chiedere il riscatto alla mia famiglia (…) Mi hanno picchiato e ferito diverse volte con un coltello Violentavano regolarmente gli uomini. Per spaventarci, in varie stanze amplificavano le urla per le violenze a cui gli altri detenuti erano sottoposti". 

"Ci davano da mangiare raramente. Mi picchiavano, a volte mi hanno torturato. Ho lasciato il mio Paese e ho raggiunto mio fratello in Libia", ricorda K.M., 27 anni, originaria della Costa d'Avorio, intervistata al CARA di Mineo, "un giorno un gruppo di soldati è entrato nella nostra casa. Mi hanno picchiata e sono stata violentata davanti a mio fratello e mia figlia. Mio fratello ha cercato di difendermi ed è stato picchiato selvaggiamente.

"Si tratta di testimonianze talmente atroci da essere al limite della nostra comprensione", afferma la direttrice delle campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti, "racconti di migranti che stiamo aiutando da un anno con il progetto OpenEurope in gran parte della Sicilia, che ci restituiscono uno spaccato inaccettabile di ciò che accade dall'altra parte del Mediterraneo. Di fronte a questa situazione c'è da chiedersi", conclude Bacciotti, "dove stia finendo il senso di umanità dell'Europa e di molti Stati Membri, che nella migliore delle ipotesi, sembrano disposti ad offrire nel vertice di Tallinn all'Italia e ai paesi africani un aiuto rivolto esclusivamente al controllo delle frontiere, e non alla protezione dei diritti umani".

Oxfam: "Apriamo rotte legali per i migranti"

"Di fronte alla palese violazione dei diritti umani dei migranti in Libia, desta particolare preoccupazione quindi l'obiettivo di Italia e Ue di rafforzare il controllo dei flussi migratori non solo da Italia a Libia ma anche con finanziamenti a paesi di transito come Niger, Mali, Etiopia, Sudan e Ciad, dietro una loro maggiore collaborazione nel controllo delle frontiere e nelle procedure di rimpatrio e espulsione, ma senza chiedere loro di rispettare standard nella tutela dei diritti umani dei migranti", afferma Oxfam, "queste misure sembrano tracciare un disegno volto alla chiusura della rotta centrale del Mediterraneo, senza però che vengano predisposti meccanismi di ingresso regolari e sicuri verso l'Italia e l'Europa". Il rischio, secondo Oxfam, "è quello di creare così "nuovi inferni" per le persone in fuga da conflitti, abusi, violenze, fame e povertà". "Uno scenario in cui la vita di centinaia di migliaia di migranti sarebbe ancor più alla mercè delle reti di trafficanti di esseri umani che non operano solo attraverso il Mediterraneo, ma direttamente in Libia e nel continente africano. Facendo aumentare il numero dei morti in mare, che nel 2016 sono stati quasi 6000 e sono 1985 dall'inizio dell'anno", conclude Bacciotti.

I medici dell'ospedale in cui è ricoverato il piccolo Charlie Gard stanno per staccare le macchine che lo tengono in vita. Lo riferisce l'associazione 'Mitocon' che raccoglie i familiari di bambini colpiti da malattie mitocondriali. "Connie Yates, la mamma di Charlie ci ha chiesto aiuto: 'stanno per staccare le macchine a Charlie' ha detto" si legge in un post sulla pagina Facebook dell'associazione, "vi preghiamo, fermatevi. lo statement scientifico è pronto"

Chris Gard e Connie Yates al capezzale del figlio al Great Ormond Street Hospital, sono furenti con i medici "senza cuore" che hanno anche rifiutato il permesso di portare a casa Charlie perché spirasse nel suo lettino. "Non soltanto ci è stato impedito di portare nostro figlio in un centro specializzato negli Usa", hanno detto, "ma ci viene proibito di decidere dove nostro figlio possa morire, a casa sua tra l'affetto di genitori, parenti e amici". 

Secondo i medici britannici e i tribunali che hanno esaminato la vicenda non esistono concrete possibilità di miglioramento o di prolungamento della vita di Charlie e anche le terapie sperimentali non offrono alcun tipo di certezza. Non è servita dunque la montagna di denaro raccolta dal Charlie's Army (l'esercito di Charlie): 83mila persone hanno partecipato per pagare al bimbo il trasferimento negli Usa e le costosissime cure sperimentali, raccogliendo 1,3 milioni di sterline

Le ragioni del verdetto di Strasburgo

"Una speranza era stata alimentata nei giorni scorsi proprio dai giudici europei che avevano imposto misure preventive per continuare a tenere in vita Charlie in attesa che la corte di Strasburgo si pronunciasse in via definitiva", spiega La Stampa, "nel loro ricorso i genitori del bimbo avevano sostenuto che l’ospedale di Londra aveva bloccato l’accesso a un trattamento per mantenere in vita il piccolo violando cosi il diritto alla vita e anche quello alla libertà di movimento".

"La corte europea alla fine ha però respinto la loro istanza – prosegue il quotidiano torinese – tenendo conto 'del considerevole margine di manovra che gli Stati hanno nella sfera dell’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni morali ed etiche'. È stato affermato quindi che non spetta al tribunale di Strasburgo il compito di sostituirsi alle competenti autorità nazionali. Inoltre i giudici hanno rilevato che 'le decisioni dei tribunali nazionali sono state meticolose e accurate e riesaminate in tre gradi di giudizio con ragionamenti chiari ed estesi che hanno corroborato sufficientemente le conclusioni a cui sono giunti i giudici". 

"Soltanto altri sedici casi al mondo"

"I dottori sostengono che Charlie non può sentire, muoversi, piangere o deglutire e che i suoi polmoni funzionano solo grazie alla macchina a cui è attaccato", si leggeva sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, "il piccolo avrebbe anche subito danni cerebrali irreversibili. A loro giudizio, il trattamento sperimentale americano cui i genitori vorrebbero sottoporlo non avrebbe migliorato le sue condizioni. Ma appena a metà giugno fa la madre aveva pubblicato su Facebook una foto di Charlie con gli occhi aperti: 'Un’immagine vale più di mille parole', aveva scritto. 

Il calvario giudiziario dei genitori era cominciato a marzo, quando la coppia si era rivolta a un tribunale per tentare di fermare la mano dei medici, i quali ritenevano di aver esaurito tutte le opzioni di trattamento disponibili".

"Il piccolo era nato apparentemente in buona salute lo scorso 4 agosto. Ma dopo otto settimane aveva cominciato a perdere forze e peso. Portato in ospedale, gli era stata diagnosticata la sindrome di deperimento mitocondriale, che provoca il progressivo indebolimento dei muscoli", continua l'articolo del 'Corriere', "ci sono soltanto sedici casi al mondo, ma purtroppo entrambi i genitori sono portatori del difetto genetico e quindi Charlie è venuto al mondo segnato dal destino. Da allora il bambino è in terapia intensiva, intubato, e secondo i medici non ha speranze di sopravvivere: per cui meglio staccare tutto per evitargli ulteriori sofferenze".

In un'intervista al giornale tedesco 'Welt am Sonntag', Bill Gates, fondatore di Microsoft e uno degli uomini più ricchi del mondo, ha dichiarato che i leader europei stanno peggiorando la crisi dei migranti accogliendo un numero enorme di persone e soprattutto dando loro la sensazione che in Europa c’è spazio, quindi vale la pena imbarcarsi. Un atteggiamento politico che potrebbe portare disastri. In particolare, Gates ha parlato della Germania e della posizione di Berlino sull’apertura ai migranti. Ma il suo discorso è chiaramente estendibile ad altri Paesi, compresa l’Italia. I commenti arrivano all’indomani della convocazione da parte del nostro governo dell'ambasciatore austriaco, dopo che Vienna aveva minacciato di mandare truppe al confine per impedire l'ingresso degli immigrati (minaccia poi ritirata da Vienna). 

Le principali affermazioni fatte da Bill Gates nell’intervista:

  • "Da un lato volete dimostrare generosità e prendere i rifugiati, ma più generosi siete, più invitate persone a lasciare l'Africa”.
  • "La Germania forse non può accogliere il numero enorme e massiccio di persone che vogliono farsi strada verso l'Europa".
  • “L’Europa ha bisogno di rendere più difficile per gli africani raggiungere il continente attraverso i percorsi di transito correnti".
  • "La tumultuosa crescita demografica in Africa diventerà un’enorme pressione migratoria sull’Europa, a meno che gli Stati decidano di aumentare in modo consistente gli aiuti allo sviluppo alle terre d’oltremare".

La Fondazione Bill e Melinda Gates hanno speso milioni di dollari per aiuti in Africa per prevenire la povertà e le malattie. E il Corriere della Sera rileva come il fondatore di Microsoft abbia cambiato idea su questo tema. Ancora nel gennaio 2016, scrive il Corriere, al World Economic Forum di Davos, il fondatore di Microsoft si esprimeva in questi termini: "La Germania e la Svezia sono da elogiare per il modo in cui accolgono i migranti. Gli Stati Uniti dovrebbero seguire il loro esempio".

In quel periodo alla Casa Bianca c’era ancora Barack Obama. Il presidente resisteva alle pressioni dei parlamentari democratici che chiedevano di accogliere più rifugiati dalla Siria e dal Medio Oriente. Ora il quadro è cambiato. O meglio, Gates continua a elogiare il governo tedesco, ma per altri motivi. La Germania devolve lo 0,7% del Pil alle nazioni africane e asiatiche in difficoltà: "È fenomenale. Altri Paesi europei dovrebbero fare lo stesso».

Leggi l'articolo integrale sul Corriere della Sera

Finora i vincoli finanziari hanno prevalso sull’idea di far lievitare gli investimenti umanitari e di cooperazione. La Ue ha solo iniziato a discutere di un piano da 62 miliardi. Qualche governo ha messo in campo iniziative mirate. L’Italia, per esempio, a febbraio ha assegnato 200 milioni di euro principalmente a Nigeria, Libia, Tunisia per contrastare «il traffico di esseri umani e l’immigrazione illegale". "Bisogna fare presto — conclude Gates — la Germania e l’Europa non sono in grado di far fronte alle persone che in Africa sono già pronte a partire".

Leggi anche: Perché il vertice di Tallin sui migranti rischia di fallira prima di iniziare